gli autori depongono innanzi all’inquisizione culturale circa la propria ortodossia eretica
inquisitore
Svegliandovi stamane avete forse avuto un attacco di colica, uno struggimento di corpo? Be’! cos’è questo libro? è scritto in un linguaggio per lo più indecifrabile, e le pagine… le pagine son zeppe di cervellotiche immagini pittoriche: cervellaggine, a mio avviso, piaggiata da ghiribizzi e strampalerie. È così che si fanno i libri? Dov’è andata a finire la nostra aulica tradizione classica, che per secoli e secoli ci ha fornito opere pien di equilibrio, di posatezza, di compassatezza e di buon senso?
autori
Calma! calma! prova un po’ a riflettere. Ti pare che in un’epoca tutta multimedialità, affidata alla prestezza e precisione programmatica dei computers, all’animalità tecnologica della informatizzazione di massa, alla globalizzazione telematica e informatica, si possa continuare a produrre arte e scrittura ancora vezzeggiate dall’oppio d’una nazional tradizione, gestite da pacifiche imperturbabilità, da soporifere placidità, da flemma anestetizzante? Questo libro, per quanto bislacco possa sembrare, è un’opera interdisciplinare e, in quanto tale, affermiamo:
un poeta che non sia in grado di dar colore ai suoi versi, un artista visivo che non modelli immagini anche con forme verbali; un poeta che non sappia dare profondità di campo e tridimensionalità alle strofe, un artista visivo che non sappia ottenere semanticità poematica dalle proprie composizioni… non sono di questo mondo, non appartengono a questo secolo.
Finanche l’apatico sistema scolastico è stato ridestato dalla sua secolare catalessìa, esigedo -per l’acculturazione dell’allievo- un percorso di studio propedeutico a una elaborazione culturale interdisciplinare.
Ciò detto, vogliamo forse -noi poeti- lasciarci ancora ammansare da una bigottería in grado solo di proporre l’ennesima scrittura che si
sputacchia addosso, sbavando a ràncido poetucolo, lagrimosi e incitrulliti versi?
Vogliamo forse -noi artisti- continuare a pescare idee nel già trito-ritrito, essere illetterati, zotici e incolti come tradizion postmodernistica comanda? …e bissare, rifare ciò che gli altri hanno già fatto-rifatto?
Basta con la bizzochería scolastica e accademica! Se addirittura la scuola pretende interdisciplinarietà nell’insegnamento, potremmo mai proporci al di sotto del quoziente intellettivo del discente?
inquisitore
Sì, certo, dite pure quel che volete, ma a me… tutto ciò non convince! L’interdisciplinarietà l’ho sentita nominare tante di quelle volte, che a risentirla mi stizzisce. E poi… a dirla tutta, l’interdisciplinarietà non è una tecnica digià bell’e usurata? Dagli anni ‘70 ad oggi… quanta interdisciplinarietà è stata consumata dai linguaggi espressivi? Quante volte abbiamo assistito a poeti che -nel bel mezzo d’una sala illuminata con luci psichedeliche- recitavano i propri indiscreti mugugni con enfasi da chi ti propina la vera voce di Dio, nel mentre che sulle pareti -oh… apriti cielo!- immagini scorrevano… scorrevano flosciamente proiettate in diapositive?
