Saggio sopra l'espressionismo

mutevolezza

Il divenire dell’architettura gotica

L’architettura gotica è sempre nella realizzazione di un divenire. Tutte le sue forme ci riportano, di proposito, alla razionalizzazione di una metamorfosi che afferma la concreta realtà della decomposizione-ricomposizione,
dell’universalità, cioè di un organismo che cresce attraverso un processo continuo di ri-composizione.

La forma come manifestazione dell’imperfetto

La sua forma non si limita all’esperienza di una forma formata, ma anche difformata, costruttiva e incostruttiva, restia a definirsi, offrendoci una visione in potenza della vita in cui tutto coincide con la
manifestazione dell’imperfetto.

John Ruskin, La natura del Gotico… p.77

Se «in tutte le cose viventi esistono dissimmetrie e deficienze, che non sono solo segni di vitalità, ma anche sorgenti di bellezza» a maggior ragione l’architettura gotica si realizza in quel prorompere di forme e di linee, l’assommarsi delle quali si metamorfizza in forme sempre diverse da se stesse, creando proporzioni sproporzionate, riconducibili non solo all’infinito cosmico ma anche alla proporzionalità della sproporzione delle cose naturali:

una foglia non è mai perfetta in tutti i suoi lobi, un ramo non è mai simmetrico.

Mutamento e irregolarità

In natura, il mutamento è attivo in ogni sua parte. La forma, in natura, per continuare a crescere si oltrepassa. Non è il riflesso di una forma ferma a se stessa, ma un crescere che si disinvolge nel movimento di altri movimenti. È la forma di un movimento che non si lascia imprigionare in se stessa. E

John Ruskin, La natura
del Gotico… p.77

tutto ciò che implica mutamento, non può non ammettere l’irregolarità; rinnegare l’imperfezione vuol dire distruggere l’espressione, frenare ogni slancio, paralizzare la vitalità.

L’architettura gotica non è dunque separata dal mutevole, anzi, le sue plastiche espressioni di linearità in continui mutamenti interiorizzano forme che urtano contro altre forme. Niente in natura è immutabile, tutta la realtà si consolida con l’incompiuto, poiché è solo l’incompiutezza ad affermare il divenire del suo essere in vita.

La forma naturale indefinibile e illimitata

La forma che palpita di vita non si eterna, non si pone mai esternamente alla mutevolezza della vita, è l’ovvia negazione dell’affermazione del limite, ed è per sua natura indefinibile, illimitata.

La forma gotica discontinua e antagonistica

La forma gotica per innalzarsi si deforma, ed è come percepita non concretamente ma intuitivamente: intuita dalla concatenazione sinestetica dei sensi, viene percepita come continuità di una discontinuità, rafforzata da innumerevoli parti in antagonismo.
La forma gotica vive sul proprio carattere deformante: tutte le sue linee nell’innalzarsi si deformano, distruggendo la gerarchia delle proprie dimensioni. Il passaggio da una forma all’altra, da una dimensione all’altra, da una trasgressione formale all’altra è diretto, ed esclude in sé la geometrizzazione di una dimensione formale finita.

La visione mistica dell’architettura gotica dà un contatto reale con l’irrealtà

L’architettura gotica ci offre una visione quasi mistica, prescritta da percezioni sensoriali inconsuete ed estreme. Con essa si ottiene un contatto reale con l’irrealtà, ci si trova in una dimensione in cui tutto si trasforma in un “accaduto” (preternaturale) come provocato dalla mescalina:

Aldous Huxley, Le parole della percezione. Paradiso e Inferno. Mondadori, Milano 2007, pp.80-81

