«Street art, sweet art»
«Street art, sweet art» – Pac, via Palestro 14
Siamo onesti siamo andati a vedere questa mostra domenica 15 aprile con un forte e maleodorante sentore di marcio, insomma con un pregiudizio visibile e intuibile, perché la domanda era nell’aria come un siluro e nelle nostre menti piene di avanguardia rombava feroce: come fai a mostrare la street art in un museo? Come fai a lasciare inalterata la sua carica dirompente?
Per giudicare devi vedere! L’operazione poteva anche essere riuscita e così siamo entrati.
Questa non è street art!
Meno male un artista di strada lo ha scritto piccino, ma chiaro e il cuore un po’ si è sollevato dall’imbarazzo, ma non ci ha consolati per la meschina operazione.
Ci troviamo davanti muri bianchi segnati da leggeri graffi in grigio-nero oppure coloratissime tele. Il gioco di contrasto è evidente, ma non rappresenta né il reale, né un simulacro. Siamo ad una mostra, per altro anche male assemblata, di arte contemporanea.
Pochissime le informazioni messe in circolo. Praticamente assente l’analisi semiotica, sociologica e politica della street art. Ancora più inquietante a ben pensare anche il titolo della mostra. Ma come sweet art???
La street art messa in mostra, insomma, non è neanche l’operazione di mortificazione della carica esplosiva, contraria e anarchica del writing di strada, è peggio! E’ la museificazione del già avvenuto processo di commercializzazione di tutto il mondo che si porta dietro. Ecco perché una parte consistente della mostra è dedicata a pupazzi, più o meno saccheggiati dalla pubblicità e/o più meno riciclati dalla televisione, a gadgets. Ecco perché sweet, dolce! Certo la moda è già riuscita nell’operazione di ammorbimento delle forme, dei colori e soprattutto dei contenuti: niente giovani arrabbiati, niente contenuti altri, solo moda, solo segni belli, vestibili, usabili, dimenticabili e acquistabili. Si tratta, cioè, di un processo di normalizzazione del “diverso”, che ruba gli elementi più forti d’invenzione delle controculture per impoverirli semanticamente, grazie all’uso massificato degli stessi.
Intorno alla mostra invece la città brulica, magari insensatamente, magari senza neppur far avanguardia, ma vive, mentre qui dentro l’odore di morte ci nausea a tal punto, che usciti facciamo fatica ad esprimerci.
Ho ripensato a lungo all’operazione street art sweet art e il dubbio che qualcuno, di quei benpensanti che chiedono ogni anno la pulizia dei loro bei palazzi nero-polvere-sottile dai graffiti, sia uscito con la convinzione ulteriore che l’Arte si fa su tela e il vandalismo in strada, si è fatto sempre più opprimente.
Ho sentito così l’urgenza di ripescare tra le pagine della mia tesi qualche pezzo di analisi, per gusto di giustizia, per gusto di scienza ed arte che è altro dal saper commerciare.
Tratto da TRA IL TATUAGGIO E IL GRAFFITO: SCRITTURE METROPOLITANE. – anno accademico 1999-2000, Università IULM, Milano
Capire i linguaggi che si sviluppano nella città vuol dire prima di tutto comprendere il carattere comunicativo della stessa, la forza dirompente che limita ed invita, nello stesso tempo, il flusso comunicativo. Un flusso che parte dall’individuo e arriva al corpo e ai muri cittadini.
Corpi e muri che si fanno supporti di messaggi verso il mondo, carichi di valenze simboliche forti, irruente Welthanshauung spesso in contrasto con le visioni dominanti, opposte all’esistente.
Solo, allora, partendo da un’analisi sulla metropoli, sulla sua evoluzione storica e sulle sue valenze simboliche sarà possibile avere uno scenario per le successive riflessioni sugli specifici linguaggi e sarà possibile comprendere come lo stesso esistere e svilupparsi della città lungo le direttrici della modernità siano alla base della nascita di tali istanze comunicative.
Ciò che la città permette, infatti, è un continuo brulicare di linguaggi che nascono negli interstizi più nascosti, tra le piaghe delle sue numerose strade, tra le sue infinite periferie.
