Saggio sopra l'espressionismo

Antonin Artaud: il Teatro della Crudeltà

Dalla poesia transmentale al Teatro della Crudeltà di Antonin Artaud

Dall’Espressionismo della poesia concreta e sonora/transmentale, si giunge inevitabilmente all’Espressionismo di Antonin Artaud, e precisamente al suo Teatro della Crudeltà.
Per comprendere quanto sia espressionista il linguaggio teatrale della crudeltà, messo a fuoco da Artaud, occorre prima entrare in quello iniziatico.

Linguaggio iniziatico, ritualizzato: parole che aggiungono un senso altro

Il linguaggio iniziatico, ritualizzato, si esprime per mezzo di grumi di parole: grumi di parole che aggiungono al discorso sia la dimensione di una totale perdita di senso convenzionale, sia senso altro al discorso. E ciò perché il discorso utilitario è del tutto incapace di spingere il linguaggio a trascendere se stesso, a far sì che ridistribuisca a se stesso parole capaci di risuonare come grumi di sonorità mai udite prima, né suoni sostanziati da una materia sonora proveniente dal profondo dell’incoscio, né l’esaltazione verbale della psiche o la corporalità tattile-magmatica proveniente dalle sonorità delle viscere.

Come l’arte degli oracoli

Si pensi all’arte magica degli oracoli indi, «sacerdoti, detti nella loro lingua Piachas»:

Fra Bartolomé De Las Casas, La leggenda nera. Storia proibita degli spagnoli del Nuovo Mondo. Feltrinelli, Milano 1959, pp.197-198 e 201-202

… Scelgono tra i ragazzi, fra i dieci e i dodici anni, quelli che per certe congetture che fanno sembrano loro essere per natura inclini e disposti ad essere istruiti nell’arte magica…
(…) Non mangiano cosa che contenga sangue o lo produca; li allevano soltanto con erbe e bevendo acqua; si astengono non solo da ogni opera, ma da ogni pensiero carnale; e in quei due anni non li vede nessuno, né padre né madre né parente né amico. Durante il giorno non vedono i loro maestri, ma questi vanno da loro di notte e allora dettano e insegnano loro certi canti e parole con cui svegliano, incitano, provocano o chiamano i demoni, insieme con le cerimonie e l’arte per curare gli ammalati…
(…) Quando per ordine del loro re o signore, o per domanda di qualche amico, desiderano chiamare i demoni, che vengano per interrogarli su un dubbio, o per altro scopo, allo stesso modo in cui dicemmo sopra che nell’oracolo di Apollo il demonio si rivestiva della vergine Pitia, ugualmente si riveste del Piacha. La cosa avviene a questo modo.

Il Piachas comincia a chiamare con parole, alcune intelligibili, altre confuse

Il Piacha entra di notte in un angolo della casa assai oscuro, spente tutte le luci, e prende con sé alcuni giovani coraggiosi, e verso l’ora delle dieci siede su un sedile basso, mentre i giovani stanno sempre in piedi; comincia a chiamare con parole, alcune intelligibile, altre confuse; toccano certi oggetti che suonano come campanelle, e con un suono triste, quasi come piangendo e dicendo allo spirito maligno queste parole “prororuré, prororuré” (con l’accento sull’ultima), ripetendole molte volte; e sono parole come di preghiera. Se il demonio tarda a venire, si affligge e si angustia più aspramente; e se non viene ancora, il Piacha mette fuori le parole o versi che imparò dai maestri, quando stava in quella scuola, e irato minaccia il demonio con viso torvo, ordinandogli e forzandolo a venire.
Quando sentono che quell’onorato ospite viene, toccano tutti gli strumenti che possiedono e fanno quanto più baccano possono e il demonio assale il Piacha, come se un uomo ferocissimo assalisse un bambino; lo getta a terra, dove soffre tormenti. Allora accorre il più valoroso di quei giovani che furono ammessi ad essere presenti, ed egli, o quegli per cui ordine o preghiera l’infelice mago Piacha si mise in tanta pena, espone i dubbi e le domande su ciò che desidera sapere.