Entrando in questo mondo egli vide una moltitudine di “punti luminosi” e ciò gli apparve come “frammenti di vetro colorato”. Poi arrivarono “membrane di colore, delicate e fluttuanti”. Queste furono spazzate via da una “inaspettata irruzione di innumerevoli punti di luce bianca”, che traversarono il campo visivo. Poi vi furono linee a zigzag di colori lucentissimi, che si trasformarono in nuvole ondose di sfumature ancora più brillanti. A questo punto fecero la loro apparizione le costruzioni e poi i paesaggi. Vi fu una torre gotica dal disegno elaborato con statue decrepite nei vani delle porte o sulle mensole di pietra.
Mentre guardavo, ogni angolo sporgente, ogni cornicione, e finanche le superfici delle pietre ai punti di giunzione erano coperti per gradi o tappezzati da grappoli che sembravano di immense pietre preziose, ma pietre non tagliate, alcune dall’apparenza più di masse di frutta trasparente… Tutto sembrava possedere una luce interiore.

Come una visione sotto l’effetto della mescalina

La torre gotica fu sostituita da una montagna, un picco di inconcepibile altezza, un colossale artiglio d’uccello scolpito nella pietra e proiettato sull’abisso, un infinito svolazzare di drappi colorati, e una efflorescenza di pietre ancora più preziose. Alla fine vi fu la visione di onde verdi e purpuree che si infransero su una spiaggia “con miriadi di luci della stessa tinta delle onde”.
Ogni esperienza di mescalina, ogni visione che sorga sotto l’ipnosi, è unica; ma tutte appartengono chiaramente alla stessa specie. I paesaggi, le architetture, i grappoli di gemme, i modelli brillanti e intricati, questi sono, nella loro atmosfera di luce preternaturale, di colore preternaturale e di significato preternaturale, il materiale di cui sono fatti gli antipodi della mente. Perché debba essere così, non sappiamo. È un fatto bruto dell’esperienza che, ci piaccia o no, dobbiamo accettare, proprio come dobbiamo accettare il fatto dei canguri.

Visionarietà = percezione senza schemi di riferimento

Tramite la visionarietà si ha accesso a un mondo interno, lì si percorrono visioni non equiparate alla forma della certezza e della finitezza; la convivenza tra forme confusamente percepite attraverso i sensi e forme assimilate dalla convenzionalità dell’ordinarietà percettiva, stride a contatto di una percezione senza più schemi e regole di riferimento.

Non la somma forma
ma la forma in difetto

Potremmo dire che la visionarietà è l’affermazione dell’imperfezione, non v’è in essa la somma forma a prender forma, ma la forma in difetto, che non si arresta all’evocazione delle fattezze dell’assoluto, né all’asserzione dell’onnipotenza di una forma dettata dal divino e dalla sua totalità,

La forma si muove in
modo disarticolato

ma si muove disarticolatamente verso la creazione della scomposizione-ricomposizione: la realtà, oggettivata dalla percezione ordinaria dei nostri sensi, viene (come nell’arte gotica) radicalmente sopraffatta come da un mondo che stia prendendo corpo al momento; la scomposizione di un mondo, che è già stato sotto l’ordinarietà percettiva, sancisce la volontà di ricostruirne un altro,

Scomposizione e ricomposizione

ed ecco che dalla scomposizione si arriva all’esercizio della ricomposizione: un mondo mai visto, né mai prima immaginato, diviene plausibile; scomporre il mondo dato vuol dire affermare la sua negazione; ricomporre il mondo dato, dopo la sua scomposizione, vuol dire che la libertà di pensiero e sensoriale non deve fermarsi a una mera nozione,

Il disprezzo della familiarità

ma esser vissuta nell’esperienza spontanea del disprezzo della familiarità:

Aldous Huxley, Le porte della percezione… p.37

La familiarità porta il disprezzo, e il problema di come sopravvivere si stende nella sua gravità dal tedio cronico al tormento. Il mondo esterno è quanto ci aspetta al risveglio in ogni giorno della nostra vita; è il luogo dove, volenti o nolenti, dobbiamo cercare di organizzare la nostra vita. Nel mondo interiore non vi è né lavoro, né monotonia. Noi lo visitiamo solo nei sogni e nella meditazione, e la sua singolarità è tale che non troviamo mai lo stesso mondo in due occasioni successive. Quale meraviglia, allora, se gli esseri umani alla ricerca del divino hanno preferito in genere di guardare interiormente?

