
gaetano delli santi

postfazione di francesco muzzioli a ‘Discolo’ di Gaetano delli santi
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Francesco Muzzioli
SCRITTURA E ALTERITÀ
Niente confidenza
Nella concezione della poesia presso il senso comune è invalsa ormai quella che possiamo chiamare una “fallacia espressiva”. Quanto più la scrittura in versi, esclusa dal mercato, si riduce a pratica privata e tanto più prende egemonia la sua configurazione come espressione immediata e spontanea della emozione del vissuto. O, meglio ancora: del contenuto intimo interiore della persona. La poesia si fa confessione e confidenza. E ciò esattamente va a compensare la crisi dell’identità indotta a livello sociale da un lato dalle pressioni multiculturali, dall’altro dalla esclusione dal lavoro e quindi dalla perdita di ruolo e di funzione. Siamo ormai considerati come meri consumatori e quindi tirati di qua e di là dai richiami, spesso contraddittori, delle réclames di seduttivi investimenti. Non sappiamo più chi siamo e allora per esistere ci chiniamo sullo specchio della scrittura: “mi esprimo, dunque sono”. Ma questo specchio è illusorio: infatti, mentre pensa di recuperare un profilo individuale, il soggetto scrivente non fa altro che manipolare il linguaggio, cioè uno strumento che non appartiene a lui, bensì alla collettività. Crede di esprimere il se stesso più profondo e invece sta parlando con una voce altrui. Esistere grazie a questo specchio di parole significa finire assorbiti nello specchio, esistere come parvenza fantasmatica. La parola dunque nasconde una trappola, e la sua pretesa espressione si rivela sostanzialmente una menzogna.
La consapevolezza di questo trabocchetto è il punto di partenza del libro di delli Santi. Non si può esprimere se stessi con il linguaggio di tutti. Nello stesso tempo, però, il rifiuto radicale dell’alienazione linguistica non immette miracolosamente in un luogo vergine, in una parola misticamente purificata, che non sarebbe altro che un ulteriore e totale accecamento. Sfocia invece in un circolo vizioso: «Sfuggire alla menzogna delle parole / non è affatto possibile / poiché la naturalità delle parole / sta tutta nelle loro menzogne», sostiene delli Santi nel cuore della sua raccolta, nel pezzo indicato con il numero 408. Ci si trova a fare i conti con un percorso problematico in cui si sconta una complessiva perdita di confidenza nella comunicazione, in un processo sostanzialmente infinito di affrontamento di una situazione contraddittoria: «La poesia vive di contraddizioni» (pezzo 182).
Silenzio e suono
A rigore, l’unico modo di sabotare il codice linguistico sarebbe evitare di confermarlo e di riprodurlo, ovverosia il silenzio. Ma rimanere muti, se salverebbe la coscienza, però non scalfirebbe di un millimetro la potenza del mezzo verbale. Che fare? In delli Santi il “silenzio” viene prospettato, è una parola ad altra frequenza nella sua poesia, tuttavia gli è chiaro che già scrivere di tacere («Tacere per dare al silenzio la parola», si legge nel pezzo 404) rompe il mutismo. E basta considerare l’accumulo di brani nella raccolta per capire che qui il silenzio viene realizzato con il suo esatto contrario, lo sproloquio. Il silenzio è, come si suol dire, eloquente; e infatti lo si trova nominato – a mo’ di ossimoro – in compagnia di manifestazioni affatto silenti: la «voce del silenzio», la «parola del silenzio», addirittura il grido e l’urlo.
Piuttosto che smettere di parlare, ecco che si prospetta una diversa soluzione, ovvero un diverso annullamento del linguaggio: precisamente nel distaccare il suono dal senso. Attenzione, però: non si tratta di quella strada, battuta dalle avanguardie storiche, che procede – per dirla con Barilli – verso il “termine della parola”, mettiamoci la lingua zaum dei futuristi russi e i vocalizzi o i respiri e tutta la fonetica soprasegmentale di certe prove di poesia sonora. Non ci si affida neppure al rapporto diretto del contatto “fisico” con il pubblico della performance. Forse è più esatto dire che qui la parola viene staccata dal suo ancoraggio nel significato corrente. La parola è, in certo qual modo, sospesa nel vuoto, ma anche, contemporaneamente, liberata di un peso, il peso del senso. L’organismo della unità verbale rimane intatto, non viene né spezzato, né deformato. Viene però inserito in una catena che non può più essere recuperata ad una unità e linearità di livello semantico (l’isotopia, direbbe una certa semiotica). La scoperta che è possibile elaborare attraverso gli stessi mattoni linguistici una costruzione che deragli e si sfaldi, ovverosia una catena anisotopica, è il motore che muove questo testo e lo innerva nel suo complesso dappertutto, nelle diverse soluzioni che lo contraddistinguono, che sono tante, come si può vedere dalla quantità abnorme dei pezzi che lo compongono. Ad apertura di libro ci si rende conto che lo schema sintattico regolare è riempito da una serie di significati che proprio regolari non sono, cozzano tra loro, sono sconvenienti. E ci si accorge che, come lettori, dovremo “lavorare” (con un impiego di energie intellettuali maggiore rispetto alla lettura “scorrevole”) per cogliere rapporti sottotraccia e per immedesimarci non già nello stato emotivo, ma nell’intenzionalità organizzativa dell’autore. Dovremo interrogarci, su di un paradosso come “il senso del non senso”. Tanto è chiaro che per l’autore il riferimento alla comunicazione con il lettore è diventato un falso problema, uno dei suoi imperativi essendo «Distogliersi dalla sonnolenza / di rendersi / necessariamente leggibili» (pezzo 372).
Al di là dei generi
Ad apertura di libro, non si può non notare la diversità, l’eterogeneità e la difficile catalogazione di questi pezzi. Non soltanto la loro diversa lunghezza, sempre instabile, ma soprattutto il genere di scrittura, in particolare l’alternanza tra prosa e verso. Certo, il verso è un verso libero, quindi esente dalle leggi della metrica, che fa a meno anche di quel procedimento dispositivo che sono tradizionalmente le rime; dall’altro lato, la prosa non guadagna assolutamente una dimensione narrativa: per cui si potrebbe dire che i due generi tendenzialmente si incontrano a metà strada, a chiasma, verso prosaico e prosa poetica. Tuttavia, a livello percettivo-visivo, il senso di una alternanza è forte. E indubbiamente è resa difficile la collocazione, l’inquadramento. Del resto, per forza: poiché le distinzioni di genere fanno parte integrante del codice della lingua, ne sono i sottocodici deputati: il rifiuto di “essere parlato” da norme eterodirette fa sì che delli Santi non possa rientrare nei generi stabiliti, che costituirebbero già preventivamente un condizionamento oppressivo. Deve, invece, sfuggire continuamente al riconoscimento; di qui il carattere “discolo” della sua scrittura, disubbidiente, alternativa, anomala. E la composizione di un testo “mostruoso”, ingombrante, polimorfo, affetto da una continua mutazione. Impegnato «nell’abbattere le pareti del discorso ordinario», il libro non può avere ordini di alcun tipo, come ripartizioni interne o titoli di sezione, né può affidarsi a un preciso meccanismo combinatorio. Il tendere «allo stato puro sovversivo» fa sì che non debba appoggiarsi su nessuna coordinata. La parola “poesia”, che pure vi compare, perde i suoi connotati di genere lirico per diventare sinonimo di scrittura. E anche l’io che vi funge da soggetto sarà caratterizzato
dal nomadismo, dall’erranza; avrà atteggiamenti discorsivi diversi, dal dialogo al monologo, dall’evocazione alla visione, fino all’invettiva, come vedremo. Il testo stesso avverte: «Ciò che la parola porta nel linguaggio della mia scrittura è un àngolo acuto e perforante» (pezzo 344).