Lo spirito immondo risponde ad ogni cosa per bocca di colui che patisce tanti dolori

Lo spirito immondo risponde ad ogni cosa per bocca di colui che patisce tanti dolori.

Qual è infatti la massima forma di energia della parola, estrapolata dal linguaggio del corpo, se non quella di avvertire in sé l’inutilità di restare chiusa nel proprio significato (senza significare altro da sé)… se non quelle
di cercare un modo di superarsi? Rimanere immobile in un corpo estatico è ciò che fa la parola quando normalmente ci rimanda al suo solo significato.
Ma quando la parola erompe in altri significati (tramite il coraggio di divenire altro da sé); quando riceve movimento da un corpo in azione (che non è più quello statico ereditato dalla tradizione); quando la parola cioè esprime se stessa come l’azione di una pulsionalità gestuale che non si arrende al solo significato che le è stato attribuito, ma cerca di darsene fiduciosamente altri divenendo significante (perché il linguaggio possa arricchirsi di nuove dimensioni espressive), allora eccola giungere ad esprimere «quanto rimane del gesto represso in ogni parola»:

Jacques Derrida, Il teatro della crudeltà e la chiusura della rappresentazione in La scrittura e la differenza. Einaudi, Torino 1990, p.309

… si mette a nudo la carne della parola, la sua sonorità, la sua intonazione e intensività, il grido che l’articolazione della lingua e della logica non ha ancora del tutto congelato.

Liberare il teatro dal tirannico Dio-Testo

Ed è quanto cercò di fare Antonin Artaud con il suo Teatro della Crudeltà.
Il desiderio di Artaud di portare il teatro a esprimersi liberamente, di liberarlo dalla tirannia del Dio-Testo, gli ha permesso di elaborare una

Jacques Derrida, Il teatro della crudeltà… p.303

pratica della crudeltà che, nel suo atto e nella sua struttura, abita o meglio produce uno spazio non teologico. La scena è teologica fin tanto che è dominata dalla parola, da una volontà di parola, dall’intenzione di un logos primo che, pur non facendo parte di un luogo teatrale, lo guida a distanza. La scena è teologica finché la sua struttura comporta, secondo l’intera tradizione, i seguenti elementi: un autore-creatore che, assente e da lontano, impugnando un testo, sorveglia, riunisce, e domina il tempo e il senso della rappresentazione lasciando che quest’ultima lo rappresenti in ciò che viene chiamato il contenuto dei suoi pensieri, delle sue intenzioni, delle sue idee. Rappresentare per mezzo dei rappresentanti, registi o attori, interpreti asserviti che rappresentano personaggi che, prima di tutto con quello che dicono, rappresentano più o meno direttamente il pensiero del “creatore”.

Il Teatro della Crudeltà scaccia Dio dalla scena

Dunque, per dirla ancora con Derrida: «il teatro della crudeltà scaccia Dio dalla scena».

Il teatro non simbolizza la vita ma trascina nella vita

Il teatro con Artaud tenta di ritornare alle origini, a quando cioè il teatro non simbolizzava la vita né si muoveva profondamente radicato nel simulacro di essa. Con il Teatro della Crudeltà si viene emotivamente trascinati nella vita, perché in esso confluiscono tutti i linguaggi che la vita produce: non solo la parola che scruta criticamente il mondo intorno a sé (parola profondamente consapevole di ciò che le accade intorno, grido di una carne straziata dagli eventi della quotidianità, presente in ogni gesto della vita e in ogni cambiamento storico del mondo sociale),

Parola liberata dal corpo e riportata alle origini

ma anche la parola che vuole rinascere partendo da un nuovo principio, parola liberata dal corpo in cui è stata sepolta, parola che rinasce da zero, da un nuovo vagito, consapevolmente riportata alle origini.

Parola impropriamente onomatopeica

Parola che può fungere da gemito preadamitico, tutta suoni e gesti emanati da un corpo primitivo, dai suoni accessibili non più solo all’udito ma a tutti e cinque i sensi. Parola che, nel chiamarla «onomatopeia», suona, come afferma con ragione Derrida, impropriamente:

Jacques Derrida, Il teatro della crudeltà… p.309

È noto quanto valore Artaud attribuisce a quello che si chiama – in questo caso molto impropriamente -l’onomatopeia.