Nel grande labirinto cittadino, dove la comunicazione istituzionale copre l’individuo e dove i ruoli e i compiti sono ben delineati, si formano miriadi di vie alternative, trascurate o isolate, semplicemente vie altre non relegate alla “normalità” e quindi sperimentatrici di nuovi linguaggi.
Analisi Del Linguaggio Graffito
(…) E’ bene ricordare che esistono diverse tipologie di writing, che si differenziano non solo nella modalità di scrittura, nella forma, ma anche rispetto ai luoghi in cui vengono eseguiti.
Tra le tipologie, le principali, o comunque le più ricorrenti, sono:
la Tag: il nome, cioè, del writer, o meglio il suo pseudonimo. Si tratta di un tipo di firma sostanzialmente poco elaborata e di veloce esecuzione, che serve come riconoscimento della persona nei confronti dei membri della cultura hip hop.
Nei confronti del mondo esterno è un atto di riappropriazione della propria identità, che attraverso la scelta consapevole di un nome altro da quello imposto dalla nascita, si rivela come libera, fantasiosa e non più anonima.
La tag è il primo passo per la creazione di un’identità sfuggente e non schedabile, ma nello stesso tempo sentita propria, scelta e solidaristica, perché in grado di creare un’unione tribale tra i membri della stessa “banda”.
il Throw – Up: si tratta di un’evoluzione della tag introdotta a causa dell’impossibilità di essere visti e riconosciuti nella miriade di firme che aveva letteralmente “infettato” la metropoli. Il throw – up è sostanzialmente una tag più grande, composta di lettere bombate (“buble”) contornate e riempite da almeno due diversi colori.
il Piece: è un “dipinto”, cioè un’evoluzione ulteriore del throw – up, che per l’utilizzo di molti colori, l’espansione ulteriore delle lettere e l’introduzione di elementi grafici e fumettistici, viene considerato un vero e proprio capolavoro.
La realizzazione di un piece (o “pezzo” secondo una traduzione poco felice, ma molto usata) richiede molto più tempo rispetto alla semplice tag e quindi un rischio maggiore nella sua realizzazione illegale. Per ridurre i tempi di esecuzione vengono sostituiti i tappini delle normali bomboletta spray con quelli a getto più ampio delle schiume da barba. All’interno del piece si possono distinguere ulteriori suddivisioni, che caratterizzano l’esecuzione di opere sui treni, per esempio. Tra le numerose “nomenclature” dei vari pezzi, sicuramente le più note, sono quelle che riguardano il supporto treno, come per esempio:
il Top – to – Bottom: pezzo che copre le vetture da cima a fondo, quindi in altezza.
il End – to – End, che, invece, ricopre il vagone in tutta la sua lunghezza;
il Whole Car, che comprende i primi due, dipingendo il vagone interamente, con l’inclusione dei finestrini. Si tratta di un’opera completa che coinvolge spesso più crew e permette di dare ampio al loro immaginario collettivo.
il Whole Train: come si può immaginare è un estensione del precedente a tutto il treno. Un’opera completa, che permette un vero e proprio racconto e che per l’esecuzione richiede la compresenza di numerose persone.
Inizialmente il bisogno urgente di rappresentare la propria esistenza si incarna in una segnatura dei luoghi d’incontro e di vita quotidiana, rimodellati esteticamente secondo il proprio immaginario e resi riconoscibili nell’immensità dei nonluoghi (è il caso dei “muretti” su cui si ritrovano i ragazzi, ma anche delle metropolitane e dei treni su cui viaggiano costantemente per i loro spostamenti di studio o svago, per esempio); successivamente, la scelta ricade su veri e propri spazi marginali della città: dalle periferie abbandonate agli edifici in disuso, il writing si accompagna, spesso (almeno in Italia, negli ultimi venti anni) ad una occupazione dei nonluoghi.
Presa di coscienza del vuoto esistere, dunque, e movimento contestativo, controculturale, “violento” di riappropriazione e di sottrazione degli spazi abbandonati (quindi non più utili, non più produttivi) o esclusi, anche attraverso la “purificazione” del colore contro il contagio del nulla.