Da metafora a metamorfosi
Un primo espediente che sposta la parola dal suo significato consueto è comunemente trovato nella metafora. “Metafora” significa per l’appunto “spostamento”, è un tratto di dinamismo mentale che sfrutta le sfumature, gli elementi secondari per spiazzare il linguaggio. Non c’è dubbio che la poesia incentivi molto i procedimenti metaforici (sebbene gli antichi dicessero che, per sentirne il prorompente rigoglio, non c’è bisogno di accademie liriche, basta andare al mercato). Tuttavia proprio questo uso in qualche modo scontato nei testi poetici ne indica anche il limite. “Le metafore il sole han consumato”, lamentava già Salvator Rosa. Le metafore stesse si consumano, entrano nel vocabolario corrente, non si riconoscono neanche più come tali. Per giunta, anche la “distanza” tra metaforizzante e metaforizzato che quella “regina delle figure” può vantare rispetto ai piccoli passi di metonimia e sineddoche è, a ben vedere, sempre relativa. C’è sempre nella metafora una qualche comunanza analogica che, quindi, riconduce in qualche modo nell’ambito del motivato e quindi del prevedibile.
Occorre perciò forzare la metafora. E questa operazione prende, nel testo di delli Santi, diverse vie. Quella della sorpresa, cioè della riduzione al minimo dello spazio dell’analogia, ossia del terreno comune ai due termini dello scambio (come quando, nel pezzo 348, troviamo la «ferrovia d’una bocca», accostamento sorprendente e originale, sebbene non del tutto gratuito, fondandosi sul parallelismo delle labbra: una piccola somiglianza rispetto alle tante differenze…). E quella del peggioramento, dove la metafora invece di fungere da abbellimento e invece di apparire come un felice momento creativo, prende a tingere di tinte fosche il suo oggetto, producendo un movimento di acuta catabasi, di sprofondamento del significato, fino a ritrovare esattamente la sua ispirazione nel “basso”, «nell’òrrido e nel raccapricciante».
Ma soprattutto la tendenza è di portare il lavoro della metafora verso la metamorfosi. Che cosa si vuol dire? Più che fornire un apporto “virtuale” (quando il poeta dice “Achille è un leone” sta parlando di un guerriero e nella battaglia non c’è nessun leone, ma solo un eroe coraggioso e belluino), adesso lo spostamento riguarda la stessa realtà, ovvero lo scenario che le parole fanno sorgere davanti a noi. Si tratta di una vera e propria trasmigrazione dell’uno nell’altro. E la forza capace di compiere quest’opera di commistione è indicata in più punti nella carica dell’eros: «l’erotismo si sostituisce all’istinto e dà alle sue azioni un comportamento ètico, incline al piacere di conoscere se stessi attraverso gli altri», recita il pezzo 456. E ciò vale anche per la giunzione delle immagini, le nozze dell’anthropos con il cosmos (vedi il pezzo 94: «E il cielo che inonderà / i tuoi seni / scioglierà il mare / nelle tue braccia»). Così come i corpi, le parole – direbbe Breton – fanno l’amore (“Les mots, du reste, ont fini de jouer. Les mots font l’amour”). I diversi poli non si scambiano solo di posto, ma si intrecciano attraverso una serie di connessioni linguistiche non più analizzabili come semplici imprestiti di parti del significato.
Semantica del delirio
Il modello di questo linguaggio out of joint, di questo «linguaggio non comune» (per dirla con il pezzo 78) è la follia. L’esempio è quello dei pazzi che mettono a rischio la propria stessa esistenza resistendo alla comunicazione ordinaria. L’imperativo è: «Essere pazzo; essere ciò che l’infinito nasconde, essere lo strumento con cui smuovere i gorghi d’innumerevoli mondi» (pezzo 195); e: «aspiro al linguaggio dei folli» (pezzo 444). Il linguaggio prende la forma del delirio, ma sarebbe più esatto dire perde la forma nel delirio.
Questa ricerca dell’illogico collega delli Santi alla linea dell’avanguardia dada-surrealista e, ancora a monte, agli antenati dei surrealisti, a Sade, a Blake, a Novalis, a Lautréamont, ma soprattutto a Rimbaud, al quale è dedicato un significativo testo di omaggio. Ovviamente analizzare questa disposizione verbale vorrebbe dire ridurla alla normalità e perderne la carica antagonista. E poi, è vero, qui non ci può essere nessuna “grammatica”, perché si procede per continui slittamenti proprio al fine di sfuggire all’ordine del discorso. Tuttavia è possibile, accontentandosi di un avvicinamento in qualche modo pedestre, indicare alcuni piani significativi di questi slittamenti: associazioni incongrue e combinazioni impossibili tra astratto e concreto, infinitamente grande e infinitamente piccolo, umano e non-umano, naturale e artificiale, celeste e terrestre, culturale e quotidiano,
Si può provare ad aprire il libro a caso e novantanove su cento si troverà un “magma semantico” di questo tipo. Mi tocca fornire un esempio e allora cito, mettendo tra parentesi quadre le mie osservazioni, questo tratto dal pezzo 222: «Sopra la spada d’un cuore errante… [passi per il “cuore errante” che potrebbe essere la buona metonimia di un vago sentimento, ma perché conterrebbe l’aggressività della “spada”?] vedo la cicuta nata di soprassalto da una luna dirupata [il veleno della “cicuta” proviene dalla “luna”: scarto terrestre/celeste]. Se la forma dell’oscurità non è che la meditazione del sesso maligno [connessione analogica tra “oscuro” e “maligno”, ma incongruenza tra “forma” e “meditazione”; e poi: un sesso che medita?] e ogni tulipano d’avarizia [concreto+astratto, naturale+morale] vive nel sacramento del palcoscenico divorato dalle sue stesse azioni… [non solo il “sacramento” è associato al “palcoscenico”, quindi accusato di messinscena, ma addirittura si autodivora: ma non sarebbe dovuto essere, allora, piuttosto un boccascena?] allora ci sarà dato disperare o girar la màcina della vita [oh, almeno qui una metafora: la vita gira in tondo come la macina; e però è una metafora negativa, del peggioramento] come quel latrato palpitante di mulino [il mulino va bene con la macina, ma non si capisce come possa latrare: slittamento cosale/animale] che fosse ancora in uso a reggere la propria disperazione persino a dispetto della farina senza strade? [il cosale si sposta nell’umano, se prova “disperazione”; la “farina” è della famiglia della “macina” e del “mulino”, ma non gli è appropriata la “strada”; è vero però che la farina è dichiarata “senza strada” – e vorrei vedere che ne avesse, non è mica una città… – e che in fondo i nostri interrogativi sono anticipati dall’interrogazione con la quale conclude il testo stesso]».
Insomma, in questo libro i “cadaveri squisiti” si moltiplicano e si complicano, vanno a costituire una sorta di tessuto connettivo del discorso poetico, di sfondo continuo e quasi di garanzia di abnormità. Dopodiché, su questa base, ogni singolo brano lancia il suo colpo di dadi, coglie il suo specifico bersaglio, talvolta chiarisce anche i propri intenti lanciando in tale insieme scomposto l’amo di una formula o di una parola d’ordine, che un passo appena dopo è però già sprofondata nella determinata affermazione del non-senso.
L’invettiva
Tra questi spunti emergenti, quasi aguzzi scogli, si distingue in modo particolare l’invettiva. E in questo caso si tratta di una vera e propria punta. Malgrado la messa in opera della “semantica del delirio”, lo spettro del linguaggio costituito rimane sempre presente. Per forza, non è altro che l’ombra della società. La distinzione dell’individuo ha bisogno allora di un gesto che sia altrettanto violento della forza che lo opprime e lo reprime, che si misurerà sul disprezzo per «la quotidianità con tutta la sua ipocrita bontà» (pezzo 18). L’invettiva è la forma di questa reazione verbale.