Glossopoiesi: quando l’articolazione non è grido ma non ancora discorso, la vigilia dell’origine delle lingue

La glossopoiesi, che non è un linguaggio imitativo né un’invenzione di nomi, ci conduce al limite del momento in cui la parola non è ancora nata, quando l’articolazione non è già più il grido, ma non è ancora il discorso, quando la ripetizione è quasi impossibile e, con quest’ultima, è quasi impossibile la lingua in generale: la separazione tra il concetto e il suono, tra il significato e il significante, tra pneumatico e grammatico, tra la libertà della traduzione e quella della tradizione, il movimento dell’interpretazione, la differenza tra l’anima e il corpo, tra il signore e il servo, Dio e l’uomo, l’autore e l’attore. È la vigilia dell’origine delle lingue…

Cosicché la parola, purgata dal microcosmo astratto che le è stata imposto, può tramutarsi in un corpo che dica: Non significo più ciò che avete voluto farmi significare. Ora vado a significare tutto ciò che è da ri-significare.

Liberata dal senso la parola fluisce nella vita

Liberata dalla prigione del senso in cui ero stata rinchiusa, posso finalmente far fluire in me la vita: la musicalità sonora proveniente da un colore, l’espressione naturale di un corpo che percepisce sensazioni, movimenti e gesti decifrabili in sensazioni olfattive, visive e auditive. Posso muovermi come uccisa nell’ucciso, o mostrarvi la materia di sensazioni corporee e di visioni allucinanti, liberati dalle scorie della logica.

La parola sotto forma di sogni e di incubi

Posso assumere la forma dei vostri sogni e dei vostri incubi.
La parola di Antonin Artaud scende contemporaneamente nella psiche e nelle viscere, sprofonda ora nelle basse cose ora nel Sublime, facendosi simigliantissima a un’esperienza in inferno. Dal sonno di un viaggio astrale fino allo stambugio vilissimo del corpo, dall’esaltazione del cielo all’esaltazione del sovreccellente abisso, «le parole», nel Teatro della Crudeltà,

Antonin Artaud, Il Teatro della Crudeltà (Secondo manifesto), da Il Teatro e il suo Doppio. Einaudi, Torino 1978, p.238

oltre che nel senso logico, saranno usate anche in un senso incantatorio, veramente magico -non soltanto, cioè, per il loro significato, ma anche per la forma e per le loro emanazioni sensibili.

Usare le parole anche per le «emanazioni sensibili» vuol dire uscire dalla propria condizione fisica per entrare in quella delle parole. Vuol dire avvertire materialmente la parola, sentirla fisicamente puzzare di vita, vederla
sputar dolori e gioie, piaghe e veleni, forma dabbene e forma piena di brutture.

Tutto in funzione della sonorità della parola

Insomma, nel Teatro della Crudeltà si fa di tutto perché la parola proceda in andamenti segnici, segua la forma della sua sonorità, cada nell’impurità di un gomitolo di immagini che diano da vedere odori, da udire colori, da toccare suoni, da gustare silenzi:

Antonin Artaud, Il Teatro della Crudeltà (Secondo manifesto)… p.238

L’accavallarsi delle immagini e dei movimenti condurrà, mediante collusioni d’oggetti, silenzi, grida e ritmi, alla creazione di un autentico linguaggio fisico fondato sui segni e non più sulle parole.

Tra movimento performativo e azione cromatica

La parola sonora è spazio comunicazionale, in cui tutti gli elementi sinestetici che essa ci proietta (sonorità, immagine concreta, gesto performativo) si propongono secondo un sistema corale che mira all’interattività fra immagine e suono, fra parola e gesto, fra movimento performativo e azione cromatica.
Anche il suono di una parola ha una sua matericità che può divenire, a seconda dei casi, ora scrittura musicale, ora scherzo gestuale di immagini allegoriche, ora geroglifico che metta in azione una performance nella quale sonorità e visività si compenetrino dando luogo a un’azione teatralizzata.