E che dire della lirica? Il poeta è invitato a scrivere un testo melodrammatico adatto a essere musicato, il musicista vi ricama per esso della musica, lo scenografo rende tutta l’opera visibile e godibile sul piano teatrale. E voilà… buon divertimento! si debutta con un’opera interdisciplinare. E poco importa ch’essa smozzichi musica e parole a opera buffa, o farfugli -ventríloquo in estasi- a sacra rappresentazione, o blesa e tartagliante si rivolti sulla scena a scilinguare a parodía o a commedia, o…
autori
Basta così! abbiamo compreso che tu… non hai compreso. Affidare a un poeta il compito di scrivere un libercolo con parole adatte a esser musicate da un musicista, portare poi tutto in scena… non vuol dire aver fatto un’opera interdisciplinare, anche solo per le seguenti ragioni:
1) il poeta deve prestarsi a scrivere in punta di piedi, deve cioè elaborare un testo che non si ponga -in qualità di scrittura- in modo competitivo e antagonistico rispetto alla musica, poiché solo alla musica spetta fare la parte del leone;
2) sia il poeta che il musicista lavorano a distanza, ognuno rinchiuso nel proprio harèm. Il poeta scrive il testo… e dopo averlo completato, seguendo scrupolosamente le esigenze tecniche esposte dal musicista, ecco subentrare il musicista, ecco il musicista schiacciare la scrittura e… neppure con rammarichìo da parte del poeta: è la prassi.
Ma… perché vi sia interdisciplinarietà occorre realizzare un progetto in comune, analizzarlo, organizzarlo con la messa a punto di un laboratorio corale, in cui ogni disciplina (pur conservando la propria autonomia) deve porsi nei confronti dell’altra dialetticamente… disposta a rinnovarsi a quel contatto dialogico.
Interdisciplinarietà v’è quando nessuna delle discipline (fra quelle chiamate in causa a interagire) perde nulla della sua forza espressiva.
Chi vuole il buon rapuglio, lo semini di luglio, ch’è dire: chi vuol dare più incisività propulsiva alla propria disciplina, la semini in un’altra a sé confacente.
Ora, se ti dicessimo… per anni abbiamo rincorso il desiderio di realizzare un’opera interdisciplinare, che fosse non solo la prova tangibile della convinzione che una qualsivoglia disciplina espressiva acquista -per se stessa- maggior energia e forza se impara a manipolare le proprie strutture tramite gli insegnamenti che le possono pervenire dal fortuito incontro con un’altra disciplina a sé affiancabile in modo speculare, ma che fosse pure la dimostrazione pratica che l’unione di più discipline espressive (quando l’una è indissolubilmente complementare all’altra) porta inevitabilmente a una elaborazione mentale del tutta inconsueta e inusitata… non ti suggerirebbe niente di diverso da ciò che hai appena dichiarato? no? allora ascolta…
L’interdisciplinarietà consiste -secondo noi- nella energica compenetrazione di due o più discipline. Una disciplina deve penetrare l’altra, e se non v’è orgasmo, vuol dire che lo spasmo di copulazione non ha fruttato piacere perché non v’è stata una perfetta intesa. L’intesa, ovviamente, non può che avvenire per intersezione, confluenza, attraversamento.
Una disciplina deve divenire l’altra per mero atto di trasmutazione. Un brano poetico, ad esempio, dovrà prendere movimento con parole che foneticamente si faranno tattili e visive, e dovrà -con le stesse- penetrare negli orecchi: ora con una timbricità cromatica texturizzata a superficie pittorica, ora sbattagliando (plasticamente) la propria voce sonora come campane di bronzo.
La scrittura -concedici questa metafora- deve essere organizzata secondo la matericità di un oggetto d’arte: il plasticismo della forma deve procurare alle parole movimento ed espressione fisica, palpabile, corporea, visibile. Le parole devono susseguirsi a lapilli, a scorie, a magma. Devono suggerire volume e moto, sapori e odori, e -se occorre- materia bruta e fangosa.
Per un’opera visiva la trasmutazione deve invece avvenire, in questo caso, in termini letterari: essa dev’esser fatta anche per esser letta a mo’ di poema. Per ottenere tale effetto occorre che le immagini si dispieghino come versi, e come i versi… ogni immagine iconica deve fungere da micro-testo. Una linea cioè… o un minuscolo punto, non solo devono essere elementi essenziali (e non di troppo) nel contesto strutturale compositivo, ma devono pure -insieme al contesto- conglomerare in sé tutti gli elementi peculiari che servono a organizzare (in maniera esaustiva) una composizione in termini poematici, devono insomma divenire micro-composizioni con elementi che vanno dal ritmo alla sonorità delle parole, dalle stratificazioni metaforiche a quelle allegoriche, eccetera, eccetera.