Qui l’ascendente di delli Santi viene a farsi espressionista. La poesia si tende contro l’istanza che le si oppone per cancellarla, per annullarla; la stessa funzione dell’elemento escrementizio è esattamente di tipo nientificante. L’invettiva è quella “mossa” che pur confacendosi alla definizione dello “stile” (deviazione dalla norma), eppure contraddice ogni stile, inteso nel senso di decoro e sussiego – e infatti non per caso l’invettiva è irreperibile nei buoni manuali di retorica. Il suo impulso «procede dal risveglio di parole corporee e materiche» che debbono incidere sullo schermo del perbenismo ipocrita di chi «ti ama fraternamente / d’un amore falso / e frusto» (pezzo 648). L’invettiva prorompe, è linguaggio non trattenibile, tanto che già nel pezzo 2 la sua emissione è paragonata al vomito e alla eiaculazione. Sia che il «debosciato millennio» sia rinvenuto nella vita collettiva spersonalizzata della città, sia che si sottolinei la presa del denaro con la mercificazione di tutto, la lingua strozzata nel «tunnel televisivo», si tratta di punti indubbiamente di massima intensità del testo.
E si comprende anche perché questa poesia non possa accostarsi neanche un poco alle forme chiuse. Cominciano ad apparire in alcuni punti le parole obsolete e il lessico antico che sono la caratteristica di questo autore; ma le forme della tradizione, il ben tornito endecasillabo, la rima, il sonetto (che pure in quel torno di tempo alcuni giovani sperimentatori stavano cominciando a riprendere per quanto non in funzione antiquaria-nostalgica), le forme tradizionali quelle no. Il motivo è evidente: mentre il lessico del passato è chiamato a raccolta per essere gettato come un corpo contundente in faccia a un pubblico ormai assuefatto alla “lingua di plastica”, proprio questo gesto virulento non consente nessun ripristino di equilibri metrici o di equivalenze armoniche. Tutto ha da essere dissonante e smisurato. L’invettiva è linguaggio “fuori dei gangheri” e quindi lascia da parte qualsiasi “forma buona” della poesia.
Esorbitanza e disantropomorfizzazione
L’unica regola possibile per una poesia che vuole “uccidere l’ovvietà” è l’esorbitanza e la riscontriamo anche soltanto guardando il volume. Un insieme di 689 pezzi non può essere un insieme controllato, è per forza una somma caotica, il cui termine viene segnato dalla casualità:
perché 689? Perché non uno di più o uno di meno? Non potrebbero continuare ancora? Nulla lo vieterebbe, manca una vera e propria parola “fine”, sebbene potrebbe funzionare da tale la presa d’impegno che chiude l’ultimo pezzo: «potrò anticipare l’avvenire e foggiare un mondo libero in mezzo alla rovina e al putridume». Ma si tratta, per l’appunto, di rilancio ipotetico e condizionale; e questo perché la derogazione è inesauribile, può terminare solo in via provvisoria. Né del resto è possibile individuare curve sinfoniche, punti nodali, apici o scioglimenti di sorta. Ogni pezzo è ugualmente risolutivo e nello stesso tempo ogni pezzo è insufficiente, non è altro che il pezzo di una unità perduta, anzi, di una unità da perdere (come direbbe Adorno: “Das Ganze ist das Unwahre”, il tutto è il falso). E il testo stesso parla a buon diritto di una «inconclusione (o conclusione indefinitamente non conclusa) che non ama proporzioni» (pezzo 263), e dichiarerà il progetto di un cambiamento inesausto, caleidoscopico e pluralistico: «Desidero una parola sporca di tutto e incredibilmente ripiena di precipízi, fatta di cose ancora tutte da esplorare, fatta di sentieri senza stanze, di voci mùltiple e infiammate» (pezzo 321).
Ora, è evidente che l’alterità del linguaggio pone l’accento sulla singolarità del soggetto. Se l’individuo è nella massa, allora non è più individuo – è il pensiero elementare sotteso a questa poesia. Ma la società è diventata una società di massa, dove anche le classi sociali non si distinguono più bene, sfruttatori e sfruttati sono immersi nella stessa cultura, sono prima di tutto essenzialmente consumatori. Allora, l’unica è uscire dalla società: intendo dire che questa operazione poetica sottintende una inevitabile opzione anarchica.
Forse anche qualcosa di più: è in gioco l’“essere uomo”, l’appartenenza alla specie. «Non essere uomo / è ancora tutto ciò / che ha da essere» (pezzo 217).
Il pensiero umanista e la sua etica, protratta e perpetuata fino all’odierno scrupolo del politicamente corretto, non ha poi mai impedito il realizzarsi delle peggiori brutture, sopraffazioni, distruzioni e stragi. La stessa parvenza vitale – il movimento continuo, la ricerca dei piaceri, ecc. – nasconde una interiorità “reificata”: è una sorta di “morte in vita”, sulla quale tornano a battere diversi componimenti del libro. Uscire dall’uomo diventa allora il tentativo paradossale (per certi versi impossibile) che fa il paio con il tentativo di tacere parlando. Ancora una volta, s’impone la logica della contraddizione.
Compare in questo testo il termine «disantropomorfizzante» (cfr. pezzo 161); che cosa può significare in un discorso poetico?
Lo capiamo nell’ambito religioso, dove un dio antropomorfo ha fattezze e comportamenti umani; ma la poesia? Non è per forza antropomorfa? Non esattamente: la poesia deve essere consapevole della sua essenza linguistica, ovverosia sociale, non illudersi di comunicare con l’equivalente di una persona e invece farsi oggetto da mettere in comune proprio per liberarci da tutte le personalità pregiudiziali (i condizionamenti dell’“io sono”: sono bianco, maschio, proprietario e via dicendo) che reprimono le nostre pulsioni e lo sviluppo delle nostre facoltà.
Critica e autocritica
Adesso però, attenzione: uscendo dal “comune”, contrapponendosi al “sociale”, il testo non rischia di promuovere un Assoluto indiscutibile,
non rischia di ricadere nel Sacro con la maiuscola, o quanto meno in una ribellione di tipo romantico, innalzando l’Unicità all’ennesima potenza? Indubbiamente delli Santi decide di rasentare questi rischi, di correrli fino in fondo, cioè fino ad accenti profetici e a giri di frase che ricordano il religioso. E tuttavia mantenendo un sommo disprezzo per le fedi costitute, nelle quali poi la massificazione del pensiero unico trova modi di accaparramento e addomesticamento (non a caso il riferimento più costante è, semmai, al “blasfemo” e al “demoniaco”: «resisti alla sacralità del sacro», si legge al termine del pezzo 221).
Il problema è che il linguaggio, teso verso la fuoriuscita, non ha mai la garanzia di essere sfuggito al codice, e comunque non è mai al sicuro dal pericolo di ricadute («Ah, la mia polvere s’è impolverata!», commenta autocriticamente il pezzo 306). Non solo, ma il testo è percorso dalla ferma convinzione che il soggetto, l’io stesso, non debba mai stabilizzarsi. Proprio nel momento in cui rifiuta l’alterità costituita come specchio rassicurante, l’io si constata forma porosa, attraversato dagli altri e internamente pluralizzato. «L’unico modo per aversi è perdersi» (pezzo 515). E ancora la «visione di uno che si fa l’altro» (pezzo 242), seguendo appunto l’insegnamento folgorante di Rimbaud, “JE est un autre”, io è un altro. A quel punto nessun superomismo facile può instaurarsi e neppure una poesia compensativa e consolatoria delle insicurezze personali. Al contrario, proprio la fisionomia apparente del soggetto (non solo il ruolo, ma il carattere, ecc.) viene posta sotto indagine e rifiutata come parte integrante del codice stabilito; contro di essa si esplica un’energia pari a quella dell’invettiva, e perentoriamente: «Io mi respingo, / niente di me / accetta di essere me stesso» (pezzo 603).