La struttura di una cattedrale gotica: esperienza estatica, conturbata e commossa

Tutta la struttura di una cattedrale gotica non è assimilabile a un equilibrio statico, o a uno spazio in cui le forme procedono orizzontalmente. Essa si esplica invece come l’impraticabilità di un modello immoto e irremovibile, orientandosi verso la sospensione e la cessazione temporanea di ogni forma limitata a se stessa e, rimarcando il concitamento proprio di un’esperienza estatica, si fa conturbata e commossa.
Infatti, che definizione dare alla volta a crociera? Le linee s’intersecano e si compenetrano in un movimento in cui non permane la linearità di un moto rettilineo, ma un modo di procedere nello spazio con movimenti svincolati dalla paralisi di linee allineate: la linea esercita la propria libertà di essere mista e irregolare e, nell’esser contemporaneamente ascendente e discendente, si conduce a perdere la propria linea e la propria rettilinea direzionalità, proprio come un’anima in una contemplazione infusa.

La coerenza che afferma l’incoerenza del pluralismo formale

È l’esperienza del rapimento che qui trova la sua coerenza: una coerenza che nega la coerenza formale, per affermare l’incoerenza, cioè una forma che aderisce all’applicazione degli opposti e alla nascita -tramite il loro contrasto- del pluralismo.
La struttura composita, tracciata dal pluralismo formale, ci conduce nell’esclusione della chiarezza (la forma si stacca dall’aspirazione alla finitezza) nella subordinazione dello spazio alla simmetria e alla visibilità equilibratamente stabile.

L’estasi e l’infinità dell’infinito

Per questo il suo carattere formale è più vicino alla «varietà di modi» dell’estasi. Lo spazio squalifica, dalla propria ascesi, quel paradigma del limite motivato dallo spazio “conchiuso” romanico. Con l’architettura gotica siamo all’atto di fede dell’elevazione estatica: lo spazio è attaccato dall’infinità dell’infinito.

Proprio come una mente rapita dalle visioni, per il Gotico diviene irrinunciabile il valore eterogeneo. E non è proprio in ogni visione estatica la riabilitazione di una visionarietà mossa da un viaggio extramentale, privo di referenti logici e linearmente rettilinei?

Scrive Giovanni Pozzi a proposito dei testi estatici riguardanti Maria Maddalena de’ Pazzi:

Maria Maddalena de’ Pazzi, Le parole dell’estasi… p.21
Tra la discontinuità e
il Sublime

Prolissità, discontinuità, disordine interruzioni, digressioni, mostruosità simboliche, paralogismi insidieranno continuamente i passi del lettore lungo questo itinerario e, in contropartita, lo consoleranno effusioni liriche, empiti di passioni veementi ed eteree,
speculazioni ardite, discese abissali nel fondo dell’anima, elevazioni alla soglia del sublime.
Un percorso estenuante, attraverso lande desolate e contrade amenissime.

Nell’arte gotica si esprime una sorta di cupiditas per la forma a carattere plurale. Non v’è in essa espressa soddisfatta perfezione, ma è sempre in condizione di volere (di bramare cupidamente) più di quanto già ha. La forma architettonica è subordinata alla linea continua, mossa da un andamento che assume le forme di una struttura in fieri che le trascende. La linea ininterrotta è così un viaggio nella inadeguatezza della forma a restare nei propri limiti, ogni forma è messa in relazione con l’altra, in uno spazio architettonico esperibile solo attraverso un movimento lineare e plastico inter-soggettivo:

Jurgis Baltrušaitis, Il Medioevo fantastico. Antichità ed esotismi nell’arte gotica. Mondadori, Milano 1977, p.278

Il Medioevo ha sempre avuto una notevole attitudine a rinnovare le forme prese a prestito e a imprimere loro il proprio carattere. Tutto si muove e si muta. Mescolate alle decorazioni dei margini, le grottesche greco-romane sono completamente assimilate alla bizzarria gotica.
Gli arabeschi sono trascinati nei capricci delle piante rampicanti. La flora vivente sboccia sull’intreccio a poligoni. Teste e calici di fiori con sopra figure appesantiscono i rami della vegetazione dei campi e dei giardini.