Antonin Artaud, Il Teatro della Crudeltà (Secondo manifesto)… p.238

Non bisogna dimenticare che in questa quantità di movimenti e di immagini colti in un dato momento includiamo tanto il silenzio e il ritmo, quanto una certa vibrazione e una certa agitazione materiale, prodotta da oggetti realmente utilizzati e da gesti realmente compiuti. Si può dire insomma che alla creazione di questo linguaggio teatrale puro presiederà lo spirito degli antichi geroglifici.

Con Antonin Artaud la parola non ha nessun problema a farsi toccare e a farsi fisicamente udire

Antonin Artaud, Il Teatro della Crudeltà (Secondo manifesto)… p.239

in un’atmosfera di suggestione ipnotica, dove lo spirito viene toccato mediante una pressione diretta sui sensi.

Viaggio nella realtà al limite del basso e del Sublime

Non sappiamo se Artaud fosse a conoscenza del rapporto farmacologico di Alexandre Rouhier (Peyote. La plante qui fait les yeux émerveillés. Paris, Gaston
Doin et Cie., 1927), di certo è che il suo Teatro della Crudeltà sembra sia nato da un viaggio nella realtà al limite del basso e del sublime. Al Paese dei Tarahumara, scritto da Artaud nel 1936, ne attesta fortuitamente la coincidenza:

Antonin Artaud, Al paese dei Tarahumara e altri scritti. Adelphi, Milano 1981, pp.146-152

Gli dissi che era il mio più vivo desiderio e che senza l’aiuto del peyotl non credevo si potesse raggiungere tutto quel che sfugge e da cui il tempo e le cose si allontanano sempre più.
Me ne versò nella mano sinistra una certa dose, del volume d’una mandorla verde, “sufficiente, mi disse, per rivedere Dio due o tre volte, perché Dio non si può mai conoscere. Per entrare alla sua presenza occorre porsi almeno tre volte sotto l’influenza di Ciguri, ma ogni presa non deve superare il volume d’un pisello”.

L’esperienza del Peyotl

Restai dunque ancora un giorno o due presso i Tarahumara con lo scopo di conoscere bene il Peyotl e occorrerebbe un grosso libro per riferire tutto quel che ho visto e provato sotto la sua influenza e tutto quel che il prete, i suoi assistenti e le loro famiglie mi dissero ancora sull’argomento.

L’esperienza dopo una grande angoscia: non si capisce più il mondo che si è appena lasciato

Ma una visione avuta e che mi colpì fu dichiarata autentica dal prete e dalla sua famiglia, e concerneva, sembra, quel che dev’essere Ciguri e che è Dio. Ma non ci si giunge senza esser passati attraverso un laceramento e un’angoscia, dopo di che ci si sente come rivoltati e riversati dall’altra parte delle cose, e non si capisce più il mondo che si è appena lasciato.

Non si sente più il corpo che ci assicura nei limiti

Dico: riversati dall’altra parte delle cose, e come se una forza terribile vi consentisse di essere restituito a quel che esiste dall’altra parte. Non si sente più il corpo che si è appena lasciato e che vi assicurava nei suoi limiti, in compenso ci si sente molto più felici di appartenere all’illimitato che non a se stessi perché si capisce che quel che era se stessi è provenuto dalla testa di quell’illimitato, l’Infinito, e che lo si vedrà. Ci si sente come in un’onda gassosa e che sprigiona ovunque un incessante crepitio. Cose come uscite fuori da quel che era la vostra milza, il vostro fegato, il vostro cuore o i vostri polmoni si sprigionano instancabilmente e scoppiano in quell’atmosfera che esita tra il gas e l’acqua, ma sembra chiamare a sé le cose e ordinar loro di riunirsi.

Dalla milza esce un antichissimo alfabetomasticato da una enorme bocca

Quel che usciva fuori dalla mia milza o dal mio fegato aveva la forma delle lettere d’un antichissimo e misterioso alfabeto masticato da un’enorme bocca, ma spaventosamente repressa, orgogliosa, illeggibile, gelosa della sua invisibilità: e quei segni erano spazzati via in tutti i sensi nello spazio, mentre mi parve di salire, ma non del tutto solo. Aiutato da una forza insolita. Ma molto più libero di quando sulla terra ero solo.
A un certo punto qualcosa come un vento si alzò e gli spazi indietreggiarono. Dalla parte dove si trovava la mia milza si scavò un vuoto immenso che si dipinse di grigio e rosa come la riva del mare.

