paolo jachia
d’ambrosio editore a TEMPO DI LIBRI, la prima fiera del libro di milano
Fabio D’Ambrosio editore partecipa a
“tempo di libri”
dal 19 al 23 aprile, fiera Milano Rho
EVENTI IN FIERA
mer 19 aprile 2017, ore 12.30
La scrittura eretica di Gaetano delli Santi
Caffè Garamond
Dallo schizoidismo dell’isola del sarcofago elettrolitico, dall’omologazione linguistica neurovegetativa, dalla teatralità dei conflitti urbani: l’agglutinazione plurilinguistica nella scrittura deviante di Giordano Bruno e di Gaetano delli Santi articolata in disappunti, scalfitture e corrosioni come somatizzazione critica del fallimento della comunicabilità sociale: impeti di eresia, escrescenze e combustioni verbali proteiformi e tridimensionalità performativa.
con Gaetano delli Santi, Franco Falasca, Paolo Jachia, Fabio D’Ambrosio e Alice Pareyson
testi di riferimento:
discolo di Gaetano delli Santi
corpus misticum di Gaetano delli Santi
in vino veritas di Gaetano delli Santi
mer 19 aprile 2017, ore 16.30
D’Ambrosio editore dalla carta al bit: vendere intelligenza senza offenderla
agorà Cambria
Occorrono nuovi approcci culturali ed editoriali che diano valore ai bit. La vendita della pubblicità non può essere la principale fonte di sostentamento, pena lo svilimento dei contenuti e quindi niente più prodotti da vendere.
Tre diversi esempi di volumi cartacei i cui contenuti sono ripensati per la fruizione e la monetizzazione per il web e le app.
L’editore deve scegliere cosa è opportuno rendere pubblico per fornire strumenti di analisi critica al fine di tradurre l’utopia in normalità.
con Fabio D’Ambrosio, Gaetano delli Santi, Franco Falasca, Alberto Improda, Alice Pareyson
libri di riferimento
battiato la cura 27 canzoni commentate di Paolo Jachia e Alice Pareyson
la creazione nota di Franco Falasca
maurizio cancelli, arte del territorio a cura di Franco Falasca
mer 19 aprile 2017, ore 18.30
L’esistenza di DIO, da Battiato a Sgalambro
Caffè Garamond
percorsi filosofici e letterari da Franco Battiato a Manlio Sgalambro con la partecipazione straordinaria di Riccardo Sgalambro e di:
Baudelaire, Joyce, Eliot, Hemingway, Leopardi, Dante, D’Annunzio, Schopenhauer, Guénon, Gurdjieff, Lama Tibetani, Nietzsche, Bibbia, Upanishad, Freud, Giordano Bruno.
con Antonio Carulli e Alessio Cantarella (autori di Caro misantropo), Paolo Jachia e Alice Pareyson (autori di battiato la cura 27 canzoni commentate), Piercarlo Necchi (filosofo).
libri di riferimento: battiato la cura 27 canzoni commentate di Paolo Jachia e Alice Pareyson
gio 20 aprile 2017 ore 13.30
I territori vanno vissuti o vanno abbandonati?
La natura NON ESISTE ma ogni luogo naturale ESISTE!
Sala Arial
Diritto universale a godere del Villaggio Terra e dei suoi frutti. Unico vero patrimonio e ricchezza, realtà che la storia espelle a favore della finzione massificata e mercificata, il NON essere.
Valore delle proprietà collettive, dei “Contratti di paesaggio”, dell’identità della vita, diritto di tutte le popolazioni del globo a non emigrare ed a difendere con forza i propri territori, contro l’emigrazione coatta e l’emarginazione inaccettabile.
con Maurizio Cancelli, Franco Falasca, Gaetano delli Santi, Fabio D’Ambrosio, Alice Pareyson
libri di riferimento: maurizio cancelli, arte del territorio a cura di Franco Falasca
dom 23 aprile 2017 ore 13.30
La cultura è al servizio dell’uomo e non l’uomo al servizio della cultura. La letteratura di Franco Falasca tra carta e bit
Sala Calibri
Finalmente l’essere si libera della Storia, dello Spiritualismo, della Civiltà, dello sperimentalismo asettico, dell’Altro da sé, ed eiacula nella solitudine quantica dell’Universo, senza verità, nella descrizione fenomenica sincera di ciò che appare in un flusso dove non c’è più lo psicologismo, per proiettarsi nel brivido dell’esistenza.
La letteratura di Falasca su carta o smartphone è razionale e metafisica, antidoto alla fragile psiche preda della paura delle difficoltà invisibili.
con Franco Falasca, Gaetano delli Santi, Giulia Niccolai, Fabio D’Ambrosio, Alice Pareyson
libri di riferimento: la creazione nota di Franco Falasca
EVENTI FUORI FIERA
ven 21 aprile 2017 ore 20.00
Tra il VUOTO e la MORTE
Insegnamento sul Buddhismo e le canzoni di Franco Battiato
Tempio buddhista di Milano Ghe Pel Ling
Via Euclide 17 (MM1 Villa SG) Milano
con Giulia Niccolai (monaca buddhista), Paolo Jachia e Alice Pareyson (autori del volume battiato la cura 27 canzoni commentate)
sono stati invitati il Maestro residente Ven. Tenzin Khenrab Rinpoche e Franco Battiato
La canzone d’eccellenza cambia la percezione dell’arte e della società. È l’ambito dove cercare potenti stimoli contenutistici calati nell’immaginario collettivo. Battiato riprende i fondamenti del Buddhismo: l’approccio non è dogmatico o consolatorio, ma intelligente, razionale oltre che emotivo e metafisico.