Per questa via di decostruzione dell’identità, la poesia decostruisce parimenti se stessa come genere – il verso è prosa e viceversa – e come stato. Il “poetico”, questa conformazione che trasforma una modalità in una sostanza, viene radicalmente escluso. Consapevole della sua “perdita d’aureola”, la poesia non concede alcun confortevole rifugio. La vera arte deve essere un ossimoro integrale, deve operare contro se stessa: «l’arte è tale solo quando giunge a uccidere se stessa» (pezzo 227).
Libertà di (della) parola
Nei testi di questo libro è frequente il riferimento alla crudeltà. Ma non si tratta di un atteggiamento negativo, dettato da qualche ressentiment. È piuttosto l’effetto di un impulso anarchico, come si diceva, una dichiarazione di libertà.
Ma di questi tempi in cui la libertà è declinata in termini di liberismo se non di “faccio-come-mi-pare”, occorre chiedersi: liberi di cosa? Perché nel mercato tutti sono liberi, apparentemente, cioè sono liberi di comprare e di vendere, anche se stessi. La libertà che qui si nomina è di altro tipo, è la libertà senza sfruttamento né vendita.
«La poesia è libertà di dire tutto ciò che il comune buon senso non direbbe; ed è libertà persino della parola liberata» (pezzo 45). Libertà di parola, Ma anche qui con sfumature essenziali. Infatti, nella nostra società, la libertà di parola è assicurata, sia pure con alcuni limiti. Tuttavia, anche se fosse completa, sarebbe la libertà di usare le parole di tutti, di nuovo una riconversione del capitale linguistico. Qui si cerca un passo in più verso la libertà della parola. Il libro diventa un viaggio nella alterità del linguaggio.
Del titolo, dell’anno
Del titolo: Discolo sembrerebbe rimandare a un bambino che combina qualche marachella, ma in fondo è vivace e simpatico. L’etimologia però dice anche qualcosa d’altro: intanto il prefisso dis- rimanda a una deviazione non tanto tranquilla, è il prefisso di dis-torsione, dis-tonia, dis-topia. Il greco dyskolos ha a che fare col kolon, con il cibo, e indicherebbe qualcuno che non si contenta del cibo, ma forse anche qualcosa che va per traverso. In italiano, poi, “discolo” non ha solamente un significato “attenuato” e tutto sommato compatibile, ma anche un significato più fortemente negativo applicabile anche al di fuori dell’infanzia: indisciplinato, insofferente agli ordini, senza rispetto delle norme etiche e sociali, ribelle, scioperato, di vita disordinata, privo di scrupoli – per rimanere nelle attestazioni del dizionario. Come abbiamo visto, qui “discolo” assume il valore di una disobbedienza generale.
Dell’anno: il titolo reca di seguito la data del 1980, quindi situa il libro attorno ai vent’anni dell’autore e in una congiuntura di poco successiva ai decenni “incendiari” della contestazione, per cui vi si potrebbe leggere l’influsso di quell’epoca: nel «grande orgasmo della libertà» (pezzo 194), una eco delle utopie marcusiane. Una fase giovanile di ribellione, penserà qualcuno, per giunta delusa dalla storia. La poesia sarebbe una risposta al fallimento della rivoluzione globale che, come succede in quella corrente che ha spostato l’obiettivo dal capitalismo al logocentrismo, si accontenta ora di combattere contro il linguaggio e contro la pratica appropriativa del senso: «Dare senso alle cose è inammissibile: tutte le cose esistono di per sé e hanno il senso che hanno. / Obbedire al desiderio irrefrenabile di dar senso alle cose vuol dire travisare l’essere delle cose stesse» (454).
Anche se così fosse, non sarebbe poi un ripiego tanto grave: la ricerca di un cambiamento culturale, in mezzo a situazioni più difficili, varrebbe comunque da resistenza.
Che non sia un testo che chiude un periodo, però, lo dimostra il fatto che poi l’autore avrà un posto centrale nella Terza Ondata, l’avanguardia allegorica promossa da Bettini e Di Marco all’inizio degli anni Novanta; una linea che delli Santi continuerà a portare avanti con convinzione anche in seguito all’insabbiarsi di quella iniziativa e al diradarsi dell’azione collettiva. Come accennavo, nel Discolo non c’è ancora il clou della operazione dellisantiana che in seguito si è vista in atto nel Giordano Bruno e nelle altre sue pubblicazioni fino a Il tramonto s’inferifoca, vale a dire l’esplosione linguistica a largo raggio, con una mescolanza incredibile di linguaggi a contestare l’impoverimento della lingua dei media. Eppure, c’è già qualcosa: non solo la «cupidigia di parole» vi viene accennata, ma si dispiegano anticipatamente la sperimentazione irriducibile, il gusto per l’eccesso, la carica prorompente, la creatività sregolata, il rigore etico rivolto contro la mediocrità. Già a quest’altezza è esplicita la volontà di uscita dalla categoria “letteraria”, verso la «creazione di una scrittura sporca, dimessa dal salotto e dai fantasmi» (pezzo 242), votata in qualche modo alla «strada», all’esterno, all’irriducibile.
La storia dell’autore ne viene illuminata. Ma questa scrittura dell’alterità, nel suo sconfinamento mostruoso, vale anche di per sé come una smagliante e agguerrita “prova generale dell’avanguardia”.

d’ambrosio editore a TEMPO DI LIBRI, la prima fiera del libro di milano
Fabio D’Ambrosio editore partecipa a
“tempo di libri”
dal 19 al 23 aprile, fiera Milano Rho
EVENTI IN FIERA
mer 19 aprile 2017, ore 12.30
La scrittura eretica di Gaetano delli Santi
Caffè Garamond
Dallo schizoidismo dell’isola del sarcofago elettrolitico, dall’omologazione linguistica neurovegetativa, dalla teatralità dei conflitti urbani: l’agglutinazione plurilinguistica nella scrittura deviante di Giordano Bruno e di Gaetano delli Santi articolata in disappunti, scalfitture e corrosioni come somatizzazione critica del fallimento della comunicabilità sociale: impeti di eresia, escrescenze e combustioni verbali proteiformi e tridimensionalità performativa.
con Gaetano delli Santi, Franco Falasca, Paolo Jachia, Fabio D’Ambrosio e Alice Pareyson
testi di riferimento:
discolo di Gaetano delli Santi
corpus misticum di Gaetano delli Santi
in vino veritas di Gaetano delli Santi
mer 19 aprile 2017, ore 16.30
D’Ambrosio editore dalla carta al bit: vendere intelligenza senza offenderla
agorà Cambria
Occorrono nuovi approcci culturali ed editoriali che diano valore ai bit. La vendita della pubblicità non può essere la principale fonte di sostentamento, pena lo svilimento dei contenuti e quindi niente più prodotti da vendere.
Tre diversi esempi di volumi cartacei i cui contenuti sono ripensati per la fruizione e la monetizzazione per il web e le app.
L’editore deve scegliere cosa è opportuno rendere pubblico per fornire strumenti di analisi critica al fine di tradurre l’utopia in normalità.
con Fabio D’Ambrosio, Gaetano delli Santi, Franco Falasca, Alberto Improda, Alice Pareyson
libri di riferimento
battiato la cura 27 canzoni commentate di Paolo Jachia e Alice Pareyson
la creazione nota di Franco Falasca
maurizio cancelli, arte del territorio a cura di Franco Falasca
mer 19 aprile 2017, ore 18.30
L’esistenza di DIO, da Battiato a Sgalambro
Caffè Garamond
percorsi filosofici e letterari da Franco Battiato a Manlio Sgalambro con la partecipazione straordinaria di Riccardo Sgalambro e di:
Baudelaire, Joyce, Eliot, Hemingway, Leopardi, Dante, D’Annunzio, Schopenhauer, Guénon, Gurdjieff, Lama Tibetani, Nietzsche, Bibbia, Upanishad, Freud, Giordano Bruno.
con Antonio Carulli e Alessio Cantarella (autori di Caro misantropo), Paolo Jachia e Alice Pareyson (autori di battiato la cura 27 canzoni commentate), Piercarlo Necchi (filosofo).
libri di riferimento: battiato la cura 27 canzoni commentate di Paolo Jachia e Alice Pareyson
gio 20 aprile 2017 ore 13.30
I territori vanno vissuti o vanno abbandonati?