Tuttavia, al di là dell’evoluzione e delle tappe segnate dal movimento, rimase fondamentale il bisogno di comunicare, la forza dirompente di un atto che si imponeva sopra tutto e tutti. Ogni tag, infatti, stabiliva con una forza sorprendente la presenza di una persona che fino a quel momento era rimasta nell’anonimato di una normalità tranquillamente prestabilita.
Nessuno negli anni Settanta si aspettava una rivolta di questo genere. Il writing e il movimento hip hop scelsero una via inimmaginabile: al grigio cittadino risposero con il colore e alla violenza fisica subita da una continua emarginazione con una violenza testuale, che aveva la sua forza non tanto nel contenuto del testo, ma nella forma estetica, nel suo modo di porsi.
La cultura ufficiale fu quasi paradossalmente, attaccata sul suo stesso terreno. Se, infatti, gli anni Settanta stavano preparando il terreno alla società dell’immagine del decennio successivo e alla comunicazione a tutto campo, il writing riuscì a portare questa evoluzione ad uno scontro prima ancora che sorgesse.
Da lì a poco l’individualità si sarebbe imposta come valore: avere successo e apparire il più possibile sui mass media fu una conseguenza di questa predominanza valoriale.
Se, infatti, la città è il luogo del potere e dell’economia, è pur anche vero che da tempo si è delineato un nuovo tipo di supremazia, che lontana dalla materialità della produzione, fonda le sue radici sull’omologazione dei codici, dei segni, della cultura.
Si è nel pieno dell’era della riproduzione in serie di simulacri da prendere a modello, di segni preconfezionati da consumare, deglutire e assimilare per omogeneizzarsi ad uno standard sempre più imposto da un centro sfuggente e lontano. I writer trovarono, così, all’inizio di questa rivoluzione, e oggi nel pieno del suo sviluppo, non solo un modo per rimarcare la propria identità, ma per opporsi al dilagare dei vuoti simulacri.
La scelta della tag, in questo contesto, non è più solo la scelta consapevole di un nome e, quindi, la presa di coscienza consapevole di sé e del mondo, ma è anche un atto di disorientamento nel sistema ufficiale.
Dove tutto, infatti, significa, creando uno stretto legame tra denotazione e connotazione, la tag è vuoto nulla agli occhi della gente: non individua nessuno in particolare, non vuole dire nulla. Paradossalmente ciò che per l’individuo è identità, per il mondo è sfida sul suo terreno e virus in grado di creare un’aberrazione nel sistema dominante. Le tag si introducono nell’urbanità e si mischiano ai segni ufficiali: hanno lo stesso apparire, sono simulacri di qualcosa; ma mentre quelli pubblicitari e mass mediatici nella loro finzione cercano di denotare una verità, una fisicità (di prodotto, per esempio), i graffiti si pongono per ciò che sono, puro segno in grado però di infrangere la falsità del continuo sembrare e apparire.
In altre parole la tag, da una parte si trasforma in “codice a barre”, marchio identificativo, che non vuol dire nulla, proprio come sta succedendo con il sistema delle denominazioni, dall’altra, smascherando la falsità dei rimandi dei segni mediatici, rivelandone la loro realtà di puri simulacri, si fa propositiva di una nuova significazione. Alla personalità esclusivista, al dilagare, cioè, di un individualismo sempre più autoreferenziale, i writer scelgono una denominazione in grado di diventare simbolo di una nuova struttura sociale, che fa riferimento ad un’unione totemica dei membri e quindi ad una socialità veramente solidaristica.
Il graffito, in questo senso, altro non è che la difesa e la riproposizione di una comunità, quella del gruppo etnico nero o di qualsiasi altro gruppo minoritario (e quindi anche della “tribù giovani”), che viva in base a legami più che di sangue o economicamente fruttuosi, secondo una solidarietà forte e diffusa.