Nel tempio buddhista di Milano intendiamo riportare l’attenzione sulle uniche due tematiche fondamentali di cui tutti inconsciamente sanno ma di cui (quasi) nessuno consapevolmente parla…
libri di riferimento: battiato la cura 27 canzoni commentate di Paolo Jachia e Alice Pareyson
in collaborazione con:
recensione su rock.it
da rock.it
PAOLO JACHIA e ALICE PAREYSON
Franco Battiato. La cura. 27 canzoni commentate 1971 – 2015
2016, Fabio D’Ambrosio Editore, 224 pp., 15,90 euro
Alcuni autori si prestano meglio di altri ad un’analisi, più o meno rigorosa, della propria opera. Uno dei massimi esempi (sicuramente in Italia) è quello di Franco Battiato. Infatti il cantautore siciliano, grazie ad una perfetta commistione tra spirito pop, cultura, conoscenza e voglia di stupire ha sempre realizzato dei testi di una profondità (e di una particolarità) unica nel panorama nazionale. Paolo Jachia e Alice Pareyson analizzano questo sterminato corpus così variegato andando a concentrare l’attenzione su ventisette canzoni-simbolo della poetica di Battiato. Va detto che il libro nasce da un progetto ancora più ampio, ovvero un portale dove si indaga l’intero (o quasi) corpus delle opere di Battiato. La qualità del trattamento è molto alta, con plurimi riferimenti incrociati sia ai testi consultati dal catanese sia al contesto storico. Riuscitissima, ad esempio, l’analisi di “Venezia Istanbul”, canzone del 1980 contenuta nel celeberrimo “Patriots”: “Dobbiamo allora riflettere sul fatto che le canzoni di Battiato degli anni ’80 sono costruite da una successione di frasi compiute, apparenti collage, che sono in realtà frasi-mondo. È un metodo che Battiato con esattezza definisce come «giustapposizione», una strategia che cioè procede per suggestioni agglomerate che si sciolgono e amalgamano nel ritornello o nella linea interpretativa complessiva che, talvolta, il titolo esplicita”. Un volume fondamentale per perdersi “senza smarrire la strada” nel mare magnum di uno degli autori fondamentali della nostra canzone. // Mattia Nesto
recensione su criticaletteraria.org
di Valentina Zinnà 6.11.16
A quest’impresa, Paolo Jachia e Alice Pareyson, autori del libro Franco Battiato. La cura. 27 canzoni commentate, 1971-2015, si accostano tenendo con sé tutti gli strumenti utili alla decifrazione del codice-Battiato: interviste (inserite a piè di pagina, in riferimento alla canzone di volta in volta analizzata), opere di riferimento, rimandi bibliografici, ma soprattutto una raffinata e puntuale capacità interpretativa. Nelle mani dei due curatori del volume, le canzoni vengono smontate pezzo per pezzo, analizzate e ricomposte, dando luogo ad un’analisi interpretativa di particolare efficacia.
Per compiere tale impresa diviene necessario possedere una salda conoscenza dell’opera del cantautore e di certo Paolo Jachia (critico di canzone d’autore italiana e critico letterario, con all’attivo molte opere su diversi cantautori italiani: Roberto Vecchioni, Francesco Guccini, Giorgio Gaber, Baustelle, Lucio Dalla e altri ancora) ha già dimostrato di sapersi confrontare con la sua opera, avendo pubblicato nel 2005, per Àncora, il volume E ti vengo a cercare, in cui affrontava, con la consueta maestria, uno dei temi più importanti per capire la scrittura di Battiato, ovvero il sacro.
Già con questo libro aveva partecipato al dibattito teorico, già parecchio ricco di contributi, sul cantautore, proponendo, ad esempio, una personale scansione della scrittura di Battiato, alternativa alle altre già conosciute (e riportata anche in questo libro):
Battiato è insomma un autore fortemente unitario, ed anche le scansioni da me proposte nel 2005 (apprendistato pop giovanile, periodo sperimentale, periodo mistico, periodo Sgalambro) riguardano le strategie compositive di volta in volta utilizzate e quindi il lato formale, ma non rinnegano mai, ad esempio, l’unitaria visione etica e sacrale della vita, tipica del cantautore siciliano. (p. 49)
Il volume si presenta con l’intento di «portare uno strumento di tecnica letteraria, il commento e la parafrasi, alla canzone» (p. 8, Introduzione) e ogni analisi è accompagnata dal testo della canzone, a fronte. Le ventisette canzoni vengono disposte in ordine cronologico, dal 1971 al 2015, con l’unica eccezione de La Cura, certamente una delle canzoni più celebri di Battiato, posta in apertura, poiché testo in cui «si palesa l’intero iter artistico e spirituale di Battiato» (p. 8).
Il libro non risparmia chiarimenti e approfondimenti, inseriti di volta in volta nell’analisi delle singole canzoni: uno dei più importanti, ad esempio, è quello riguardante la prospettiva mistica dei testi di Battiato ed è inserita nell’analisi del brano Magic Shop, mentre un altro, altrettanto importante, è quello dedicato alla figura di Manlio Sgalambro (in Le nostre anime), figura di riferimento nell’iter del cantautore.
L’importanza di Sgalambro nella scrittura dei testi viene trattata ampiamente, per rendere appieno il peso del suo operato.
Ogni tessera dell’articolato e complesso mosaico linguistico e immaginario del cantautore viene osservata da più punti in vista e in controluce, alla ricerca di tutti i possibili significati, e ogni verso sviscerato fino all’essenza, a ricomporre il composito e multiforme universo disegnato dalle canzoni di Battiato.
Tutte le influenze che hanno nutrito e alimentato a lungo la scrittura delle sue canzoni, dalle religioni orientali ai riferimenti biblici, dal misticismo alla metafisica, tutte qui divengono linee guida fondamentali per seguire l’itinerario tracciato all’interno del canzoniere.
Tutto viene confrontato con le dichiarazioni dello stesso cantautore, puntualmente riportate in nota o opportunamente citate in corpo di testo, al fine di una comprensione piena e completa del suo pensiero.