La natura NON ESISTE ma ogni luogo naturale ESISTE!
Sala Arial
Diritto universale a godere del Villaggio Terra e dei suoi frutti. Unico vero patrimonio e ricchezza, realtà che la storia espelle a favore della finzione massificata e mercificata, il NON essere.
Valore delle proprietà collettive, dei “Contratti di paesaggio”, dell’identità della vita, diritto di tutte le popolazioni del globo a non emigrare ed a difendere con forza i propri territori, contro l’emigrazione coatta e l’emarginazione inaccettabile.
con Maurizio Cancelli, Franco Falasca, Gaetano delli Santi, Fabio D’Ambrosio, Alice Pareyson
libri di riferimento: maurizio cancelli, arte del territorio a cura di Franco Falasca
dom 23 aprile 2017 ore 13.30
La cultura è al servizio dell’uomo e non l’uomo al servizio della cultura. La letteratura di Franco Falasca tra carta e bit
Sala Calibri
Finalmente l’essere si libera della Storia, dello Spiritualismo, della Civiltà, dello sperimentalismo asettico, dell’Altro da sé, ed eiacula nella solitudine quantica dell’Universo, senza verità, nella descrizione fenomenica sincera di ciò che appare in un flusso dove non c’è più lo psicologismo, per proiettarsi nel brivido dell’esistenza.
La letteratura di Falasca su carta o smartphone è razionale e metafisica, antidoto alla fragile psiche preda della paura delle difficoltà invisibili.
con Franco Falasca, Gaetano delli Santi, Giulia Niccolai, Fabio D’Ambrosio, Alice Pareyson
libri di riferimento: la creazione nota di Franco Falasca
EVENTI FUORI FIERA
ven 21 aprile 2017 ore 20.00
Tra il VUOTO e la MORTE
Insegnamento sul Buddhismo e le canzoni di Franco Battiato
Tempio buddhista di Milano Ghe Pel Ling
Via Euclide 17 (MM1 Villa SG) Milano
con Giulia Niccolai (monaca buddhista), Paolo Jachia e Alice Pareyson (autori del volume battiato la cura 27 canzoni commentate)
sono stati invitati il Maestro residente Ven. Tenzin Khenrab Rinpoche e Franco Battiato
La canzone d’eccellenza cambia la percezione dell’arte e della società. È l’ambito dove cercare potenti stimoli contenutistici calati nell’immaginario collettivo. Battiato riprende i fondamenti del Buddhismo: l’approccio non è dogmatico o consolatorio, ma intelligente, razionale oltre che emotivo e metafisico.
Nel tempio buddhista di Milano intendiamo riportare l’attenzione sulle uniche due tematiche fondamentali di cui tutti inconsciamente sanno ma di cui (quasi) nessuno consapevolmente parla…
libri di riferimento: battiato la cura 27 canzoni commentate di Paolo Jachia e Alice Pareyson
in collaborazione con:

La scrittura eretica di Gaetano delli Santi
MERCOLEDì 19 APRILE ore 12:30
RHO FIERA Caffè Garamond
Dallo schizoidismo dell’isola del sarcofago elettrolitico, dall’omologazione linguistica neurovegetativa, dalla teatralità dei conflitti urbani: l’agglutinazione plurilinguistica nella scrittura deviante di Giordano Bruno e di Gaetano delli Santi articolata in disappunti, scalfitture e corrosioni come somatizzazione critica del fallimento della comunicabilità sociale: impeti di eresia, escrescenze e combustioni verbali proteiformi e tridimensionalità performativa.
verranno presentati 4 nuovi volumi di Gaetano delli Santi:
discolo
corpus misticum
in vino veritas
saggio sull’espressionismo
con Gaetano delli Santi, Franco Falasca, Paolo Jachia, Fabio D’Ambrosio, Alice Pareyson
La partecipazione è libera fino ad esaurimento posti
tradizione, microterritorio e macroterritorio / saggio di Gaetano delli Santi
Tradizione – tradizionalista
Il tradizionalista obbedisce pedissequamente alla tradizione. Schiavo della tradizione, per non smarrirsi in nuove idee, è sempre dell’idea di ricondurre il presente al passato, non sente l’urgenza d’una spinta al superamento di ciò che è già stato.
L’attaccamento al passato comporta:
ciò che è stato acquisito -da ciò che a sua volta fu acquisito da coloro che hanno tramandato l’acquisizione dell’acquisito- consegna al presente la radicalizzazione di ciò che agisce come un fermo immagine che ostacola qualsivoglia movimento e avanzamento nel futuro.
Il tradizionalista non si spinge in avanti, ma indietro. Non cerca azioni che superino l’azione precedente, ma vorrebbe indurre l’azione precedente a rimanere così com’è, senza cambiamenti, nell’azione conseguente.
Egli vorrebbe che da una generazione all’altra tutto rimanesse tale e quale a ciò che è stato anche dopo essere stato ciò che è già stato. Come dire: il presente deve essere uniformato al passato; dedotto dal passato deve essere rivisto guardando al passato.
Egli, insomma, intende enucleare il presente dal passato, e non già il presente dal presente, affinché quest’ultimo diventi iniziazione al futuro.
Il tradizionalista assume il passato per presente. Vuole che il passato permanga nel presente, che il presente si ri-traduca in passato. Non vuole un presente in divenire. Nel condurre il presente al passato… vanifica l’idea del futuro. Nulla dev’essere modificato, nulla deve passare dal cambiamento all’innovazione. Il passato non deve porgerci il presente. Il presente non deve porgerci il futuro.
Rifarsi al passato non si tratta di migliorarlo, ma di assumerlo per quello che è stato, senza neppure lasciarsi scuotere dall’idea di condurlo a evolversi.
Portare il passato a evolversi in presente e il presente in futuro lo destabilizzerebbe, lo strapperebbe dalla comoda passività di considerare esaurito il compito di creare e ricreare sotto nuove spinte.
Ma lo sguardo al passato non giova se esso non si prefigge, sostanzialmente, di evidenziare criticamente ciò che potrebbe costituire uno slancio in più per costruire un presente non compromesso da una cieca tradizione, ma proteso propedeuticamente al futuro.
Uno sguardo critico al passato prevede, a prescindere, un mutamento radicale di pensiero, una progettualità progressista padroneggiata da metodi in continua innovazione, capaci di porsi in contraddizione anche nei riguardi di se stessi.
Passato – presente – futuro
Il ritorno al passato non ha mai spinto il presente a un riformismo che includesse nella sua nuova visione la proposta di un futuro a venire, bensì un rapporto totalitarista e sacramentale con il passato.
Poiché nel presente c’è molto da progettare per la realizzazione del futuro, il presente non può che iniziare da se stesso a progettare il futuro. Di conseguenza… se il presente guarda al passato, è per mettere insieme materiale idoneo alla costruzione del futuro.
Il passato serve ad orientarsi nel dedalo della modernità, come una forza che ci spinga a sentire l’urgenza di afferrare la necessità di conoscere il presente rispettando la sua autonomia.
Non si tratta, dunque, di adeguare il presente al pensiero progettuale del passato, ma di dare al presente l’occasione di rinnovarsi progettualmente perché possa adeguatamente progettare il futuro.
Il superamento del passato non va cercato nel ritorno al passato, come il superamento del presente non va cercato nell’adempiere solo ed esclusivamente ai fabbisogni del presente.
Passato e presente dovrebbero servire a elaborare -realizzando proficuamente con un pensiero innovativo- una piattaforma che impegni il presente, progettualmente, ad andare incontro al futuro e ai suoi insopprimibili bisogni.