La J radice incagliata
tra i rami di una E triste

E in fondo a quel vuoto apparve la forma di una radice incagliata, una
sorta di J che aveva al vertice tre rami sormontati d’una E triste e lucente come un occhio.
Fiamme uscirono fuori dall’orecchio sinistro di J e, passando dietro, sembrarono spingere tutte le cose a destra, dalla parte dove si trovava il mio fegato ma molto oltre a questo. Non vidi altro e tutto svanì o fui io a svenire ritornando alla realtà consueta. In ogni caso avevo visto, sembra, proprio lo Spirito di Ciguri.

Una rappresentazione trascendentale delle realtà ultime

E credo che tutto quello dovesse corrispondere obiettivamente a una rappresentazione trascendentale e dipinta delle realtà ultime e più elevate; e i Mistici devono passare per simili stati e immagini prima di giungere, seguendo
la formula, ai supremi avvampamenti e laceramenti, dopo i quali cadono sotto il bacio di Dio proprio come sgualdrine nelle braccia dei loro ruffiani.

Il Peyotl riconduce l’io alle sue vere sorgenti

E questo mi ha ispirato un certo numero di riflessioni sull’azione psichica del Peyotl (…)
Il Peyotl riconduce l’io alle sue vere sorgenti. Uscito fuori da un simile stato di visione non si può più confondere come prima la menzogna con la verità. Si è visto da dove si viene e chi si è, e non si dubita più di ciò che si è. Non vi è più nessuna emozione né influenza esterna che possa distogliervi.

Il Peyotl è l’uomo non nato ma innato

E tutta la fila dei lubrici fantasmi proiettati dall’inconscio non possono più sbeffare il vero
soffio dell’UOMO, per la buona ragione che il Peyotl è L’UOMO non nato, ma INNATO, e con lui l’intera coscienza atavica e personale è in allarme e puntellata. Sa quel che le è utile e quel che non vale niente: dunque i pensieri e i sentimenti che può accogliere senza pericolo e con profitto e quelli che le sono nefasti per l’esercizio della sua libertà. Soprattutto sa fino a dove arriva il suo essere e fino a dove non è ancora arrivato O NON HA IL DIRITTO D’ARRIVARE SENZA SPROFONDARE NELL’IRREALTÀ, L’ILLUSORIO, IL NON FATTO, IL NON PREPARATO.
Prendere i propri sogni per delle realtà, ecco ciò in cui il Peyotl non vi lascerà mai sprofondare dove confondere percezioni improntate ai bassifondi sfuggenti, incolti, non ancora maturi, non ancora sorti dell’inconscio allucinatorio con le immagini, le emozioni del vero.
Poiché vi è nella coscienza il Meraviglioso con cui oltrepassare le cose.

Il Fantastico ubbidisce a un ordine che si elabora nel mistero e su di un piano dove la coscienza normale non giunge

E il Peyotl ci dice dove e in seguito a quali concrezioni insolite di un soffio atavicamente represso e otturato il Fantastico può formarsi e rinnovare nella coscienza le sue fosforescenze, i suoi pulviscoli. E questo Fantastico è di nobile qualità, il suo disordine è solo apparente, ubbidisce in realtà a un ordine che si elabora nel mistero e su di un piano dove la coscienza normale non giunge, ma dove Ciguri ci permette di giungere, e che è il mistero stesso di tutta la poesia. Ma nell’essere umano vi è un altro piano, oscuro questo, informe, dove la coscienza non è entrata, ma che lo circonda come d’un prolungamento non chiarito o d’una minaccia a seconda dei casi. E che pure sprigiona sensazioni avventurose, percezioni. Sono i fantasmi svergognati che affliggono la coscienza malata. La quale vi si abbandona e vi fonde interamente se non trova nulla per trattenerla.