La piccola urgenza di raccontare storie che riguardano più il metafisico che il reale è un’esigenza che sento da quando avevo tre anni (Musica, 1/5/2003). (p.25)
L’unicità e l’eccezionalità che l’operato di Battiato assume all’interno del panorama musicale italiano – sia contemporaneo che antecedente all’odierna situazione discografica – è messa bene in evidenza da questo libro, in cui si esaminano anche i tratti formali che distinguono la sua scrittura, che si eleva a un piano di autentica rarità, configurandosi come esperienza eccezionale all’interno della scena musicale italiana:
Alla luce di quanto appena sostenuto, risulta anche maggiormente comprensibile il fatto che per Battiato, a differenza di altri autori di testi di canzoni, scarsa rilevanza abbia, sia sul piano della strutturazione compositiva che di raccordo, la rima. Dal punto di vista metrico, si nota che «i suoi brani non hanno quasi mai una regolarità, né lei utilizza in maniera scontata le rime, quella baciata, quella alternata, comuni alla canzonetta… Non ama questi processi scontatamente poetici?» gli viene chiesto. «Per mia natura il luogo comune è come un dolore», è la secca risposta.
Vengono citati i Vangeli, Joyce, Kant, Petrarca, le lettere di San Paolo, Kierkegaard. E ancora Leopardi, Eliot, Dante e anche le Upanishad induiste: un viaggio nella Cultura occidentale e orientale, attraverso i tempi, i luoghi della mente e dell’anima, tutto confrontato e annotato con estrema precisione e attenzione. I versi vengono messi a confronto, le parole analizzate e comparate, tutto al fine di tracciare un’opera in cui nulla sia lasciato al caso, dalla copertina (la cui spiegazione viene riportata nella parte introduttiva al libro) al carattere tipografico scelto per le canzoni, alle note: tutto per aggiungere senso e significato ad un lavoro che si può considerare come uno strumento indispensabile per la lettura e la piena comprensione dell’opera del cantautore.
Una volta chiuso il libro, gli autori hanno però ancora in serbo una sorpresa per i lettori: il volume, infatti, fa parte di un progetto più ampio, che, con un sito (battiatolacura.it) e un’app per mobile, in continuo aggiornamento, si propone di analizzare le canzoni di Franco Battiato. Inoltre, fotografando il QR Code presente all’interno della copia acquistata, è possibile accedere ai contenuti di battiatolacura.it
La raffinatezza delle analisi proposte, il costante e puntuale ricorso alle fonti, la loro pertinenza con quanto analizzato e la ricchezza delle informazioni fomite fanno di questo libro un’opera fondamentale all’interno dell’immensa bibliografia dedicata a Franco Battiato. È un libro da leggere tutto d’un fiato e da tenere poi come opera di consultazione, per riprendere in un secondo momento le canzoni che interessano di più.
Ed è un’opera che ogni estimatore di Franco Battiato dovrebbe avere e tenere con sé, per rifugiarsi nell’universo mistico ed arcano del Maestro, e trarne La Cura necessaria al vivere quotidiano.
il teatro canzone di fo, gaber, jannacci // paolo jachia
L’ntervista muove dalla considerazione e dal fatto che non è stato studiato in modo organico e complessivo (inutile persino il Nobel) uno dei fenomeni culturali più alti in Italia dal dopoguerra ad oggi, ovvero il Teatro Canzone o, come dice e teorizza Dario Fo, il loro spettacolo con canzoni.
Paolo Jachia, Professore a contratto confermato di “Semiotica” e “Semiotica delle arti” presso Università di Pavia e di “Forme della canzone d’autore” (semiotica delle arti) Università di Genova & DAMS di Imperia, si propone di colmare tale vuoto.
“Parliamo sempre di teatro ma mi piacerebbe piuttosto parlare di spettacolo… oggi il vero grande fenomeno in Italia è quello dei cantanti che fanno spettacolo con canzoni… ma loro non si limitano a cantare, sono fabulatori, raccontano, discutono con il pubblico, fanno gag, distruggono completamente la canzone… cominciano a cantare e s’interrompono… è il fenomeno più importante e i critici non lo hanno ancora scoperto… Arrivano sempre tardi… ci metteranno del tempo ma ci arriveranno”
(Dario Fo 1992, p. 350).
Il volume in preparazione di Jachia è suddiviso in tre parti.
La prima presenta le radici del Teatro Canzone, in un arco che va dagli chansonniers francesi e dall’Opera da tre soldi di Brecht-Weil a Ci ragiono e canto e Mistero Buffo di Dario Fo, cercando di collocare così il Teatro Canzone in quello che è il suo più diretto sostrato artistico e culturale, sostanzialmente le avanguardie storiche europee e le neoavanguardie post-belliche italiane (fondamentale in questo senso il volume la forza generativa del barocco, di Gaetano delli Santi, D’Ambrosio editore, 2006).
La seconda analizza la poetica artistica e musicale di Fo & Jannacci tra il 1950 e il 2010, mentre la terza approfondisce la nascita e lo sviluppo del Teatro Canzone di Gaber dal 1970 alla morte del grande cantattore.
Le tre parti dunque affrontano lo stesso fenomeno -il Teatro Canzone di Fo & Jannacci e quello di Gaber, sempre tutti e tre autentici amici e talvolta anche stretti collaboratori- utilizzando però strumenti d’analisi differenti: così mentre la prima parte privilegia un metodo diacronico e d’approfondimento storico, la seconda e terza parte hanno invece un approccio più specifico e sincronico.
Da qui l’approfondimento a spirale e un effetto tormentone, ma Ruzante e la Commedia dell’Arte sono nel nostro DNA, dunque tanto in quello del Teatro Canzone quanto in quello di un’Italia oggi solo sognata e avvenire.
“L’Italia oggi è un paese di furbi e di fascisti”
(Enzo Jannacci alla presentazione del suo disco spettacolo del 2001 sul Secolo XIX, Corriere della Sera, etc.)
“Io non mi sento italiano… ma per fortuna o purtroppo lo sono!”
(Giorgio Gaber nel suo ultimo disco spettacolo uscito postumo).
dal futurismo al surrealismo all’università di Pavia
Martedì 5 maggio 2009, ore 17-19.30
DAL FUTURISMO AL SURREALISMO
Paolo Jachia Università degli Studi di Pavia, professore a contratto confermato di “Semiotica” e “Semiotica delle arti”.
Gaetano Delli Santi poeta, narratore e critico
autore di La forza generativa del Barocco. L’eredità estetico linguistica dal Barocco alle Avanguardie (D’Ambrosio, 2006)
Un ciclo di incontri pensato per studentesse e studenti universitari, aperto anche a giovani interessati, per leggere le nuove forme di creatività e offrire quindi gli strumenti culturali per sviluppare nuove forme di comunicazione per l’industria culturale contemporanea.
