L’Espressionismo ha avuto il difetto (se proprio vogliamo in esso trovare un difetto) di aver lasciato venire a sé tutta la furfantería della grande impostura di una guerra che ruberà la sublimità persino ai morti.
Eccoci a un’arte che ti lascia il carnefice e i suoi reati politici; eccoci di fronte a un cielo che va rasente al vomito; eccoci in una palude piena di colore-catarro: pance e facce masticate dal digiuno; pastume gnudo di figure che sboccano dal muco viscerale dei misfatti; ecco l’armata di vergogne.
Del resto, come si sarebbe potuto evitare in arte quei grumi di feròcia, quegli squilli di ghirlande nefaste, provenienti da un mondo che sputò addosso al mondo burattini nefandi, e acqua bruta d’acquitrino?
Scrive Alfred Kubin nel suo Demone e visioni notturne, autobiografia di un animo sconvolto (come egli stesso ebbe a dire di sé):
«Nell’agosto 1914 avvenne l’orribile catastrofe».
Così, in mezzo a quell’aria avida di uccisi, non sentì altro bisogno che divenire il cronista visionario degli incubi e degli orrori:
Raccolsi le mie forze e negli anni 1915-1916 eseguii la mia Danza dei morti… Una vecchia e quasi diabolica smania di cose torbide, che mi spingeva a spiar segretamente in ogni parte, e che corrodeva i miei principi positivi, dava alle mie giornate una melanconica irrequietezza.
Kubin ci mette dinanzi all’abisso dell’uomo; all’esistenza giunta al basso; alla materia della desolazione (fatta di mostri che sono tutto l’oscuro e l’affannosa visione del quotidiano attratto dall’azione violenta dei morti viventi).