Il Peyotl è la sola barriera che il Male trova da questa terribile parte

E il Peyotl è la sola barriera che il Male trova da questa terribile parte (…) Ora, vi è una cosa che in Messico i preti del Peyotl mi hanno aiutato a rilevare e che il poco Peyotl preso ha aperto nella mia coscienza.
Ed è che nel fegato umano si produce quell’alchimia segreta e quell’opera per la quale l’io d’ogni individuo sceglie quel che gli conviene, l’adotta o lo ributta tra le sensazioni, le emozioni, i desideri che l’inconscio gli forma e che compongono i suoi appetiti, le sue concezioni, le sue credenze vere, le sue idee. Ed è lì che l’Io diventa conscio e manifesta il suo potere
d’apprezzamento, di estrema discriminazione organica. Perché è lì che Ciguri opera per separare quel che esiste da quel che non esiste.

Il fegato è il filtro
organico dell’Inconscio

Il fegato dunque sembra essere il filtro organico dell’Inconscio.
Ho trovato idee metafisiche simili nelle opere degli antichi Cinesi. E secondo loro il fegato è il filtro dell’Inconscio, ma la milza è il garante fisico dell’infinito. D’altronde questo è un altro problema.
Ma perché il fegato possa compiere la sua funzione occorre almeno che il corpo sia ben nutrito.(…) Il Peyotl, per quel che ho visto, fissa la coscienza e le impedisce di smarrirsi, d’abbandonarsi alle impressioni false. I Preti messicani mi hanno mostrato, sul fegato, il punto esatto dove Ciguri, dove il Peyotl produce quella concrezione sintetica che mantiene durevolmente nella coscienza il senso e il desiderio del vero e le dà la forza per abbandonarvisi ributtando automaticamente il resto.
“È come lo scheletro del davanti che ritorna, mi hanno detto i Tarahumara, dal RITO
OSCURO, LA NOTTE CHE CAMMINA SULLA NOTTE”.

Ne Il Teatro della Crudeltà le parole nascono anche da viaggi allucinogeni, rovesciamento di una realtà percettiva

Cosicché, ne Il Teatro della Crudeltà le parole eccedono la loro sonorità prendendo nutrimento anche da esperienze fatte in viaggi allucinogeni. La parola, che ci parla da una realtà plurisensoriale, è una parola che ci dà da vedere ciò che altrimenti non saremmo in grado di vedere.
Interessante è l’esplorazione dell’inconscio attraverso la percezione allucinogena vissuta come rovesciamento di una realtà percettiva, che sottopone la visione a cambiamenti sensoriali non più dalla percezione unilaterale ma plurisensoriale e intersensoriale, nonché iperattiva e ipersensitiva.
Testimonianza ne è il seguente frammento:

Maria Izquierdo, Il Messico e lo spirito primitivo in Antonin Artaud, Messaggi rivoluzionari. Montenapoleone, Vibo  Valentia 1994, pp.184-185
La pianta-principio che fa viaggiare nella realtà e la trasmuta

C’è, in Messico, una pianta-principio che fa viaggiare nella realtà. Ad opera di questa pianta, un colore steso all’infinito si squarcia fino alla musica da cui è venuto fuori: e questa musica trascina con sé bestie che urlano con la sonorità di un metallo martellato.
Si comprende l’adorazione di certe tribù di Indios del Messico per il Peyotl, che non rende gli occhi meravigliati, come ci insegna il vocabolario europeo, ma che possiede la strana virtù alchemica di trasmutare la realtà, di farci precipitare a picco fino al punto in cui tutto si abbandona, per essere sicuri di ricominciare. Per mezzo suo si salta al di sopra del tempo, che richiede millenni per trasformare un colore in oggetto, per ridurre le forme alla loro musica, ricondurre lo spirito alle sue fonti e unire ciò che si credeva superato.