Il Collegio Nuovo di Pavia (via Abbiategrasso, 404), all’interno del Programma
Pavia
“La città partecipata”
“Servizi agli Studenti nei Comuni sedi di Università”
PERCORSI SEMIOTICI NELLE ARTI MULTIMEDIALI NOVECENTESCHE
evento: fiera del libro di torino. presentazione de ‘la forza generativa del barocco’
Spazio Stock -Fiera del Libro di Torino
La forza generativa del Barocco. L’eredità estetico linguistica del
Barocco alle Avanguardie.
La rivoluzione barocca per un’analisi critica della società contemporanea.
A cura di: Fabio D’Ambrosio
Intervengono: Gaetano delli Santi e Paolo Jachia
antologia critica degregoriana. commento alla canzone d’autore // paolo jachia
voci dal web su De Gregori
a cura di paolo jachia
(i crediti compaiono laddove è stato possibile identificarli)
Anche stavolta, non avrete mica creduto davvero che si sarebbe parlato d’amore? De Gregori esorcizza il rumore di niente che scoppia nelle radio con un disco bellissimo, di lunghe ballate assolutamente lontane dai suoni di tutte le mode, soltanto il pianoforte, gli archi e strumenti acustici a sfiorare leggermente le parole del cantante che ondeggia tra i versi delle sue poesie. De Gregori non rinuncia al suo ruolo di maitre à penser della canzone italiana e come se niente fosse aggiunge altri tasselli alla memoria, senza scivolare mai nella retorica della banalità.
Narra il nostro destino di ogni giorno, l’indifferenza che genera violenza e l’epopea delle serene vittime di guerre sanguinarie, le disperanze di un qualunque gruppo di emigranti e la garrula fiera delle vanità dei talk-show televisivi, l’ombra della paura che si intravede sempre intorno a noi. Le delicate canzoni d’amore sono intense e commoventi, come il sincero tributo a De André con la famosa canzone per l’estate scritta insieme a Fabrizio… e proprio alla fine, inaspettatamente troviamo pure l’incantesimo sublime di una struggente canzone breve che é la summa della poetica musicale e della filosofia di vita del Principe: “…sempre e per sempre, dalla stessa parte mi troverai”. Un piccolo capolavoro.
Max Angelino
Non é tornato per stupirci, ma per trasmettere il sano gusto di fare musica. Francesco De Gregori si riconferma come uno dei pilastri della musica italiana, con un album nuovo intitolato “Amore nel pomeriggio”. Musica per parlare di sentimenti e approfondimenti esistenziali, senza però omettere piccole sfumature culturali, che hanno sempre caratterizzato i lavori del cantautore romano. De Gregori non é cambiato, schivo nelle interpretazioni, si lascia però andare nei testi a tratti seriosi e più spesso romantici. Un romanticismo che non é da travisare come mielosità affettiva, ma pura speculazione intorno agli eventi della vita, sognanti in tutta la loro realtà. “Amore nel pomeriggio” é prodotto dalla Sony Music e contiene undici tracce meditate con scioltezza: un’evidenza musicale segno di una professionalità tipica dei grandi autori. Il brano che più farà parlare di sé é senz’altro “Il cuoco di Salò”, dietro il quale non si nasconde affatto un messaggio politico né tantomeno la pretesa di far cultura, ma semplicemente un’interpretazione più umana della posizione di coloro che furono protagonisti delle tristi vicende che interessarono l’Italia nel breve periodo della Repubblica sociale italiana, avente la sua capitale appunto a Salò. De Gregori ritorna a quel famoso autunno 1943, che vide l’Italia divisa in due entità statali distinte, stato monarchico e fascismo risorto, l’un contro l’altro armati, e rilegge per la prima volta, con comprensione, i gesti di coloro che scelsero “la parte sbagliata”. “Qui si fa l’Italia e si muore”, canta De Gregori, dando vita a un testo che si presta a facili strumentalizzazioni lontane però dalle intenzioni del cantautore, cui i panni di politico vanno decisamente stretti. Prodotto e arrangiato da Franco Battiato, “Il cuoco di Salò” vanta l’accompagnamento musicale dell’Orchestra Sinfonica Giuseppe Verdi, diretta da Michele Fedrigotti, che ritroviamo anche al pianoforte e alle tastiere. Seconda traccia di “Amore nel pomeriggio” é “Canzone per l’estate”, scritta a quattro mani con Fabrizio De André nel 1974, e inserita poi «in questo disco non per fargli un omaggio – spiega De Gregori – (Non ne ha bisogno e non so se gli piacerebbe). E’ solo una buona canzone che oggi, dopo tutti questi anni, sento un po’ più mia». Il testo é ironico e sbeffeggia il perfezionismo apparente, dietro il quale si celano le pesanti realtà che rendono impossibile il volo. Anche questo brano richiede un’attenta lettura che un primo ascolto non concede. Scorrendo tra le altre tracce dell’album, inciampiamo in uno dei brani più orecchiabili del cd, ossia “Cartello alla porta”, racconto di un uomo innamorato che si trova a vagare di notte prendendo «gli schiaffi e le botte del freddo e del vino», cosciente di aver perso un treno che non passerà più, e «domani, domani chissà». Da sottolineare anche brani come “L’aggettivo mitico”, che apre l’album, e “Natale di seconda mano”, prodotto e arrangiato da Nicola Piovani. Insomma non delude De Gregori, come aspettatamente rapisce la parte musicale, affidata in più occasioni a strumenti dalle corde raffinate, come archi e contrabbasso. Ad accompagnarlo in questo ennesimo viaggio troviamo Guido Guglielminetti al basso, Massimo Buzzi e Alessandro Svampa alla batteria, Paolo Giovenchi alla chitarra e infine Carlo Gaudiello alle tastiere. “Amore nel pomeriggio” é inoltre una produzione di Guido Guglielminetti. Unico appunto, che esula dal contesto musicale, é l’assenza dei testi all’interno dell’involucro del cd, indispensabili per un’attenta riflessione, che Francesco De Gregori merita.
