
blebb variazioni su massimario // poesie e grafiche pittoriche di alfonso malinconico

blebb variazioni su massimario // introduzione di marcello carlino
BLEBB – Testo a fronte
Quella del testo a fronte, qui a Blebb, è prassi deliberata e diviene regola di costruzione, modalità operativa strategicamente sistemica. Si può dire con fondata ragione, per giunta, che essa attenga ad una filosofia compositiva pensata con rigore, applicata con convinta determinazione. Una filosofia tutt’altro che neutra; messa al servizio, invece, di una puntutissima, risoluta tendenza.
Già allocare su fogli adiacenti, l’uno speculare all’altro, corpi o aggregati di scritture che si implichino, e intrattengano relazioni dialogiche o di stretta congruenza e contatto semantico, significa, infatti, chiamare il lettore ad una fruizione consapevole, volerne il risveglio da un abbandono fiducioso, da una regressione sedativa e ipnotica. Sempre, nei percorsi di andata e ritorno dei testi a fronte, si coglie un segno di noncoincidenza, un tratto di dissomiglianza nella similarità, di discostamento nella contiguità: una linea di interruzione, un elemento di devianza, un dislivello, una faglia, un passaggio incerto ed impervio. E sempre chi legge è perciò sollecitato ad una ginnastica dell’occhio e della mente per cui svaria da un quadrante testuale al quadrante specularmente e dialetticamente opposto: e così confronta, compara, misura le differenze di potenziale, le torsioni prodotte dalle rifrazioni e dalle volture, non potendosi esimere da esercizi siffatti se – in risposta all’appello delle scritture sdoppiatesi nel libro come altrettanti individui alle prese coi loro cloni più o meno dirazzanti – intende essere all’altezza del suo compito di lettore. Sempre, tra un testo e l’altro di queste sequenze duali, si slarga infine una lacuna, uno spazio di indeterminazione dove si elegge domicilio – su invito pressante, e quasi dietro decreto ingiuntivo – per la lettura responsabile e collaborativa di un lettore partecipe e padrone di sé. Un lettore della genia dei lettori ipocriti, consanguinei e proprio fratelli degli autori – tutt’altro che buonisti o benevolenti anche costoro – che raccomandano vivamente un lavoro critico per entrare nell’opera, e interpretarla, e portarla a proiezione e sviluppo.
Alfonso Malinconico, inoltre, non si ferma davvero a questo primo stadio. Se il modo del testo a fronte è, nella quasi totalità dei casi usualmente occorrenti, affare di mediazione linguistica, e cioè di traduzione- per la qual cosa l’originale e la sua versione sono scelti per colludere -, in Blebb è in questione una transcodificazione, per di più intersemiotica. Da una parte c’è la scrittura, il cui taglio sartoriale ha certamente una sua precisa linea non lontana dal design dei calligrammi o delle tavole fatte esclusivamente di parole in libertà (una sagoma da stadera salomonica qua, un’ansa da corso fluviale prima della foce a delta là; di frequente righe di lunghezza e spessore diversi disposte intorno all’asse centrale della pagina – come a disegnare un totem o come nelle costruzioni didattiche per bambini cresciute in anelli intorno ad un perno – con svolazzi di parole o scie lettristiche sopra o sotto, nel ruolo presumibile di deiezioni o di fonti di approvigionamento); dall’altro c’è la poesia visiva, ma quella in cui il linguaggio verbale non è dominante e sta invece alla pari con gli altri linguaggi, graficizzato nello schema di un cruciverba, o ingoiato in una macchia di inchiostro, o ripreso in tinte e in bave policrome (il boccascena e il sipario di un teatro, la ringhiera e gli scuri di una casa, le carte geografiche alla De Chirico sono gli oggetti più battuti; la consistenza materica del colore e degli interventi sul testo visuale indicano nel montaggio e nel collage le tecniche prevalenti): dai fronti di una siffatta dislocazione a specchio deformante, è facile che si collida, piuttosto, e comunque la forma di relazione, la logica della transazione, diviene quella del commento. Un commento in piena reciprocità, se, nel segno pieno del testo a fronte, le serie verbali possono valere da didascalie a supporto delle immagini e queste, a loro volta, come illustrazioni di quelle.
E tuttavia neppure a questo secondo stadio Alfonso Malinconico decide di fermarsi. Il suo processo di passaggio commentante, di transcodificazione intersemiotica, infatti, interessa una materia ben precisa e strutturata: è il massimario della Corte di Cassazione: cioè un codice, anzi un ipercodice, un manuale abbreviato e un sommario di istruzioni per un pronto uso al quale è conveniente o si ritiene comodo per norma adeguarsi. Un testo prescrittivo, per definizione compatto, icastico come una raccolta di proverbi monitori e regolativi (non poco astrusi frattanto), che non si manca di far funzionare – così suggerisce direttamente l’autore – alla maniera di una slot machine per le sentenze.