Il presente, realizzato salvaguardando del passato ciò che andava salvaguardato e rinnovato, non sarebbe già un futuro in itinere, in se stesso, che agisce per la formazione del suo presente?
Per poter il presente estrapolare dal passato contenuti che siano più cònsoni all’idea di sviluppo del suo presente, occorre che la familiarizzazione del presente con se stesso avvenga vivendo appieno il suo sviluppo e la sua evoluzione rispetto al passato.
Il passato, avendo già nel suo presente generato, non può avere nei riguardi del futuro un’indole generativa. Spetta al presente essere generativo.
Invenzione
L’invenzione non patteggia le proprie forme con forme già viste, fatte come quelle che sono già state fatte.
L’invenzione non solo annuncia nuove forme, ma anche un nuovo modo di concepirle e di recepirle. L’invenzione induce ad avere nuove visioni da nuove cose.
Essa dà alla nuova forma una nuova intelligenza per esprimersi. Nasce da un nuovo modo di nascere. La sua origine ha origine dalla propria origine… e da un passato che ha contribuito criticamente a generarlo.
C’è qualcosa di appena nato in quello che l’invenzione realizza.
L’invenzione dà alla vita una forma ancora ignota. Ci segnala una nuova forma nata da un nuovo modo di concepirla.
Educatore – educando
Per avere parte attiva nel presente, il passato deve contribuire all’educazione del presente, che a sua volta dovrebbe promuovere la formazione del futuro.
Possiamo perciò considerare il passato in qualità di educatore solo se il presente si pone nei riguardi del passato in qualità di educando.
Ma quali sarebbero gli aspetti del passato che, in base ai suoi valori, farebbero sentire al presente la necessità di porsi in qualità di educando nei riguardi del passato?
Arte – committenza
Prendiamo, ad esempio, l’arte… e chiediamoci: a quali valori del passato dovrebbe attingere l’arte del presente?
Nel passato… l’arte ha mai risposto, con un linguaggio etico, a una domanda etica? L’aspetto predominante dell’arte del passato non è forse stato l’assoggettamento alla committenza? Non era sempre al servizio della committenza, che perlopiù proveniva dai potenti e dai tiranni?
«Come gli usurpatori del Rinascimento italiano,» già nel 700 a.C. i tiranni «debbono far dimenticare l’illegittimità del loro potere con la concessione di tangibili vantaggi e con la magnificenza esteriore; così si spiegano il liberalismo economico e il mecenatismo che caratterizzano il loro governo. L’arte, per loro, non è solo uno strumento di gloria e di propaganda, ma è anche l’oppio che stordisce i sudditi. Tale è l’origine del loro mecenatismo». (Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte, V. primo, Torino, Einaudi, 1984, p. 99)
Arte – propaganda
L’arte del passato non è sempre stata oggetto di propaganda?
Nel prendere finanziamenti dal privato l’arte ha sempre contribuito alla perdita totale del suo diritto di agire in libertà secondo una propria libera progettualità.
L’arte si è sempre arresa a prostituirsi come merce di scambio.
L’arte è sempre stata esemplare nel vendersi alla ideologia dominante del potente che a sé l’assoggettava.
Nel rispondere alle richieste del committente, dovendo rappresentativamente encomiare la personalità del suo blasone, incensare le sue imprese, glorificare la sua casta nobiliare (o ecclesiastica, o monarchica, o partitocratica, o dittatoriale, ecc.), l’arte non poteva che esser concepita come abito tagliato su misura per la vanagloria della committenza.
Ma l’arte non dovrebbe essere incompatibile con ogni forma di potere e con chiunque eserciti influenza con metodi dispotici ed oligarchici?
A che stato apparterrebbe l’arte, a quello etico o a quello dittatoriale?
A quali princípi è conforme… a quelli dettati dall’abuso del potere capitalista e del plutocrate, o da chi maneggia -con versatilità súbdola- affari di alta finanza, o da chi si appropria privatamente della vita pubblica?
Oggi, a maggior ragione, quale dovrebbe essere la sua missione se non quella di comunicare il proprio dissenso nei riguardi di una educazione morale che giudica arte tutto ciò che continui a esser concepito senza valori etici? quale altra missione se non quella di contraddire la concezione «dell’arte per l’arte» che, spesso, si traduce in indifferenza nei riguardi di tutto ciò che accade oltre il suo sistema?
Arte – etica
L’arte deve agire alle dipendenze del dato di fatto ed essere con questo collusa, o «operare contro la realtà stabilita, e nella realtà stabilita operare contro la realtà stabilita»? (Herbert Marcuse, Saggio sulla liberazione, Torino, Einaudi, 1969, p. 53)
L’arte sia la conditio sine qua non di un processo creativo propenso a risvegliare criticamente le coscienze.
La creatività è tale se è autonoma; se vive nella forma mai passiva dell’apertura; se agisce nella spontaneità preminente di superare il gusto del momento, che la vuole predisposta al servizio della mitologizzazione dell’effimero, quale espediente utile a uniformare l’individuo alla passiva tautología del già ripetuto, riaffermato sotto l’ègida di uno status quo impegnato a mantenere (a qualsiasi condizione) la propria egemonia.
Ma quale è l’arte, oggi, il cui bisogno è di cooperare al miglioramento sociale, la cui finalità è un diverso modo di riconcepire se stessa, prescindendo da regole tradizionali che la vorrebbero assoggettata sempre più alle regole del mercato, nonché alla dittatura del qualunquismo e all’indifferenza verso i reali problemi sociali? Quale è l’arte, oggi, per cui il proprio territorio estetico non si trincèri entro i propri confini?
Che almeno l’arte sia sotto il predominio della spiritualità, e sia la manifestazione di un principio etico che induca a considerare se stessa un essere sociale che decida liberamente delle proprie azioni per il bene della collettività.
Microterritorio – macroterritorio
L’arte potrebbe essere, pertanto, paragonata a un territorio che non si limiti a se stesso.
La sua ristretta estensione non si accontenti del solo rapporto con ciò che le appartiene.
Il suo microterritorio círcoli nel sangue del macroterritorio del mondo. Accolga in sé la volontà di fare passi avanti, alla scoperta dell’altro, della diversità.
L’indipendenza dell’arte agisca come quella di un territorio che da sé, secondo la propria coscienza, decida di escludersi dall’individualismo, rapportandosi all’extraterritorialità di un linguaggio che vada oltre l’autoammirazione dei propri confini.
Il patrimonio culturale di un territorio cooperi con l’extraterritorialità culturale del resto del mondo, ai fini di dichiarare importante, al di sopra di ogni altro principio, la difesa, il mantenimento e la cura del patrimonio culturale del mondo (insieme a quello ètnico, proprio di un popolo), affinché l’arte si rifletta sulle società col contenuto di un’azione etica che contraddica, secondo quanto le compete, le ostilità e i conflitti tra nazioni e popoli, rigettando da sé ogni forma di pregiudizio, di fanatismo, di superstizione, di antisemitismo e odi razziali.
tradition,
microterritory
and macroterritory
Tradition – traditionalist
The traditionalist slavishly obeys tradition. Slave of tradition, not to lose himself in new ideas, he has always the mind of bringing the present back to the past, he does not feel the urgency of a spur to the overcoming of what has already been.
The attachment to the past involves:
what has been acquired -by what in its turn was acquired by those who have handed on the acquisition of the acquired- gives the present the radicalization of what acts as a freeze-frame which thwarts whatever movement and advancing into the future.
The traditionalist does not come forward, but rather draws back. He won’t look for actions overcoming the previous action, but would rather lead the previous action to stay as it is, without any changes, in the following action.
He would like that from one generation to another all could be just like what it was even after having been what it has already been. So to speak: the present should be conformed to the past; deducted from the past, it must be seen again looking at the past.
He, then, means to enucleate the present from the past, rather than the present from the present, so that the latter becomes initiation to the future.