Dylanizzazione. Orrenda parola, ma buona per dare un’idea del percorso artistico di Francesco De Gregori dalla metà degli anni ’80 a questo Amore Nel Pomeriggio (2001), che rimane tuttora l’ultimo suo album di canzoni inedite. Il suo amore per Bob Dylan è ampiamente dichiarato fin dagli esordi, ma l’avvicinamento alle tematiche e allo stile musicale del padre dei cantautori avviene per gradi e solo dopo un certo numero di dischi, in cui invece prevale il lato intimistico e sentimentale. E’ il periodo più classico, quello del De Gregori “ermetico”, che culmina nel capolavoro Rimmel (1975).
Ma per quanto disseminata qua e là di episodi un po’ grigi, è molto interessante anche la fase successiva, quella in cui anche il poeta finalmente s’incazza, perché proprio non ne può fare a meno, ma lo fa da poeta, senza mai cedere ad atteggiamenti di eccessiva durezza, e soprattutto lasciandosi sempre libera la scappatoia verso il mondo fantasioso e delicato della purezza dei versi, vero e proprio rifugio da raggiungere prima di avvelenarsi troppo nel racconto realistico e nella denuncia impietosa di ciò che non va nel mondo. Dylanizzazione quindi, ma mai completa, neanche in “Amore nel pomeriggio”.
Si parte subito con molto Dylan: “L’aggettivo Mitico” è una ballata fatta di scarni ma tetri accordi di chitarra, con basso e batteria che entrano come sassate in una cristalleria, ma soprattutto con raffiche di parole così precise, pertinenti, velenose, che si stenta a credere che a declamarle sia la pacata voce di De Gregori. “Oggi si versa il vino, si spezza il pane duemila volte che canta il gallo… Socrate grida domande per strada e il Beato Angelico dipinge muri di periferia…”: è una stupenda “Desolation Row” del Duemila: classicismo e degrado urbano, anatemi biblici e disastri ambientali. Durissima anche “Spad VII S2489”, un bel rock serrato, alla Dire Straits. Espone il cinico punto di vista del pilota di guerra, per cui “La terra era una parentesi tra una partenza e l’altra… quasi un’inutile perdita di tempo per cose di poca importanza”. Quanto è lontano il romantico “Pilota Di Guerra” ispirato a Saint-Exupéry, quello che “sparge sale sulle ferite delle città”. I toni più pacati e la musica idilliaca di “Natale di Seconda Mano” non ingannino: affiora prepotente la disperazione degli “ultimi di tutto il mondo, piccoli fiammiferai”, di chi è costretto a vivere arrangiandosi “con documenti di seconda mano”. Così come “Condannato a Morte” può sembrare una spensierata ballata un po’ country, ma proviamo a metterci nei panni del suo protagonista, sia esso Salman Rushdie o chiunque è stato condannato a vivere per sempre nel terrore per motivi religiosi. “Religione può essere terrore” sarà pure la scoperta dell’acqua calda, ma andrebbe marchiato a fuoco su alcune teste fanatiche.
Ma la canzone che da sola giustifica l’acquisto del disco è “Il Cuoco di Salò”, e diciamo subito che di dylaniano non ha ha proprio nulla: melodia classica, pianoforte e orchestra d’archi, motivo così ispirato e toccante da ricordare i tempi della “Donna Cannone”. Nei bellissimi versi rivive solo il punto di vista di una persona semplice, un cuoco, che travolto da eventi più grandi di lui, si è ritrovato al servizio dei gerarchi fascisti in fuga (“qui si fa l’Italia e si muore… dalla parte sbagliata si muore”). Come sia stato possibile scovare del revisionismo in un testo del genere non me lo so spiegare che in due modi: o una serie di elaboratissimi sofismi, oppure una robusta dose di cretinismo. Temo che la seconda spiegazione sia quella giusta, comunque all’uscita di questo disco qualcuno ebbe la faccia tosta di “scavalcare a sinistra” De Gregori, e non gli rese certamente un bel servizio. Non lo meritavano né l’autore, sempre coerente con le sue idee, né questo ottimo album, ma l’imbecillità, nonostante ci sia qualcuno che vocia e si agita per rivendicarne il copyright, in realtà è trasversale e il suo trend è sempre positivo.
Da dove arrivano le nuove canzoni di Francesco De Gregori? Probabilmente da una regione della nostra coscienza, da qualche luogo dimenticato o poco frequentato nell’era della globalizzazione. Per questo Amore nel pomeriggio è una piccola cosa rara, un antidoto contro i malesseri della musica leggera in cui viviamo. Il filo comune dell’album è, probabilmente, l’esigenza di raccontarsi e di raccontare la vita che gira intorno. Eccoli, sfilare dinanzi i nostri occhi, i disperati aggrappati con le loro speranze a un gommone ( Natale di Seconda mano), eroi e antieroi del nostro passato prossimo e remoto (Il Cuoco di Sal ), il vuoto emesso dalla cultura (?) televisiva (Quando e Qui), le paure per un futuro senza identità (L’Aggettivo “Mitico”).E poi c’è lui, ciccio, come ama farsi chiamare, un po’ Charlie Brown e un po’ filosofo, condannato alla vita, quindi Condannato a Morte, innamorato di Dylan e della poesia, mai autocelebrativo, chiuso in un perenne stato di riflessione amara, dolcemente presente come nella conclusiva e discreta Sempre Per Sempre. Il disco musicalmente profuma di America, ha qualche deviazione verso l’area Dire Straits quando le chitarre elettriche prendono il sopravvento. Ma contiene anche le due produzioni di Franco Battiato e Nicola Piovani, così ancorate alla nostra cultura popolare. Amore nel pomeriggio , però è soprattutto un piccolo grande affresco italiano; è l’opera matura di uno scrittore che si fa musicista e cantante, di un uomo che confessa di essere alla Deriva e ci spinge a credergli, perchè in fondo lo siamo un po’ tutti noi. Che ci sentiamo chiamati in causa, e ci ritroviamo un po’ commossi nell’udire le parole del ritornello di Canzone per l’Estate (scritta 17 anni fa con De Andrè): “com’è che non riesci più a volare?” canta De Gregori e alzi la mano chi non si sente parte di questa liturgia.