Sulle dinamiche di scambio proprie del commento che costituiscono la ratio del libro, l’atto di intersemiosi diviene allora serrato procedimento critico: tra ironia, indignazione, umorismo e sarcasmo amaro Alfonso Malinconico decostruisce il vangelo, una raccolta di frammenti sentenziosi in più tomi con sedicenti interpretazioni giuste, dell’ordine giudiziario. Preleva così che se ne evidenzi l’astrattezza; sposta tanto che se ne ravvisi la funzionalità servile; ripete come fa un disco che si incanta, al punto che ne sbalzi la meccanicità autoreferente, avulsa dalla vita. E poi copre i frammenti del massimario, ne cancella delle parti, li rasciuga in filamenti, li rimpasta in neoformazioni anagrammatiche, li veste da fantasmi, li ricovera un una casa chiusa (la casa madre del potere?) o li indirizza verso un buco nero, li ricuce con altri fili prestandoli a una significazione del tutto alternativa, facendone materia di un libero gioco espressivo. Ne scopre la pertinenza alle leggi dominanti dell’economico (il tema del prezzo e delle condizioni d’acquisto del massimario è ripetuto e rende testimonianza, quanto ai rapporti sociali di produzione e alla dialettica del potere, della condizione almeno di informato sui fatti alla quale non può dirsi estraneo questo istituto di convenzione giuridica) e in contemporanea va schierandole a fronte una via di resistenza e di fuga, una possibilità di riconversione antieconomica.
Che il gioco, però, non finisca neppure qui, il lettore avvertito, abile nel districare i testi a fronte, presto lo capisce. Il massimario, trattato così, allude al che fare nei processi e nei dibattimenti anche extragiudiziari in cui siamo presi ogni giorno, nei quali è proprio la messa in questione dei codici, dei tanti codici che manovrano la nostra socialità, a decidere quanto sappiamo usare della nostra libertà e progettare consapevolmente e meglio il futuro; e allude metalinguisticamente alla letteratura, che lavora anch’essa di codici per poterli rivitalizzare, per restituirli ad una più degna funzione, per riempirli di novità di significazione, di conoscenza, di lettura del mondo.
E certo, per questo, il libro di Alfonso Malinconico ha dell’allegoria. Come il suo titolo Blebb plurimo tra la mescidazione di un blob dadaista, una esclamazione di riprovazione e di disgusto, un neologismo inaugurale più serio di un gioco.
Marcello Carlino
blebb variazioni su massimario // introduzione di lamberto pignotti
Per il
MASsimario di Malinconico
I testi metaforicamente e sarcasticamente morali
sono parte integrante della educazione del popolo,
e chi sa farne dei convincenti può essere certo
di meritare le benedizioni di quanti
con tutte le potenze dell’anima loro
intendono alla difficile e delicatissima arte
dell’indottrinamento civico e giuridico,
ragione per cui questo “Blebb” di Alfonso Malinconico,
sottotitolato come “Variazioni su Massimario”,
oppure “Massim(magin)ario”,
ovverosia “Di qualche mistero della disgrazia e dell’ingiustizia”,
o anche “Alla ricerca del Massi(ri)mario perduto”,
ricerca illuminata qua e là dai lampi d’argento fuso
a cui s’oppone la rima baciata
e la cui valutazione spetta solo al giudice di merito
identificabile in un certo Carlino Marcello
(o Marcello Carlino?: da verificare),
che però rende manifesto il sintomatico rifiuto
di consegnare il passaporto rivelatore di una tendenza ostruzionistica
mimetizzandosi tra la mescidazione di un blob dadaista,
una esclamazione di riprovazione e di disgusto,
un neologismo inaugurale più serio di un gioco,
ed ha un bel dire l’esegeta nell’asserire che il gioco non finisce qui,
e nell’alludere metalinguisticamente, all’unisono con l’autore,
alla letteratura, che lavora anch’essa di codici per poterli rivitalizzare,
per restituirli ad una più degna funzione,
per riempirli di novità di significazione, di conoscenza,
di lettura del mondo
ravvisabile ad esempio
fra le donne di Picasso a braccia alzate con gesto di minaccia
e le madri che sono tornate serene ad accudire i pargoli,
con beneplacito di Gesuiti e Giuristi Cattolici,
ma c’è anche la piovra nera, c’è il risarcimento dei danni,
c’è la determinazione della pena, c’è la massima consolidata e aggirata,
c’è soprattutto la deprecata e distanziata Corte Suprema di Cassazione,
c’è un testo, articolato e comparato sinotticamente, verbale-visivo che
rimanda forsennatamente – con procedimenti speciali – a delle immagini
visivo-verbali,
e dunque come può un lettore attento e acuto non sentirsi
“logicamente”, attratto già a prima vista dal “Blebb-Massimario” diAlfonso,
dalle cui pagine
fanno capolino Lautréamont, Marinetti, Apollinaire, Gadda e compagnia
bella… trasudano umori di farfalle frustrate
private dei principi generali
sul legittimo interesse? come può il sunnominato non sentirsi
“logicamente” intrigato in questo “Blebb”, tecnologico e verbo-visivo?,
seppure “logicamente” si fa per dire… si fa tanto per dire…
e magari sarà anche vero che “la logica è figlia del buon senso”,
come succintamente (saccentemente…) asserì al tempo dei tempiAristotele
citato in giudizio proprio in apertura dall’autore,
ma mettendo da parte il brav’uomo, un padre certamente putativo,
è proprio sulla condotta della madre, donna alquanto volubile e versatile
negli amplessi in tempi in cui non incombeva la prova paterna del DNA,
che si nutre ormai in merito qualche perplessità, perplessità che marcatamente
adombra proprio quella figlia – “logica” o sedicente tale –
tenuta giustamente alla larga
dai più veraci artisti, scrittori e critici,
nel cui novero “legittimamente” vanno inscritti l’autore qui in oggetto,
il suo primevo esegeta (vedi sopra)
e l’intrufolato sottoscritto
Lamberto Pignotti