Il paesaggio fantastico del Medioevo

Sovrapposto al paesaggio vero, il paesaggio fantastico rivela la sua vita segreta e contribuisce all’esplorazione della natura. Sovrapposta all’arco acuto, la contro-curva sembra scaturirne con naturalezza e trasfigura l’architettura, conformemente a una legge di sviluppo interno. L’umanità ellenistica e la razza gialla assumono le sembianze di uomini e demoni familiari.
Le leggende e le visioni sono trasposte nel pensiero e nell’immaginazione medioevali. Perfino figure e motivi riprodotti con esattezza appaiono spesso come una stravaganza del loro genio.
È questa forza d’assimilazione e questa unità d’evoluzione che hanno contribuito a lungo a creare l’illusione d’una assoluta integrità dell’iconografia e dei sistemi morfologici gotici.
Senza dubbio il Medioevo è un blocco solo, e cresce imperturbabile su solide basi ma, nello spiegarsi delle fantasie, accumulate dopo il “classicismo” del Duecento, ricompaiono spesso racconti antichi e orientali che gli arrecano una ricchezza e un sapore esotici.

Il gusto dell’arabesco, l’attrazione dell’ignoto, le bizzarrie grecoromane

L’identificazione di questi apporti porta a un’ultima osservazione: le forze che hanno contribuito allo sbocciare di questi prodigi sopravvivono dopo il Medioevo. Si prolungano con gli incantesimi, il gusto dell’arabesco, l’attrazione dell’ignoto, le bizzarrie greco-romane.

Riempire la vecchia legge formale per crearne un’altra

Come si constata, ciò che più caratterizza l’arte gotica è non tanto rompere la vecchia legge formale -in questo caso controbattere a tutto ciò che è attribuibile alla stabilità formale del romanico- quanto riempirla di quello che le manca per crearne un’altra. Tutto ciò ci riconduce pertinentemente a quanto Santa Caterina da Siena scrive ne il suo Dialogo:

Santa Caterina da Siena, Dialogo in Scrittori di religione del Trecento, testi originali. (Tomo I, cap.LXXXV), Einaudi, Torino 1977, pp.188-189

E però disse la mia Verità a’ discipoli per dimostrare che egli non era rompitore della legge: “Io non so’ venuto a dissolvere la legge, ma ad empirla”. Quasi dicesse la mia Verità a loro: “La legge è ora imperfetta, ma col sangue mio la farò perfetta, e così la riempirò di quello che ora le manca, tollendo via el timore della pena e fondandola in amore e in timore santo”.

Ed è così che, a ben vedere, nell’arte gotica -e non solo nell’architetturaentra la percezione del dolore: è evidente che la sua essenza strutturale abbia
escluso dalla sua forma la formulazione di una estetica annunciata dall’immobilità di una massa plastica, avulsa dalla percezione organica e corporea
dell’umano dolore. Assoggettata a procedere sempre in un’altra forma, la
forma architettonica si evolve nella tensione di un rapporto iol’altro, io come dolore sofferto per l’altro.

Forma estatica astratta e forma organica funzionale

La forma estatica (astratta) vive in un contesto formale diverso dalla forma organica funzionale.

Forma estatica: non lineare e matericamente inconsistente

La forma estatica lacera lo spazio, perché questo urli (fra la gioia e il dolore), spingendo in fuori visioni inquiete, sciogliendo la linearità della linea in linee interlineate, non demarcate da un concreto contatto col terreno, dunque sterlineate, trasmodanti, alleggerite dall’inconsistenza materica, spiritualizzate, elevate, esaltate.