Alfredo d’Agnese
Francesco De Gregori è oramai l’ombra di un fantasma che cammina, per usare le sue stesse parole nella storica “Marianna al bivio”, datata 1973. Allora il cantautore romano era appena agli esordi e si cimentava in metriche surreali e invettive scomposte, menestrello contemporaneo alla ricerca della propria posizione. Ora, nel 2005, a trentadue anni da quella frase così perfettamente evocativa, la musica che ci viene proposta è un rock gentile, indolente e tendente alla litania, alla moda del Dylan post-’76. La voce è sempre in procinto di risultare monocorde, narrante, mentre la musica fluisce via, vecchia e completamente standardizzata.
A quattro anni dal contorto e irrisolto “Amore nel pomeriggio”, noioso ed eccessivamente autoindulgente, capace di appena un paio di fiammate – “Il cuoco di Salò”, in parte, così come in parte viene voglia di salvare dal disastro una dimessa cantata sconfitta come “L’aggettivo mitico” – e per il resto dimostrazione dell’incapacità di rinnovarsi e di mostrarsi adeguato ai tempi. Difficoltà a connettersi con la contemporaneità che prorompe ulteriormente in “Pezzi”; basterebbe la mediocrità senza speranza di revisionismo di un brano come “Tempo reale”, rock che avrebbe fatto gridare allo stantio anche Jerry Lee Lewis e Chuck Berry, per rendersi conto di come l’urlo sinistro (sinistrato? sinistroide? sinistrorso?) contro i mali del nostro tempo – condivisibili, per carità, non ci deve essere fraintendimento su questo – risulti a conti fatti poco più che un guaito. Come si fa infatti a intendere, in un contesto simile, la parola musicale scissa da quella scritta e declamata?
E, partendo da questo presupposto, come si fa a non considerare negativamente un lavoro come “Pezzi”? Certo, c’è un brano come “Parole a memoria” che fa tornare alla mente il miglior De Gregori, magari incapace di raggiungere i picchi che lo rendono uno dei giganti della musica cantautoriale italiana (non ai livelli di Battiato e De André, probabilmente, ma sicuramente sopra a un Francesco Guccini, tanto per fare un nome a cui quello di De Gregori viene accostato per associazione di idee) ma comunque valida, ben costruita, con un testo non più indispensabile come al tempo che fu ma sempre acuto e la musica che gioca a occhi aperti con la ballata dylaniana – quei minuscoli accenni all’incedere e agli accordi di “Knockin’ On Heaven’s Door”, ad esempio -. C’è “Parole a memoria”, si diceva, ma basta da sola a sorreggere e a dare motivazioni a un lavoro francamente trascurabile?
No, sicuramente no: purtroppo il rock di De Gregori è materia morta, non ha nulla del nostro adesso ma non riesce a porsi come memoria del passato, sfida vinta in coppia con Giovanna Marini nel sottovalutato “Il fischio del vapore”. Eppure quando si respira aria demodé (come in “Le lacrime di Nemo – l’esplosione – la fine”) si capisce che, se solo sapesse staccarsi da questo approccio musicale – che tra l’altro ha partorito solo gli album della fase discendente dell’autore, dal pessimo “Miramare” al sufficiente “Canzoni d’amore” toccando il suo vertice nel comunque non esaltante “Prendere e lasciare” – De Gregori potrebbe ancora dire molto, o comunque potrebbe dirlo senza dover essere considerato inadatto. Perché, e credo che nessuno possa essere stupito da questo, “Il vestito del violinista” sarà sempre più sdrucito e meno elegante dell’”Abbigliamento di un fuochista”.
Di solito, quando i critici affrontano il nuovo lavoro di un “mostro sacro” tendono sempre a gridare al “capolavoro”. Frasi come “…un nuovo gioiello ci viene regalato… e non poteva essere che così!” si sprecano nel timore di suscitare l’ira delle moltitudini di fans. Oppure, al contrario, si cerca di distruggerlo proprio per andare controcorrente e distinguersi dal branco.
Nel mio caso non è così; non mi sono mai considerato un vero critico; semmai un esperto della materia con un notevole bagaglio di esperienza e i mezzi necessari per poter esprimere un’opinione relativamente oggettiva. Per questa ragione, nell’accostarmi al nuovo album di Francesco De Gregori non mi sento per niente intimorito dai trascorsi del “nostro” (che, peraltro, ho sempre considerato leggermente sopravvalutato) e ho cercato di individuare i pregi e i difetti di questo lavoro.
L’album si intitola “Amore nel Pomeriggio”, facendo un chiaro riferimento ad un famoso romanzo di Hemingway. La prima stampa è in digipack, priva di fotografie e con solo un disegno in copertina.
L’Aggettivo Mitico apre l’album; è un brano che, al primo ascolto, mi ha irritato per un ritorno al tipico stile degregoriano impressionista ed ermetico che aveva caratterizzato la seconda metà degli anni ’70. Quel forzare il testo in strofe non-metriche che stridono un po’ con la base musicale, per presentare un testo critico-cinico sui mali della società.
Nonostante questo primo impatto, alcune espressioni sono particolarmente felici (“…e le radio delle ragazzine, dove scoppia il silenzio e ogni dedica si confonde”), mentre la frase-tormentone (“gli uomini col macete sui fuoristrada, gli uomini a piedi nudi lungo la strada”) mi sembra un po’ capziosa. Quello che si salva sempre (in tutto l’album) è il tessuto musicale: scarno ma efficace, ben suonato ed inciso, crea atmosfere bellissime di forte impatto.
Nel 1975 Fabrizio De Andrè, nell’album Vol.8, inserisce ben quattro canzoni scritte a due mani con De Gregori ed un brano scritto solo da quest’ultimo, quasi a ridare verginità a quest’autore bistrattato e, in quel momento, rifiutato da quelle masse che l’avevano osannato nella sua fase più politicizzata. La canzone vincente era La Cattiva Strada; un’altra si chiamava Canzone per l’Estate.