Non aveva più senso ciò che un giovane scriveva, ma come lo faceva: con la velocità dei treni e del passo delle persone, simbolo di una società in perenne corsa, ciò che contava era ciò che l’occhio poteva vedere, anche di sfuggita. La grafica e il colore hanno un’immediatezza difficilmente raggiungibile con la lettura di un testo, anche il più semplice: hanno la capacità di colpire, come uno schiaffo in pieno volto, e arrivare direttamente al cuore, senza passare per la ragione.
La semplice lettera, viene astratta dalla sua funzione originaria: non ha più senso in base ad un alfabeto convenzionale, che le permette di significare ponendosi vicino ad altre lettere simili, ma da cui si distingue.
La lettera mantiene la sua forza comunicativa al di là delle convenzioni codificate, grazie alla sua capacità di farsi segno visibile ed estetico di un passaggio umano.
In altre parole consonanti e vocali diventano puri segni illeggibili come testo scritto (così similmente a quanto accade con le lingue orientali o asiatiche in una cultura ad alfabetizzazione occidentale), ma profondamente comunicativi in quanto traccia di un atto comunicativo. L’enunciazione, quindi, forte del suo esserci, copre ogni possibile funzione poetica del testo, lasciando in gran parte spazio alle funzioni fatiche ed espressive, in grado di sottolineare la traccia di sé nel discorso del testo e di produrre una forte interpellanza del destinatario: ancora si vede come il writing riprenda i meccanismi mass mediatici per trasformarsi in forma, in messaggio senza contenuto.
Se la comunicazione è normalmente un insieme poco distinguibile di segni simbolo, icona e indice, nel caso dei graffiti, almeno delle tags (poiché per i pezzi con l’inserimento di immagini bisogna fare un discorso diverso), il testo non rimanda continuamente da un segno all’altro spiegandosi, ma si attorciglia su se stesso, sul gioco continuo di un’enunciazione infinita.
Il segno graffito è una firma ripetuta, indice della presenza di chi comunica all’interno di un testo che non fa che urlare proprio questa traccia di sé nel testo.
La forza di questa ribellione assume un valore ancora più forte, se si considera che
il writing nasce in America e si oppone proprio al linguaggio universale per eccellenza: l’inglese, lingua di conquista e predominio dei forti sui deboli, del modello capitalistico sul mondo intero e modello di lingua massmediatica per eccellenza. Da questo punto di vista risulta ancora più evidente il contrasto e la violenza di un “non-linguaggio” , che ha scelto di rovesciare gli stereotipi e l’omologazione della società dei grandi e dei bianchi, si potrebbe aggiungere, visto il legame con la cultura nera di questo movimento .
Se ad un primo sguardo le scritte dei writer appaiono per lo più incomprensibili e misteriose, ad una più attenta analisi rivelano la loro capacità di essere specchio di mille voci. In altre parole il linguaggio graffito altro non è che la continua invenzione, deformazione, reinvenzione, ascolto e fusione dei numerosi dialetti, discorsi, gerghi ed espressioni presenti nella metropoli, nelle sue strade. La sperimentazione è, quindi, in qualche modo una ricerca di familiarizzazione di un universo troppo ampio, incomprensibile e alienante, nel suo correre affannato, ma è anche un ideale modo per uscire fuori da un mondo fondato sulla parola scritta, sulla limitatezza delle lettere. L’interessante teoria di Michel de Certeau sulla scrittura non fa che argomentare meglio l’ipotesi che si vuole sostenere (il legame, cioè, tra pratiche conflittuali e metropoli), proponendosi in parallelo con le modalità del writing. De Certau, infatti, sostiene che il progresso è di tipo scritturale, che, cioè, tutto ciò che è orale non lavora a favore del progresso, delimitando, così, una netta differenza tra il mondo primitivo, basato sulla tradizione, la magia, il racconto e la modernità, occidentale, capitalistica, “scritta” . Scrivere equivale a produrre, delimitare e ordinare secondo il principio di razionalità; vuol dire generare un proprio volere (“Devant sa page blanche, chaque enfant est déià mis dans la position de l’industriel, de l’urbaniste, ou du philosophe cartésien…” ). Si formano, così, due chiare e distinte classi di persone: quelle introdotte nel sistema della modernità e quelle che per vari motivi ne sono escluse, che non partecipano al suo lavoro produttivo.