Una composizione visiva, quindi, non deve essere figurata soltanto con immagini e textures cromatiche, ma deve essere intensificata a processo dinamico di movimenti tipici di un componimento lirico o epico.
Ma… secondo quale elaborazione progettuale coordinare un’opera interdisciplinare, evitando incongruenze tra forme e contenuti, tra testo lirico e testo grafico-pittorico, sul piano soprattutto stilistico? in che maniera venire a patti coi problemi tecnici per portare il testo grafico a svolgersi -coerentemente col testo scritto- secondo un ritmo narrativo poemizzato, fatto di ritmi accelerati e decelerati, di pause e cesure a preannunciare rapidi guizzi d’azioni, convulsi sussulti di forme quasi usciti dai ruggiti dell’universo, dai mugghiamenti di eccitate piroette di forme e immagini iconiche tutte in formicolio, in scotimento tra trabalzi e improvvise metamorfosi?
Occorreva, innanzitutto, che sul piano editoriale non vi si ponessero limiti, che tutto fosse concesso, anco straripare dalla pagina, riboccare, tracimare.
Quale editore, dopo la compianta dipartita del singolare e magistrale Vanni Scheiwiller (il testo, alle ultime bozze, sarebbe uscito infatti per i tipi del Pesce d’Oro), avrebbe mai concesso libertà di movimento? quale editore avrebbe inteso e stimato un testo così tanto astruso, inesplicabile, complesso?
Sanguigno vin raspante, ecco sortire l’editore Fabio D’Ambrosio: non solo con franchezza e agilità di spirito si lascerà inebriare dal testo respirando persino i fetori emanati dalla sua sporca scrittura, ma collaborerà proficuamente alla elaborazione grafico-pittorica, entrando in perfetta sintonia e simbiosi con l’artista e le sue ardue e complesse opere, rivisitate metamorficamente per l’illustrazione del testo.
Ed eccoci insieme infrangere, violare ogni norma canonica. Si trasmutano citazioni, si travasano immagini in altre immagini, si modifica, si emenda, si sforma: si mira a costruire una macchinosa costellazione di linguaggi con la strutturazione e destrutturazione dei linguaggi stessi.
Nasce così un editore del tutto anomalo: con perspicacia vivrà, con gli autori, l’urgenza febbrile di urlare a pieni polmoni: L’imprudenza ci salvi dalla sozzura del prudente!
Ma… si sappia che… a monte di questo percorso… c’è sempre stato in noi il rifiuto totale della miopia. Una disciplina che abbia i propri occhi spiaccicati su se stessa, che abbia a che fare limitatamente solo col proprio quoziente di intelligenza, che rovisti (alla ricerca di nuove energie) solo nel proprio apparato gastrico, scambiando i propri languidi borborigmi, le proprie puzzose flatulenze, le proprie inacidite indigestioni per segni di autentico rinnovamento della propria crosta villosa dello stomaco, la sentiamo intollerabilmente penosa, irrevocabilmente fuori del mondo (perché avulsa dalla inestricabile babele di infiniti linguaggi che il reale impone), convenzionalmente scolastica, tradizionalmente accademica, apatica, abulica.
inquisitore
Sì, d’accordo! d’accordo! molto toccante. Ma che mi dite del linguaggio che il testo in questione ci sciorina? che mi dite di questi schiamazzi stropicciati da patriarchae haereticorum? che mi dite di questa loquentia (vituperamento di ventre sopraffatto da parole mal connesse, urlate a sprocchi d’albero fracido) che s’invipera a sgorbie sciupacarte, a grottesche caricature, a invettive che sdrusciscono a imo e a sommo? che maniera è questa di scrivere, di insozzare la scrittura con parole crude e violenti, con un coacervo di versi che si rincorrono a ritmo così tanto vertiginoso da non aver neppure il tempo di carpirne il senso? che sconcezza è mai questa scrittura? che fine ha fatto la nostra grande tradizione lirica?
autori
Ehi! ehi! calmati un po’… non guaire… non far corona, con quel che ignori, alle nuvole smunte! metti da parte questi abbaiamenti bucherati dalla spocchia di chi si veste di gagliofferie… e ascolta, deponendo la superbia, ciò che abbiam da dirti.