In una sorta di celebrazione-ricordo dell’amico (e collega) scomparso, De Gregori incide una nuova versione di quest’ultimo brano. Poteva farne a meno: non mi piace assolutamente.
Il discorso cambia con Deriva, un classico brano degregoriano, pacato, poetico e semplice: bello.
Spad VII S2489 è scritta da Guglielminetti (che è anche il produttore dell’album) il quale ricalca le orme del “maestro” e compone un brano in stile De Gregori con un testo un po’ scontato sul pilota della prima guerra mondiale.
Il gioiello mi appare in quinta posizione: Natale di Seconda Mano è una bellissima canzone sul tema dell’immigrazione clandestina che, senza forzare i toni, rende la malinconica rassegnazione di questo popolo “fuori”. Toccante anche nell’arrangiamento curato da Nicola Piovani.
Quando e Qui è un altro brano scaturito dalla penna di Guglielminetti che, questa volta, centra il bersaglio con una filastrocca dal sapore coutry-westcoast.
Condannato a Morte comincia bene (anche se avrebbe potuto scriverlo chiunque: da Barbarossa a Bubola a Riccardi, ma lo avrebbero fatto molto meglio) e naufraga in un tragico inciso. Da cassare!
Il Cuoco di Salò è già un “caso”. Quando si parla di certi argomenti, gli opinionisti si scatenano. In realtà, a parte l’ambientazione, il testo è solo l’illustrazione di come la Storia possa scorrere sulla pelle dei piccoli uomini che continuano a vivere, pur travolti dagli eventi, mantenendo il contatto con le piccole cose di tutti i giorni. La frase più azzeccata? “Qui si fa l’Italia e si muore”. Il momento più vero? Quando il cuoco si chiede se gli Americani, che stanno arrivando, vorranno qulche cosa da mangiare. L’arrangiamento è di Franco Battiato. Bello!
Cartello Alla Porta è una ballata dal sapore country-western: la storia di un ubriacone da osteria, toccante nella sua semplicità: un altro bel pezzo.
Caldo e Scuro è musicalmente bellissima, ma il testo ti scivola addosso senza mai riuscire a coinvolgerti; però mi piace molto con i suoi sapori che stanno tra Dylan e Lorenzo Riccardi.
Sempre E Per Sempre, è una di quelle canzoni che, come recita il testo, “lasciano il tempo che trovano”.
In definitiva: no! Non è un capolavoro ma contiene alcuni gioiellini ed è, nella produzione di De Gregori, un buon album dai toni pacati e dalle atmosfere omogenee in cui quella che risalta meglio (e questo è strano) è la musica. Considerando le ultime prove di questo cantautore (in gran parte deludenti) questo nuovo lavoro potrebbe far sperare in una ripresa.
Furio Sollazzi
Pavia, 03/02/2001 AtomicMongo09/12/03, 18.40
1. Pezzi di vetro
2. Un ragazzo
3. Bufalo Bill
4. la casa di Hilde
5. Niente da capire
Ma ce ne sono a decine, drammaticamente tutte vecchie di almeno 20 anni. I primi 3 dischi sono, secondo me, capolavori, con buona pace di chi verrà a parlarmi di plagi e di bob dylan. Canzoni che hanno fatto la storia popolare di questo paese. Nel bene e nel male (nel bene).
Recensione bisillaba
Detto questo, ieri sera all Estragon ha fatto cacare, come al solito. Un complessino rock’n’ roll da balera del Rustichello(AP) che distruggeva sistematicamente e con scientificità uno dei repertori piu belli della musica italiana. Volontariamente, perchè De Gregori è uno che non sopporta che la gente gli canti le canzoni, quindi le smostra, le sbriciola. Solo che a differenza di Dylan, il risultato è vuoto. Una aranciata fatta con arance già spremute. Un vino annacquato, deludente e inutile. Vi avrei fatto sentire *Niente da Capire* in versione rock, così, o *cercando un altro egitto*. Canzoni vecchie di trent anni con le quali 4 generazioni si sono fatte del male fisico. Mi vengono in mente parole come sacrilegio,reato, volgarizzazione. Il problema è sostanziale.Il (mio) problema a un concerto di De Gregori è di Sistema. Canzoni memorabili, pezzi di storia della cultura popolare di questo paese,eseguite come canzonette rock’n roll da quattro soldi.
Preghiera di Natale
De Gregori, ascoltaci, butta le stratocaster, elimina le diavoletto, non sono roba per te. De Gregori tu non sei il tipo da Estragon, non giocare a fare lo stooner alternativo perchè sei grottesco, non convinci nessuno, neanche i tuoi fan fissati che si sentono 10 volte di fila la donna cannone- ascoltami ti prego, riporta sul palco il pianoforte a coda. Ricomincia a farti le pere. ritrova te stesso
La musica etnica / la contaminazione / l’ultimo rifugio dei vigliacchi / la comunicazione. Si schiera subito, a muso duro, De Gregori nell’ultimo suo disco. Testi dove si esprime lo smarrimento ma anche la robusta resistenza umana. Un disco classico, nel solco della tradizione cantautoriale, degno del miglior De Gregori, dopo la pletora di inutili dischi dal vivo prodotti per un decennio. Un disco dove spiccano molti pezzi come la chiacchierata Il cuoco di Salò, che emerge non per le inutili polemiche ma per l’ottima produzione di Franco Battiato e per l’intenso verso: Che qui si fa l’Italia e si muore / Dalla parte sbagliata / in una grande giornata si muore / In una bella giornata di sole /Dalla parte sbagliata si muore. Altra produzione eccellente è quella del premio oscar Nicola Piovani, che arrangia con finezza, Natale di seconda mano.
De Gregori offre anche un omaggio allo scomparso Fabrizio De André, incidendo Canzone per l’estate, scritta con l’amico ormai quasi trent’anni fa (1973-1974) per l’ottimo Volume VII.
Un disco in delicato equilibrio tra ragione e sentimento. Ecco il Sior Capitano che non è più il nobile comandante del Titanic ma forse un oscuro scafista, che però raggiunge la riva.