La spiritualizzazione delle figure

Abbiamo così nelle figure (come rappresentazione della spiritualizzazione) che l’ossessiva linearità sinuosa e spezzata del panneggio di una veste non sembra affatto sotto di sé nascondere un corpo, e non è dal corpo né toccata né modellata, ma vive nella gioia di non aderire al gravoso peso terreno del corpo, e perciò si virtualizza in una visione trascendente che persegue il desiderio di liberarsi in forme libere di annotare e intraprendere movimenti non correlati nell’esperienza terrena.

Vetrate spiritualizzate
dall’interferenza dei colori

Anche le vetrate si spiritualizzano: nel filtrare la luce diretta del sole non si illuminano di quei bagliori di luce solare, comunemente visualizzati dalla nostra ordinaria percezione visiva. Frammezzo all’interferenza dei colori assistiamo a un prisma che emana nello spazio colori rutilanti, che ci investono di un’esperienza visivo-cromatica estasiante, che induce la percezione sensoriale fuori di sé, proiettandola in una fantasticheria cromatica che ci manda in visibílio, come recepita da una sensorialità in rapimento.

Joseph Beaude, La mistica. Edizioni Paoline, Milano 1992, pp.55-56

Una virtù dei mistici è certo il loro coraggio. Essi sanno e dichiarano che ciò che desiderano è l’impossibile. Se infatti il Dio al quale aspirano nel loro intimo è veramente Dio, allora egli resta a un’enorme distanza -una distanza infinita- nel momento stesso in cui l’anima si sente come perduta in lui. La più elevata unione mistica non equivale mai alla perfetta unione. Sempre essa resta incompiuta e come rinviata. Il conseguirla compatta il senso di un’irrimediabile lacuna. L’anima pervasa dalla grazia del Divino non è del tutto paga.
Al contrario, quanto più Dio la pervade, tanto più la rende avida, riempiendola di un desiderio che deve cercare di essere a lui commisurato, cioè infinito ed assoluto.

La gioia mistica non è un appagamento ma un desiderio continuo

La gioia mistica non è affatto un appagamento, ma una lieta ferita o deliziosa piaga, come dichiarano i versi di Giovanni della Croce. I più puri canti mistici celebrano al contempo un’intensa dolcezza e un dolore estremo:
“L’anima che solo desidera unirsi a Dio
Vive in un continuo riposo e però in costante pena”.
(Angelus Silesius)
Ecco perché una delle caratteristiche dei testi mistici è l’uso di espressioni paradossali. Lo stesso Silesius avverte il lettore che i versi che questi si accinge a leggere “contengono diversi paradossi curiosi o parole contraddittorie”.

Architettura gotica: forma organica funzionale, mai finita e spiritualmente sofferente

Pur appartenendo alla virtù dei mistici, l’architettura gotica è pur sempre una forma organicafunzionale– che si esprime per mezzo di un linguaggio architettonico spiritualmente sofferente (e insofferente nei riguardi di una visione terrena) che mai arriva a compimento, è un progetto che si addentra in una stesura mai definitiva della forma (così pure l’architettura espressionista), è un interminabile proseguimento di sé, una linea che si snoda paradossalmente e contraddittoriamente, senza essere mai soltanto in sé, ma gettata nello spazio per restarsene liberamente aperta su tutto ciò che le accade intorno.

La forma organica funzionale nasce da un intento preciso

La forma organica funzionale è quella forma razionale che nasce funzionalmente da un preciso intento. La sua azione segue la direzione che ogni elemento formale intraprende per comporre dinamicamente una composizione architettonica.

L’intento della forma
organica: equilibrare le forze concorrenti

Essa non può distrarsi, non può allontanarsi dalla necessità di badare a che tutte le forze concorrenti (facenti parte dell’intera struttura architettonica) non si decompongano; la sua funzionalità sta nell’equilibrare ogni movimento e direzione della forma plastica;

Dare forma all’intento simbolico

ogni forma strutturale applicata per resistere alla forza di gravità, ogni applicazione di un punto di appoggio deve farsi elemento sensibile per muovere funzionalmente ed esteticamente tutto ciò che gli è stato affidato, secondo un preciso intento simbolico e allegorico.