Rifletti e chiediti: come andar contro, con le parole, alla prosopopea di un mondo corrotto? Certamente non con paroline spenzoloni dalle rame di un melo fiorito, né con l’attaccare due sputi tra di loro attingendo saliva da susurroni lecconi! No! occorre fegato e non bambagia… per rimboccarsi le maniche e andare alla cerca di parole spinose, carnali, provenienti perlopiù dal sudore di chi ha subíto l’esistenza come una condanna e una maledizione.
In questo testo tu non troverai paroline attinte dalle regole della docilità, ma parolacce salvatiche, gerghi ruvidi, bestemmie sputate da un uomo sul punto d’sser arso vivo, idiomi crudi… non raddolicati da nessun decoro, neologismi trasudati dalla infermità d’una gioventù prosperevolmente ingannata da chi la vorrebbe carne da ingrasso, e dialettismi e modi di dire proferiti dal basso volgo, dai reietti e dagli emarginati, che hanno assaporato nella propria esistenza solo la micidiale cancrena delle avversitade della vita.
Sì, è vero, qui non vi appaiono tutti quei lindi materiali poetici già abbondantemente sfruttati dalla nostra tradizione lirica. Non è l’idillica rosetta tutta pocce e zuccherosità, che qui -per sollazzarvi- si esprime con ragionevolezza e contegno. No, qui ogni luogo comune succiato da bei e innocui ragionamenti pastorali… non vi canta le sue insulse chiacchiere, né vi esala peli e peluzzi a glucosio squisito.
Abbiamo piuttosto voluto… che fosse la rabbia dei massacrati a prender voce: massacrati dalla zelante mannaia capitalistica di gagliardi macellai. E ciò ci ha portato a delirare come chi è prossimo a essere ucciso. Di colpo ci siam sentiti nei panni di costui. Siam stati così… colti dalla frenesia di riviver tutto della nostra vita, di attraversar culture e continenti, di spingerci oltre gli spazi consueti concessoci dalla cultura dominante, di dir tutto fuor dei denti.
Sì, immaginatevi un uomo condannato al rogo, che vive i suoi ultimi atti della vita. Immaginatevi che parli, sapendo che quelle saranno le sue ultime parole. Eccolo, adunque, traboccare da un fiume in piena di parole. Le frasi si susseguono a ritmo incessante, fluiscono e rifluiscono spezzate, non dànno respiro, a sentirle soffocano e torturano gli orecchi. È preso dall’irrefrenabile desiderio di dir tutto in una sola volta. E parla… parla senza sapere fin dove le sue parole arriveranno, né se cesseranno. Dice tutto, sopraffatto dalla febbre di un delirio lucido. Chi vi parla, insomma, in questo stato da delirium tremens, è un uomo chiamato a far il portavoce di tutti coloro che hanno nella propria esistenza sofferto vilmente ogni forma di… ingiustizia.
inquisitore
OK! per consolarvi ammettiamo pure che io condivida quest’ultima vostra dichiarazione e che, per quanto il linguaggio si presenti bituminoso, accetti di condividerne tutte le ragioni che sottintendono provvedutamente la sua eretica espressività. Ma che mi dite della sua destinazione? chi è il destinatario? per quale lettore questo libro è stato concepito? a chi si rivolge? per chi è stato scritto? chi sarebbe il potenziale fruitore del suo accidentato e intricato percorso grafico?
autori
A questa insulsa domanda (insulsa perché ciò che hai in mano è un libro… non un budino, uno spumone, una meringa, un panettone)… ti rispondiamo col sottotitolo che Nietzsche ha dato al suo Così parlò Zarathustra: questo è… un libro per tutti e per nessuno.