Due canzoni dell’album non sono scritte da De Gregori e questa, se ci eccettuano le incursioni live, è la prima volta che De Gregori interpreta pezzi non suoi. Due canzoni che, comunque, sono più Degregoriane (si dirà così?) di quelle scritte da De Gregori stesso. Sono Spad VII S2489, legata alla morte di Francesco Baracca, destino e alla magia del volo; mentre Quando e qui occhieggia ai vaniloqui televisivi e non.
Musicalmente l’album offre molto suono acustico tra chitarre, pianoforte e archi. Un suono che accarezza le parole pur permettendosi un divertente country o qualche accenno di folk-rock elettrico. L’ombra di Dylan è sempre più lunga e si staglia su tutto l’album che nulla concede alle sonorità contemporanee, coerente fino in fondo con il verso della prima canzone. Un album con quasi la metà dei brani che raggiungono l’eccellenza armonica. Un ottimo lavoro.
Stefano Gorla
– AMORE NEL POMERIGGIO (2001) Il colpo di reni prima della caduta. Lo ascoltai e gridai al miracolo, tutti brani di ottimo livello, “Il cuoco di Salò” (arrangiata e prodotta però da un certo Franco Battiato) e “Sempre e per Sempre“ sono due capolavori che reggono il paragone con le pietre miliari dell‘artista, bello anche il tour.
– PEZZI (2005) L’inesorabile discesa. Quello che chiunque si sarebbe aspettato da un cantautore in declino, canzoni dignitose, nessuna particolarmente valida, ma con lo stile di De Gregori che si percepisce ancora.
– CALYPSOS (2006) L’evitabile fine. Generalmente è inevitabile, questo invece è uno dei pochi casi in cui poteva essere scampata. Praticamente un suicidio artistico.
http://www.sonymusic.it/degregori/
Recensito da TEDDI
postato da: teddi82 alle ore 02:44 | link | commenti (27)
categorie: de gregori
sabato, 18 febbraio 2006
‘la città vecchia’, de andrè. commento alla canzone d’autore // paolo jachia
Autore e data di composizione: testo e musica di Fabrizio De Andrè, 1965
Periodo/Successo: quando questa canzone uscì non ebbe nessun successo o appena un successo underground. De Andrè iniziò ad essere conosciuto – a lasciarsi conoscere – negli anni Settanta quando accettò di fare la grande tournée con la Premiata Forneria Marconi (e, particolare biografico non secondario, da quando nella sua vita è entrata la sua seconda moglie Dori Ghezzi). Da quel momento questa canzone è divenuta – prima attraverso un sempre più vasto successo pubblico poi anche per la critica – un po’ il simbolo dell’universo poetico di De Andrè.
Commento: “La città vecchia” non è solo una delle più importanti canzoni di De Andrè, ma costituisce anche una buona base per illuminare le sue scelte artistiche e linguistiche. Infatti è importante subito precisare che “La città vecchia” di De André è una rielaborazione-traduzione di una poesia di Umberto Saba intitolata anch’essa “Città vecchia” di cui credo necessario riportare alcuni versi per meglio mostrare quale sia il percorso di De Andrè e il suo uso, liberissimo delle fonti e degli influssi culturali.
Scrive il triestino Saba: “Spesso, per ritornare alla mia casa / prendo un’oscura via di città vecchia (…) Qui tra la gente che viene che va / dall’osteria alla casa o al lupanare (…) qui prostituta e marinaio, il vecchio che bestemmia, la femmina che bega, (…) la tumultuante giovane impazzita / d’amore / sono tutte creature della vita / e del dolore; / s’agita in esse, come in me, il Signore. / Qui degli umili sento in compagnia / il mio pensiero farsi / più puro dove più turpe è la via”.
Possiamo notare che nel testo di De Andrè, rispetto a quello originario di Saba, vi è un maggior realismo accompagnato a una semplificazione del lessico, delle immagini e dei concetti e irrobustito da un fortissimo gusto narrativo e dall’abbandono della presenza lirica soggettiva. E’ interessante rilevare che sono i primi due versi – dove si usa la prima persona – quelli caduti ed eliminati e che nella chiusa dove ricompare la riflessione diretta di Saba, De Andrè preferisce inserire un’apostrofe rivolta all’ascoltatore e un atto d’accusa all’ipocrisia borghese.
Echi letterari: Le differenze ora notate tra la poesia di Saba e il testo De Andrè ci permettono di sottolineare due aspetti. Il primo che De Andrè non è un poeta nel senso convenzionale del termine ma piuttosto un cantastorie, o, meglio ancora, un autore di racconti-romanzi cantati. L’altro che è preponderante in De Andrè, rispetto alla lirica “cortese” italiana, l’influsso della poesia grottesca-carnevalesca, italiana e non italiana. Possiamo affermare dunque che il De Andrè chansonnier in proprio e traduttore di canzoni d’altri e rivisitatore di poesie antiche e moderne è comprensibile solo a partire dal fatto che egli era comunque e sempre un cantastorie, che insomma egli, anche in versi, era un grande autore “romanzizzato”. Non solo, ma possiamo anche ribadire che la cifra costitutiva del suo canzoniere è l’ironia, il grottesco, il rifiuto della classicità, il tradurre anche la propria lingua in un’altra lingua, il giocare con le parole per liberare le parole, per spezzare la crosta della convenzionalità e dare nuova libertà all’uomo e al suo pensiero.
Influenze sulla musica successiva: De Andrè è sempre stato un grande innovatore. Dunque in tutti e tre i periodi della sua attività – quello in cui era maggiormente influenzato da Brassens e dagli chansonnier francesi (anni Sessanta), quello in cui si è aperto al rock e a Bob Dylan (anni Settanta) quello in cui è arrivato alla word musica (anni Ottanta/Novanta) – ha avuto un enorme successo di pubblico e di critica. Non solo, ma De Andrè ha avuto una grande influenza su autori che sono stati suoi collaboratori ed amici: De Gregori, Bubola, Fossati, Malaspina… Ma forse l’influenza di De Andrè è stata più complessa ed indiretta. Nessuno dopo di lui ed anche tragicamente dopo la sua morte ha potuto più dire che la canzone italiana non era arte.