L’esperienza allucinogena mostra la realtà in più dimensioni

Quella allucinogena è un’esperienza percettiva e sensoriale che fa partecipare direttamente alla ri-creazione della realtà. Tutto ciò che non è percepibile coi sensi se non tramite una spiccata immaginazione… diviene concretamente percepibile. La dimensione appartenente tradizionalmente alla nostra realtà si mostra in più dimensioni. Dalla realtà, a cui siamo legati, emergono realtà che si modificano in rapporto a una percezione sensoriale aperta su più livelli. Le immagini visibilizzate straripano, rompono la consuetudine percettiva dei sensi, nutrono gli occhi di nuovi sguardi, costringono l’udito a varcare la soglia delle proprie percezioni auditive perché fiuti i colori, veda le forme, si lasci andare ai loro odori. Tutte le percezioni sensoriali obbediscono all’istinto di trasformare la realtà in un luogo energetico capace
di contenere in sé le dimensioni respiratorie di altre realtà.
Con il Teatro della Crudeltà si tenta di amplificare la parola. Si tenta cioè di restituire al teatro «i suoi specifici poteri di azione» col rendergli «il suo
linguaggio», cioè un linguaggio che

Antonin Artaud, Il Teatro della Crudeltà… pp. 204-205

… non può essere definito se non attraverso le sue capacità di espressione dinamica nello spazio, contrapposte alle capacità espressive della parola dialogata. Ciò che il teatro può ancora strappare alla parola sono le sue capacità di espansione oltre le singole parole, di sviluppo nello spazio, di azione dissociatrice e vibratoria sulla sensibilità. A questo punto entrano in gioco le intonazioni, il particolare modo di pronunciare una parola. Ed a questo punto, oltre il linguaggio acustico dei suoni, entra in gioco il linguaggio visivo degli oggetti, dei movimenti, degli atteggiamenti, dei gesti, purché però se ne prolunghino il significato,
la fisionomia e le combinazioni sino a farne dei segni, ed a fare di questi segni una sorta d’alfabeto.

Il linguaggio acustico dei suoni, il linguaggio visivo degli oggetti, strappare il teatro dalle pastoie psicologiche e sentimentali

Avendo preso coscienza di questo linguaggio nello spazio, linguaggio di suoni, di grida, di luci, di onomatopee, il teatro è tenuto a organizzarlo, creando coi personaggi e con gli oggetti dei veri e propri geroglifici, e servendosi del loro simbolismo e delle loro corrispondenze in rapporto a tutti gli organi e su tutti i piani.
Si tratta dunque per il teatro di creare una metafisica della parola, del gesto e dell’espressione, al fine di strapparlo alle pastoie psicologiche e sentimentali.

Il Verbo divino è insufficiente a esprimere la demoniaca pluriformità

Che cosa deduciamo dal Teatro della Crudeltà di Antonin Artaud? Il Verbo, come ci è stato dato da Dio, compresso nell’unica forma di se stesso, è insufficiente a esprimere la demoniaca pluriformità del mondo dell’uomo, non può dare da solo espressività a un mondo violato dalla presenza dell’uomo.

La parola deve divenire corporea

La parola deve necessariamente divenire corporea, materica, gestuale, oggettuale se intende concentrare su di sé un istante dell’esistenza. Un linguaggio che si lasci trapassare dall’esistenza non può che essere al mondo con tutto ciò che gli deriva dallo stratificarsi di vissuti transitorî, toccati anche dalla crudeltà che il mondo stesso genera.

Il teatro deve nascere dalla coscienza della sofferenza

Per Artaud il teatro deve nascere anche dalla temporalità del dolore che la vita umana elargisce crudelmente persino contro se stessa.

La crudeltà sulla
scena non va dissimulata

Il teatro quando soffre deve sapere di soffrire; deve turbare i sensi col risvegliare la percezione del dolore; deve mettere a disagio lo spettatore facendogli toccare con tutti i sensi il suo stato di sofferta precarietà, la sua condizione di residuo e di sofferenza, imprimendogli sulla pelle dei sensi l’aspetto crudele del gioco dell’esistenza.
Questo intento è possibile concretizzarlo solo se la crudeltà sulla scena non venga dissimulata. La crudeltà, quando riesce a portare sulla scena tutto il lato doloroso dell’esistenza umana, non può che essere fruttuosa.
Afferma Proust:

Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto. Il tempo ritrovato. Mondadori, Milano 1973, p.218

Se non fossimo stati felici, non foss’altro grazie alla speranza, le sventure sarebbero prive di crudeltà, e per conseguenza infruttuose.

Qual è dunque un teatro di per sé fruttuoso se non quello che ci faccia provare sofferenza, ai fini di farci attingere e desiderare una condizione migliore del dolore che il mondo ci procura?