The traditionalist assumes the past for the present. He wants the past to persist in the present, the present to re-translate itself into the past. He does not look for a present in becoming. In conducting the present to the past… he thwarts the idea of the future. Nothing must be modified, nothing must pass from changing to innovation. The present must not hand us the future. The past must not hand us the present.
To go back to the past does not mean to make it better, but rather to assume it for what is has been, without even let us be shaken by the idea of conducting it to evolution.
Getting the past evolved in present and the present in future would destabilize him, would snatch him from his comfortable passivity of considering the task of creating and recreating with new boosts as exhausted.
But the gaze at the past won’t help unless it proposes an aim to itself, essentially, to critically highlight what may be another boost to build a present not jeopardized by a blind tradition, but directed in a preparatory way at the future.
A critical gaze at the past requires, for whatever reason, a drastic changing of thought, a forward-thinking ability of conceiving plans, mastered by continuously innovating methods, able to contradict themselves as well.
Past – present – future
The return to the past has never boosted the present to a reformism which included in its new vision the proposal of an oncoming future, but rather a totalitarian and sacramental relation with the past.
As in the present there is so much to plan for the realization of the future, the present can do nothing but start planning the future by itself. Consequently… if the present looks at the past, it is just to get together the suitable material for building the future.
We need the past in order to orient ourselves in the maze of modernity, as a power pushing us to feel the urgency to grasp the necessity of knowing the present by respecting its autonomy.
Thus, the question is not to adapt the present to the planning thought of the past, but to give the present the chance to renew itself in terms of planning so that it can properly plan the future.
The overcoming of the past we must not find in the return to the past, just as the overcoming of the present we must not find in fulfilling exclusively the need of the present.
Past and present should be used in order to create -profitably realizing it with an innovative thought- a platform which engage the present, in terms of planning, to go towards the future and its unsuppressible needs.
The present, which is realized by protecting what had to be protected and renewed of the past, wouldn’t it be already an ongoing future, in itself, which acts for the formation of its present?
For the present to extract from the past contents that be more fitting for the idea of the development of its present, it is necessary that the familiarization of the present with itself happen living completely its development and its evolution in comparison with the past.
The past, having already borne in its present, cannot have a generative attitude towards the future. It is up to the present to be generative.
Invention
The invention will not trade its forms with forms which have already been seen, forms done as the ones that have already been done.
Not only does the invention announce new forms, but also a new way of conceiving and receiving them. The invention induces one to get new visions from new things.
It gives its new form a new intelligence to express itself. It is borne by a new way of bearing. Its origin gets its origin from its own origin… and from a past which critically contributed to generate it.
There is something fledgling in what invention realizes.
The invention gives life a yet unknown form. It points out to us a new form, born of a new way of conceiving it.
Educator – pupil
To participate actively in the present, the past has to contribute to the education of the present, which in its turn should promote the formation of the future.
We can thus consider the past as an educator only if the present assumes the attitude of a pupil towards the past.
But what would be the aspects of the past that, based on its values, would make the present feel the necessity of assuming the attitude of a pupil towards the past?
Art – commission
Let’s take, for example, art… and let’s ask ourselves: what values of the past should the art of the present draw upon?
In the past… has art ever answered an ethical question with an ethical language? Wasn’t the prevalent aspect of the art of the past the subjection to the commission? Wasn’t it always at the service of the commission, which mostly came from the mighty and tyrants?
«As the usurpers of the Italian Renaissance,» already in 700 B.C. tyrants «have to make people forget the illegitimacy of their power with the concession of tangible advantages and the exterior magnificence; thus, we can explain their economical liberalism and patronage that characterize their rule. To them art is not only a tool of glory and propaganda, but also the opium that stuns the subjects. Such is the origin of their patronage». (Arnold Hauser, The Social History of Art, volume I, Turin, Einaudi, 1984, p. 99)
Art – propaganda
The art of the past, hasn’t it always been object of propaganda?
In raising funds from the private sphere, art has always contributed to the total loss of its right to act in freedom according to a free ability of conceiving plans of its own.
Art has always surrendered itself to prostitute itself as a commodity.
Art has always been quintessential in sending itself to the dominant ideology of the mighty that subjected it to themselves.
In answering the requests of the commissioner, as it had to praise the personality of his blazon in a representative way, overpraise his deeds, glorify his noble caste (or ecclesiastical, or monarchical, or party-dominated, or dictatorial, etc.), art could be nothing but conceived as a cloth custom-made for the boastfulness of the commission.
But shouldn’t art be incompatible with any form of power and whoever exercises influence with despotic and oligarchical methods?
To which state would art belong, to the ethical one or to the dictatorial one?
What principles is it compliant with… with the ones imposed by the abuse of capitalist power and of the plutocrat, or by those who manipulate high finance business with a subtle versatility, or by those who gets privately hold of the public life?
At present, even more so, which should be its mission if not communicating its disapproval with regards to a moral education which judges as art everything that continue to be conceived without ethical values? what other mission if not contradicting the conception of «art for art’s sake» which often translates itself in the indifference towards everything that happens outside its system?
Art – ethics
Art must act being subjected to the fact and connive with this, or «operate against the fixed reality, and in the fixed reality operate against the fixed reality»? (Herbert Marcuse, An Essay on Liberation, Turin, Einaudi, 1969, p. 53)
Let art be conditio sine qua non of a creative process aiming at the critical awakening of the consciousness.
Creativity is such just if it is autonomous; if it lives in the never passive form of the opening; if it acts in the preeminent spontaneity of overcoming the taste of the moment, which wants it ready for the service of mythologization of the transient, as a device useful for levelling out the individual to the passive tautology of the already repeated, reaffirmed under the shield of a status quo busy in maintaining (under every circumstance) its own hegemony.
But what is the art, today, whose need is to cooperate for the social improvement, whose aim is a different way of re-conceiving itself, regardless of traditional rules which would like it to be more and more subjected to the rules of market, as well as the dictatorship of political apathy and the indifference towards the real social problems? What is the art, today, for which its own aesthetic territory would not entrench itself within its borders?
Let at least art be under the predominance of spirituality, and be the manifestation of an ethical principle that induce to consider itself a social being which determine freely its own actions for the collectivity’s sake.
Microterritory – macroterritory
Art may thus be compared to a territory which do not limit itself to itself.
May its narrow width not be happy with just the relationship with what belongs to it.
May its microterritory be circulating round the blood of the world’s macroterritory. May it welcome inside itself the will of making progress searching for the other, the otherness.
May the independence of art act as the one of a territory that decide by itself, according to its own consciousness, to exclude itself from individualism, facing the extra-territoriality of a language which go beyond the self-admiration of its own borders.
May the cultural heritage of a territory cooperate with the cultural extra-territoriality of the rest of the world, in order to declare, above any other principle, the importance of the defense, the maintenance and the cure of the cultural heritage of the world (together with the ethnic heritage, intrinsic to a people), so that art may reflect itself on the societies with the content of an ethical action that contradict, according to what is under its jurisdiction, the hostility and the conflicts among nations and peoples, rejecting from itself every form of judgment, of fanaticism, of superstition, of antisemitism and racial hatred.

franco battiato. la cura. perchè la copertina di alviani
Di Gaetano delli Santi
Perché la copertina. Di Gaetano delli Santi Perché a far da incipit a un libro che riguarda Battiato è una copertina di Getulio Alviani che in più riporta una sua duplice opera? Cosa hanno in comune l’ideatore plastico Getulio Alviani e il cantautore Franco Battiato?
L’opera cinetica di Alviani richiede un contatto interattivo con il fruitore: è la visione del fruitore che realizza l’opera nel momento in cui si dedica alla osservazione della sua evoluzione, che avviene a seconda della luce e dell’ambiente entro cui l’opera si trova a esser fruita. L’opera e il fruitore, secondo l’opera cinetica, devono agire reciprocamente. La musica di Battiato partecipa al contenuto dei testi. Musica e testo si rincorrono concordamente come due gocce d’acqua che cadano insieme (l’una diversa dall’altra: negativo/positivo; perfetto equilibrio fra contrari) in un unico punto -mùltiplo- di congiunzione. Sia il testo sia la musica richiedono (come l’opera cinetica di Alviani) un rapporto interattivo con il fruitore ovvero non è possibile viverli sino in fondo se il fruitore non li frequenta analiticamente.