Il Gotico crea strutture che soddisfano l’energia e la forza interiore della forma

Questa è la condizione strutturale su cui si basa il Gotico: una struttura che soddisfa l’energia e la forza interiore di una forma che, determinata dall’azione di una propria forza, continua a mutare e ad esistere secondo la forma di una materia soggetta all’attività di continui cambiamenti, attraverso forze opposte e contrarie. Quanto la determinazione strutturale di una cattedrale gotica sia vicina ai cambiamenti di una forma naturale dovuta dall’effetto dell’azione di una forza, ce lo dimostra D’Arcy Wentworth Thompson, nell’affermare:

D’Arcy Wentworth Thompson, Crescita e forma… p.15
La forma cambia per effetto dell’azione di una forza

la forma di ogni porzione di materia, sia essa viva o morta, e i cambiamenti di forma che appaiono nei suoi moti e nella sua crescita, possono sempre venir descritti come l’effetto dell’azione di una forza.

L’architettura gotica infatti si basa su forze che si spingono a sostenerla, a infonderle un’energia di slancio, a mutarla continuamente di forma. Persino la struttura della volta a capriate viene sostituita dalla volta a crociera per ottenere tale effetto. La sua realizzazione mette in moto svariate forze.

Conciliare pesante e leggero: contrapposizione tra forze e spinte

Ma come realizzare una compagine di elementi portanti, in grado di reggere non più volte realizzate in legno, ma volte in pietra, e dunque più pesanti, e nel contempo dare ad esse un assetto formale che le facessero visivamente più agili e leggere?
Ecco: contrapporre alla pressione della volta a botte in linea col basso, la struttura a crociera; la compartizione della volta in quattro vele non solo è portata a scaricare il peso verso il basso tramite i costoloni di rinforzo ma anche verso l’epicentro, dove esse confluiscono incrociandosi.

Costruzione e decostruzione

Questa continua tenzone tra forze e spinte che si contrappongono ci delinea allo sguardo una struttura il cui movimento esige una forma che si adatti a darci la sensazione di un continuo costruirsi-decostruirsi di forze contrapposte.

Costruzione di uno spazio infinito inquietante e non abitabile

Tutta l’architettura gotica si destina alla costruzione di uno spazio inquietante in quanto rappresentazione di un infinito. E l’infinito -come l’architettura gotica- è poco abitabile. Forse non è per questo che quando entriamo in una cattedrale gotica ci sentiamo aggrediti da un senso di inquietudine?

Vicini al divino grazie al troppo

Il suo troppo (le sue linee cacciate fuori dalla rettilineità; l’universo cromatico delle sue vetrate, attraverso cui la mobilità della luce getta nello spazio effetti cromatici come liberati da movimenti luminosi mossi da una visione estatica) non sembra forse abolire la distanza che ci separa dal divino, riempiendo lo spazio con innumerevoli elementi, con l’intento di ottenere un ponte tra il mondo e l’oltremondano?
Il troppo non diverrebbe così ora una scala verso l’alto, ora verso gli inferi?
Quel troppo, rivestito di linee che si estendono all’infinito e di uno spazio che abbonda incessantemente di forme, ci accoglie in un insieme poco abitabile perché in esso tutto pare capricciosamente estendersi all’infinito: il troppo crea l’insondabile, e lo spazio antropomorfo che riempie il vuoto, e la perversione di un abisso senza fondo.

Il Gotico è la biblioteca del troppo. Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana (vol.I), Salani, Firenze 1995, p.54

Il Gotico è la biblioteca del troppo: «come il papa aspirava a far sua tutta la terra, la storia religiosa -afferma De Sanctis- assorbiva in sé tutt’i tempi e tutte le storie».