È per tutti coloro che non sopportano le cose precotte, già fatte, viste e riviste. È per coloro che non reggono alla vista di immagini che sonnacchiano tra l’universal gàudio di segni imbambolati e assonniti. È per coloro che non tollerano un linguaggio che dormicchia su ogni riga: rantolosa mollica biascicata da bocche sdentate. È per coloro che, anche nel rannuvolamento dei criminosi gesti di una società svenduta alla rilucentezza capitalizzata, non si dan per vinti… e intendono perciò rivedere tutto sotto la luce del sole. È per coloro che si ribellano alla lisciata insipida dell’inno bucolico, all’impomiciato lirismo amoroso ed elegiaco, alla sdolcinata e sbiadita versificazione pindarica, petrarchesca, saffica, neoromantica, orfica, postermetica… eccetera… eccetera…
Non è per tutti quelli che amano leggere, stravaccati in poltrona, melense storielle sentimentali romantizzate, sciapi raccontini d’appendice, patetiche e languide liriche da salotto, versi inzuppati di languor di stomaco, romanticherie e smancerie.
E ora… dopo aver riscosso anche codesta risposta… ti par di aver compreso appieno il senso di tutto il lavoro?
E ti sia chiaro che codesto Bruno redivivo… non ha nulla a che vedere e da condividere con coloro che lo vorrebbero rinchiuso nei ragnuoli della massoneria, della magia, della gran Loggia, dei liberi muratori.
Egli non è (da noi) stato rappareggiato a nessun pensiero che provenga da Società Segrete.
Insomma, Giordano Bruno è stato per noi il presupposto con il quale avviare strategie etiche, visive, linguistiche e concettuali, onde ottenere una materia incendiaria e dirompente che si ponesse, tra i linguaggi espressivi d’oggi, come un cacciabombardiere pronto a dirompere contro tutto ciò ch’è incatenato politicamente all’immondizia vorace di quel popolaccio inerte di lettori e fruitori d’arte (soddisfatto di tutto… anco della sferza), che sortisce dall’iniquo pensatoio degli inganni e dei crimini.
Sì, con Giordano Bruno… abbiamo urlato: A quando l’aspra vendetta del cittadino truffato?
inquisitore
A proposito di senso… che senso ha avuto fare questo libro? perché un libro cosiffatto? perché questo libro?
autori
Perché questo libro? che senso ha avuto modellare questo libro con parole sputate come da un oratore che si rivolti ne’ suoi impiastri diabolici, soverchiando il linguaggio della pistola?
Qual è il senso che vi sottende
nell’aver attraversato una miriade di generi letterari e artistici, nell’aver ferito le fossilizzate icone degli Arcadi… con immagini intessute di complicate metamorfosi,
nell’aver sfregiato l’accademia della Crusca… con parole vomitate in faccia alla fumosità stagnante della mutolaggine lirica,
nell’aver graffiato la pagina… con forme intrippate di orditi segnici che si incatricchiano a nodi, che si avviluppano a cifre e stele arcaiche, a orme rinvenute in altri mondi?
Che senso ha avuto scovare forme e immagini da remote civiltà, andare in traccia, con l’immaginazione, dei linguaggi parlati nell’Oceanus Procellarum dei bui stellati, frugnolare nelle nebulose, navigare tra ammassi globulari e buchi neri, tentando di comporre l’espansione dell’universo col tessere e stessere diagrammi, intersecando divergenze segniche e linguistiche con acclività e incidenze di anacoluti, arcaismi, dialettismi, neologismi, barbarismi… componendo e scomponendo lettere e numeri in tondo e a cerchio, sfigurando effigi con groviglioli allegorici, scampoli di citazioni e astrusi alfabeti, quasi reperti archeologici provenienti da un mondo che ha ancora da venire?
Già! cosa risponderemmo a chi ci chiedesse: Che senso ha vivere?