L’opera cinetica di Alviani, basata prevalentemente sulla geometria base, spezza la fruizione intimistica, istintiva, rugiadosa: essa mira a una partecipazione non psicologica, ma mentale, raziocinante… in quanto il fruitore deve guidarsi nell’opera. La musica di Battiato, se si intende goderla a fondo, richiede un approccio di tipo esplorativo. Individuare correlatività fra testo e musica, fra ritmi e contenuti non è possibile per mezzo di un ascolto a orecchio, ma attento, fondato sulla ragione: dev’essere, insomma, da ricognizione.
Né l’arte cinetica di Alviani, né la musica di Battiato richiedono un’interpretazione sentimentale. Esse rifuggono sia dalle emozionalità fluttuanti, sia dagli approcci gravati da una visione psicologica. Né tantomeno le loro opere si fondano su un modus operandi che abbia richiesto un percorso mistico per la loro realizzazione.
Se il mistico si abbandona totalmente alla contemplazione, al rapimento, scendendo in segreto e isolatamente nel proprio io… in profondità, l’autore di contro controlla razionalmente la propria materia, perché questa va progettata per poter essere successivamente/succintamente plasmata, insieme alla visione che egli ha del mondo. Tale prassi richiede un contatto dialettico -corporeo e mentale- con la materia: affinché l’autore arrivi a conoscere la materia per poterla plasmare, deve lasciare se stesso, dimenticare il proprio io, dialogare con essa mutuamente. Tutto ciò si traduce, allegoricamente, nell’andare incontro all’altro, al mondo. Per fare ciò… l’autore deve frequentare la materia, con cui ideare l’altro da sé, viaggiare in essa, alla ricerca della sua sostanza. E in essa… sprofondare e riemergere, portando con sé ciò che ha attinto dalle sue profondità. Con ciò che ha colto dalle sue profondità realizza, forma, compone, dando origine a qualcosa di nuovo per ampliare il concetto di percezione del fruitore. Se il godimento che il mistico trae dalla propria contemplazione è condivisibile solo ed esclusivamente con se stesso, quello dell’autore è condivisibile con gli altri. L’autore condivide con gli altri ciò che ha fatto; partecipa al benessere spirituale altrui.
Ora, se prendessimo in esame sia la maniera con cui Alviani realizza le sue opere cinetiche, prendendo spunto da ciò che la sua visione (razionale-scientifica-relativistica) del mondo gli suggerisce, sia la capacità di Battiato di mettere insieme la materia tutta significante della sua musica con il significato e il significante dei testi, ottenendo due mondi che convergono in Uno (pluralisticamente), sia l’analisi approfonditamente condotta da Paolo Jachia e Alice Pareyson sulle parole utilizzate da Battiato per la propria musica, non potremmo fare a meno di affermare che tutto ciò andrebbe associato a un valore spirituale, da intendersi, non a caso, nell’accezione di Kandinskij (Lo spirituale nell’arte):
La vita spirituale, di cui l’arte è una componente fondamentale, è un movimento ascendente e progressivo, tanto complesso quanto chiaro e preciso. È il movimento della conoscenza. Può assumere varie forme, ma conserva sempre lo stesso significato interiore, lo stesso fine.
È indubbio, per dirla con Luigi Pareyson (Estetica)
che il contatto operativo con la materia dell’arte ha un aspetto di preparazione interiore, con cui l’artista atteggia artisticamente la propria spiritualità e al tempo stesso la definisce e precisa alla coscienza: nell’arte ogni moto interiore è una cadenza formativa e ogni ritmo stilistico è un’esperienza di vita spirituale.
Non va però trascurato il fatto che l’autore perviene alla spiritualità per mezzo della coscienza, poiché non può fare a meno di discernere per poter attribuire alla concretezza del materiale la possibilità di divenire forma e contenuto condizionanti: la materia deve essere funzionale alla forma, la forma al contenuto. Il contenuto è chiamato a sprigionare movimento, a muovere in fuori, o a far sì che si esprima in potenza (tramite spinta che affiori pulsando dall’interno). Ed è dall’interno che sorge la spiritualità: condizione propedeutica all’esigenza di attuare un’azione da condurre in una forma quale sostanza attiva dell’espressione della forma stessa. Di conseguenza, se gli autori di questo libro sembrano dirci che nell’arte si muove la conoscenza, poiché essa va verso la conoscenza; dunque, nel conoscere la conoscenza entro cui l’arte si muove, l’arte ci porta alla conoscenza di sé; se Alviani e Battiato, con il loro operato hanno sollevato riserve per la concezione di un’arte introflessa, operante solo in rapporto con il proprio sistema, fine a se stessa, chiusa in sé… è perché tutto ciò ha a che fare con quel mandato sociale, inconfondibilmente avanguardistico, inteso da Majakovskij come unica possibilità per l’arte di avere una sua ragion d’essere… in questo mondo.

vota per giordano bruno alla presidenza del consiglio
sabato 16 febbraio
dalle ore 22 fino all’alba
allo spazio dell’officina biologica
a borgo angelico 30, roma
presentazione del candidato alla presidenza del consiglio di
filippo giordano bruno da nola,
per la lista ‘eroici furori’.
all’evento parteciperà il candidato premier che per le ore 5 del mattino seguente si presenterà volontariamente in campo dei fiori per essere arso vivo.
grande festa/lezione deviante con aperitivo
giovedì 4 giugno 2009 ore 19
presso la libreria puerto de libros, via pollaiuolo 5, milano
si è tenuta l’ultima ultima lezione sulle scritture devianti:
la casa e la strada per una strana teoria estetica
l’ultima lezione è stata soprattutto una festa.
festa che abbiamo dedicato a chi ha seguito con passione le nostre 14 lezioni devianti, a chi ha popolato la libreria ‘puerto de libros’, diventata, al momento dell’aperitivo, miracolosamente, una piazza, un luogo d’incontro.
divertendoci, durante questi 14 incontri, abbiamo affrontato il grande impegno di accogliere più di 300 persone, molte delle quali sono diventate ospiti costanti. sono loro che ci hanno regalato la vera lezione. ci hanno infatti aiutato a verificare ciò di cui siamo profondamente convinti. e che rappresenta secondo noi il grande inghippo di oggi.More
astrattismo, suprematismo, costruttivismo alle scritture devianti
lezione di giovedì 21 maggio 2009 ore 19:
l’evoluzionismo delle avanguardie storiche:
astrattismo, suprematismo, costruttivismo ovvero l’estetica dell’interazione sociale tra arte e architettura.
la lezione propone di chiarire i contenuti formali ed estetici tra due poli opposti: estetica espressionista e astrattismo geometrico lineare. in particolare tra architettura organica (che trae ispirazione dalla natura) e architettura razionalista.
eccovi in anteprima una carrellata delle immagini che verranno proiettate durante la lezione
ogni lezione è seguita da un aperitivo enogastronomico e da gelato rivareno, autentico prodotto gourmet.
prenotazione obbligatoria
gli incontri si svolgono il giovedì alle ore 19:00 presso la libreria puerto de libros, via pollaiuolo 5, milano
per adesioni e informazioni:
manda una mail, +39 348 41 30 420 (valeria)
ingresso € 12,00 (studenti € 10,00)
la forza generativa del Barocco… lezione sulle scritture devianti
lezione di giovedì 7 maggio 2009 ore 19:
La forza generativa del Barocco.
L’eredità estetico linguistica del Barocco alle Avanguardie.
Il linguaggio pluralistico dell’esplosione carnale del Barocco in opposizione all’implosione anoressica del Classicismo nelle arti e nella letteratura.