Maria Maddalena de’ Pazzi, Le parole dell’estasi… p.47
Charles Baudelaire, Razzi, in Poesie e prose. Mondadori,
Milano 1977, p.984

E quel troppo non è solo lo sviluppo di una visione ascetica con «insiemi metaforici pletorici e discontinui», ma anche la sfrontatezza dell’ostentazione dello spirito umano: «Che la Chiesa voglia fare tutto ed essere tutto, è una legge dello spirito umano».
E la legge dello spirito umano da sempre oscilla fra il sacro e il profano, fra il divino e il demoniaco, fra il Bello e il Brutto. Cosicché noi vediamo che nel Gotico

Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana. Salani… p.54

quelle mescolanze di divino e di terreno, di antico e di moderno, di serio e di comico non sono ben fuse, anzi stannosi accanto crudamente, e in luogo di armonizzare producono un’impressione irresistibile di contrasto, di cose che cozzano.

Il troppo e l’arabesco, contro la linearità

Alla categoria del troppo appartiene anche l’arabesco, poiché l’arabesco genera unicamente una linea in cui si agitano molteplici paradossalità lineari, che la spingono a separarsi dalla sua linearità d’origine.
Il suo compito è:
– spostar linee dalla propria linea;
– far sempre accadere qualcosa nel proprio tragitto lineare;
– cambiare continuamente linee attraverso cambiamenti di percorso;
– raggiunger un maggior numero di linee fuse in una sola linea;
– diffondere la propria linea ovunque;
– lasciar scorrere ovunque nello spazio tante linee fuse in una sola, o una sola linea fusa in tante linee.

L’arabesco è perdita di sacralità-simbolica

L’arabesco è errante, e pertanto è perdita di sacralità-simbolica, di ritmicità formale obbligata, di orizzonte.

L’architettura gotica è cònsona all’arabesco

L’arabesco non cede alla linea geometrica chiusa, ma tesse il dèdalo, l’inviluppo, l’intrico, il garbuglio, la congestione, la mistione, la babele: gli itinerari che segue la sua linearità sono infiniti. Cosicché ogni particolare (strutturale e formale) è, nell’architettura gotica, cònsono alla linearità dissacrante dell’arabesco.
L’ogiva, ad esempio, è uno degli elementi strutturali (oltre che estetico) che dissacra violentemente la greve linearità mirabilmente ponderata dell’arco a tutto sesto. Si pensi al Filarete che esalta, in qualità di elemento visivamente equilibrato, l’arco a tutto sesto,

Wladyslaw Tatarkiewicz, Storia dell’estetica… p.93

accettando in linea di massima… come valido il principio per cui all’uomo piace ciò che si può seguire facilmente e senza sforzo con l’occhio. L’arco circolare e semicircolare non presenta difficoltà per l’occhio a differenza dell’ogiva, che è spezzata da una frattura, da un cambiamento di direzione, da un arresto; perciò l’ogiva è meno bella dell’arco a tutto sesto.

L’arabesco, plastico e pieno di movimenti

L’arabesco è plastico ed è un movimento aperto. Perciò è dissonante poiché sviluppa in sé un pluralismo di movimenti affatto scontati, quali (solo per citarne alcuni): in contorsione, in ondeggiamento, in giravolte, in rotazione, in urto, ecc.; e ancora: lenti-rapidi, vivaci-torbidi, accelerati-decelerati, ecc.,

Adolf von Hildebrand, Il problema della forma nelle arti figurative in La critica d’arte della pura visibilità e del formalismo, Garzanti, Milano 1977, p.127

l’arabesco è pieno di movimenti perché è plastico, e

la rappresentazione plastica si compone pertanto di rappresentazioni visive di linee e superfici semplici collegate fra loro da rappresentazioni in movimento.

Tutti i movimenti nell’arabesco sono in relazione con l’appariscenza di un andamento lineare votato all’infinitezza: la sua linearità salta fuori dallo spazio, sviluppa forme che da esso traboccano, per un’apertura di forme in uno spazio aperto.