Il linguaggio teatrale reale quanto la peste

In questo senso il linguaggio teatrale non deve essere né gratuito (fine a se stesso) né moderato, né rassegnato alla passiva imitazione di ciò che è e di ciò che è stato, ma deve essere spietatamente reale quanto la peste:

Antonin Artaud, Il Teatro e la peste (Primo manifesto) in Il Teatro e il suo Doppio… pp.148-150

Come la peste, il teatro è dunque un formidabile appello a forze che riportano con l’esempio lo spirito alla fonte dei suoi conflitti. (…)

Il teatro essenziale è come la peste, è il momento del male

Il teatro essenziale è come la peste, non perché è contagioso, ma perché come la peste è la rivelazione, la trasposizione in primo piano, la spinta verso l’esterno di un fondo di crudeltà latente attraverso il quale si localizzano in un individuo o in un popolo tutte le possibilità perverse dello spirito.
Come la peste, è il momento del male, il trionfo delle forze oscure, che una forza ancor più profonda alimenta sino all’estinzione.
In esso, come nella peste, c’è una sorta di strano sole, una luce di anormale intensità, dove sembra che il difficile e persino l’impossibile divengano d’un tratto il nostro elemento normale.

(…) Il teatro, come la peste, è modellato su questo massacro, su questa separazione essenziale.

Scioglie conflitti, sprigiona forze, libera possibilità, e se queste possibilità e queste forze sono nere, la colpa non è della peste o del teatro, ma della vita. Non ci pare che la vita quale è e quale ci è stata preparata offra molti motivi di esaltazione. Si direbbe che attraverso la peste scoppi un gigantesco ascesso collettivo, morale quanto sociale; non diversamente dalla peste, il teatro esiste per far scoppiare gli ascessi collettivi.

Il teatro, come la peste, è una crisi che si risolve con la morte o con la guarigione

 (…) Il teatro, come la peste, è una crisi che si risolve con la morte o con la guarigione.

L’equilibrio supremo non raggiungibile senza distruzione

E se la peste è una malattia superiore perché è crisi totale dopo la quale non rimane altro che la morte o una purificazione assoluta, anche il teatro è una malattia, perché è l’equilibrio supremo, non raggiungibile senza distruzione.

Il teatro mette a nudo la menzogna

Invita lo spirito a un delirio che esalta le sue energie; e, per concludere, si può notare che dal punto di vista umano l’azione del teatro, come quella della peste, è benefica, perché, spingendo gli uomini a vedersi quali sono, fa cadere la maschera, mette a nudo la menzogna, la rilassatezza, la bassezza e l’ipocrisia; scuote l’asfissiante inerzia della materia che deforma persino i dati più chiari dei sensi; e rivelando alle collettività la loro oscura potenza, la loro forza nascosta, le invita ad assumere di fronte al destino un atteggiamento eroico e superiore che altrimenti non avrebbero mai assunto.

Unico modello di riferimento è il vissuto con i danni del corpo

Teatro che non ha modelli a cui far riferimento se non a un vissuto (corpo a corpo) con un mondo incapsulato nei propri danni, consegnato al suo deperimento etico e sociale.

James Ensor, Autoritratto circondato da maschere, 1899, Anversa, collezione privata

Il Teatro della Crudeltà ci dice che il teatro deve valutare criticamente l’uomo e il suo mondo di simboli da tempo deteriorati e in agonia, attaccati alla quotidianità di un’esistenza corrotta, drammaticamente incapace di resistere al suo mefitico clima esistenziale.

Parole di una società in lotta contro se stessa

In un mondo dal linguaggio crudele, le parole devono muoversi come da un’azione che provenga da una società in lotta contro se stessa. Le sue parole non possono che dire:

Robert Musil, L’uomo senza qualità (vol.I). Einaudi, Torino 1997, p.166

L’uomo senza qualità, qualità senza uomo È sorto un mondo di qualità senza uomo, di esperienze senza colui che le vive, e si può quasi immaginare che nel caso limite l’uomo non potrà più vivere senza nessuna esperienza privata, e il peso amico della responsabilità personale finirà per dissolversi in un sistema di formule di possibili significati.

 

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