De Certeau dà di queste ultime degli esempi (per molti versi superati, anche se forse ancora di grande attualità), che includono i selvaggi, i folli, i fanciulli e le donne: tutti coloro, cioè, che eliminati dalla macchina produttiva, continuano a parlare, a “scappare”, traducendo le parole dell’autore, “alla dominazione di un’economia socioculturale, all’organizzazione di una ragione, all’influenza della scolarizzazione, al potere di un’élite e, in fine, al controllo della coscienza illuminata” .
Il writing seppur scritto, ha una matrice prevalentemente orale, di racconto surreale, di meticciato incrocio di voci ed è proprio con questa sua capacità che riesce ad essere rivoluzionario, ad essere un neologismo continuo (i neologismi per altro caratterizzano maggiormente la lingua parlata, “l’evoluzione istintiva”, più che la razionale scelta scritta). Al rapporto convenzionale instauratosi con il tempo tra significato e significante di ogni parola, il writing ha risposto con un approccio molto più fisico, tattile, in cui ogni segno comunica in base al proprio esserci, alla propria fisicità espressiva.
La capacità della parola, del linguaggio orale di essere evocatrice di mondi magici, di fiabe infinite, anche attraverso l’invenzione, la sperimentazione in buona parte scompare nella scrittura ufficiale (altro è l’avanguardia!), ma riesce nel graffito, segno scritto, a trovare un suo equilibrio, grazie all’utilizzo dei colori e alla forza dello stile, che creano un incantesimo ipnotico.
Altro parallelismo tra il writing e l’oralità è sicuramente la mancanza di permanenza nel tempo di entrambe. Se, infatti, come recita il detto, “scripta manent, verba volant”, la scrittura dovrebbe opporsi alla voce proprio per la sua capacità di rimanere, di farsi storia e memoria, istantaneamente, e questo dovrebbe valere per tutti i segni, anche per il graffito. Quest’ultimo, invece, è legato ad una volatilità che, forse, è anche superiore a quella della parola: un treno dipinto di notte, rischia di non vedere mai la luce, di non essere mai letto da nessuno, se viene bloccato per essere ripulito prima di uscire dal deposito; così un muro graffito può durare anche poche ore, perché ricoperto da un altro oppure da un’immediata e “ufficiale” imbiancatura. La memoria di un graffito è affidata alla macchina fotografica, così come quella delle voci ad un registratore: ”l’oblio” minaccia entrambe con una capacità di erosione e di distorsione, che non è paragonabile alla corrosione dei testi scritti.
Il writing, quindi, si pone come un ibrido (il parallelismo con l’uomo cyber, a metà tra il corpo naturale e meccanico è anche troppo evidente, ma lo si vedrà meglio più avanti) tra la voce e la scrittura, tra la sinestesia della prima e la segnazione della seconda.
Attraverso la capacità di ascoltare e assimilare le voci della città, il graffito, si fa voce egli stesso e con la sperimentazione continua, con la non linearità del suo essere, diventa capace di riprodurre la scoperta, la conoscenza. Quest’ultima altro non è che un processo di tentativi, di frammentari esperimenti e di errori ripetuti, che lontana dal legarsi alla feconda razionalizzazione della scrittura (non casualmente solo dopo molti esperimenti è possibile formulare e scrivere una tesi scientifica), tende ad avvicinarsi molto di più al racconto, alla comunicazione, che trova continui aggiustamenti nei feedback.
Frammentario collage, il graffito, rispecchia, dunque, la quotidiana esperienza del mondo e ha la capacità, di mischiarsi nella metropoli sovvertendo le regole, grazie alla facilità di diffusione e al suo personalissimo essere rumore comunicativo, mezzo senza messaggio e nello stesso tempo portavoce di ogni minoranza emarginata della città.
Il graffito è caos puro, è l’immagine di un mondo vero, di una tribalità che si è persa e che le voci dei popoli richiedono sempre più di ritrovare.
Provate ora a rileggere la mostra Street Art, Sweet Art…