Charles Baudelaire, Razzi, in Poesie e prose… p.984

Per Baudelaire «l’arabesco è il più spiritualistico dei disegni… è il più ideale di tutti i disegni»; a ciò aggiungiamo inoltre che l’arabesco è il più tattile dei disegni, ed essendo un elemento tattile ci rimanda alla espressività fluente e fantasmagorica della decorazione, in quanto per decorazione si intendono

Bernard Berenson, I valori tattili in La critica d’arte… Garzanti, Milano 1977, p.236

gli elementi d’un’opera d’arte che si rivolgono direttamente ai sensi, e tali il Colore e il Tono; o che direttamente suscitano sensazioni immaginative, tali la Forma e il Movimento.

L’arabesco decorativo dà forma al movimento e movimento alla forma

L’arabesco, per le sue intrinseche peculiarità formali, è un elemento visivo altamente decorativo: è dotato di una linearità in grado di dar colore e tono con la sua contorta immediatezza visiva, e di stanziarsi -col suo cromatismo lineare- in un’energia che dà forma al movimento e movimento alla forma.

L’arabesco gotico nelle litografie degli espressionisti

L’interconnessione fra arabesco e decorazione vive in perfetta simbiosi nelle litografie degli espressionisti e in tutto il decorativismo plastico-architettonico del Gotico. V’è quindi nella grafica espressionista tanta linearità gotica, espressa per mezzo di una polifonía di segni ornamentaleggianti, in cui ben si individualizzano -con un nervoso rapporto di linee-colori e toni (bruscamente chiaroscurati), forme e movimenti che variano da segno a segno.
Se noi volessimo, dunque, associare alla grafia di Kirchner, Schmidt-Rottluff, Heckel ecc. un genere letterario gotico, quello non potrebbe essere altro che quel tipo di lirica jacoponica e dantesca che si ispira al linguaggio polimaterico dei sermones:

Franco Mancini, Introduzione a Jacopone
da Todi, Laude. Laterza, Bari 1980, p.VII

è lecito paragonare il laudario a una raccolta di sermones o, se meglio piace, a un trattato morale sorprendente per la varietà dei temi (con quel che di apologetico o di polemico è insito in essi) e per le improvvise accensioni mistiche…

Visionarietà e misticismo

Quegli stessi «frequenti slittamenti dal piano mistico-teologico a quello morale» delle Laude jacoponiche, si riflettono nell’architettura gotica e ne la Divina Commedia, e anche in parte in quella sorta di misticismo anarchico e visionario presente -patentemente e latentemente- in tutta l’opera espressionista.

Quella «libertà» di Jacopone

Franco Mancini, Introduzione a Jacopone
da Todi, Laude… p.VII

di frequentare una tematica ben a lui attuale, in cui trovano spazio atteggiamenti su problemi reali, come la polemica contro i frati del suo ordine (tacciati di tradimento a S. Francesco, di ipocrisia, di crudeltà e di ripugnante conformismo), la decadenza e corruzione
della Chiesa, l’albagía dell’opulenta società-borghese…

La libertà di Jacopone è la stessa di Dante e degli espressionisti

è la stessa che riscontriamo in Dante e negli espressionisti.
Nelle Laude di Jacopone, maturate nella rustica proverbialità del vulgo, è l’ebbrezza dell’indiavolato o dell’asceta che impegna nell’impulso espressionistico del suo linguaggio:
piene di riverberazioni linguistiche basse, le Laude accusano un’emotività spontanea, addensata anche da un’esaltazione (critica e grottesca) giullaresca.

Il libero linguaggio della predicazione

La predicazione, come abbiamo visto anche in Dante, si serve di un linguaggio multiforme, carico di ulcerazioni tragiche e grottesche. È un luogo comunicazionale espressivo in cui circolano liberamente:
la materialità della storicità umana, la sua corruzione, il suo serpente scapolato, il suo imbrutire nel guasto della perversione, il suo traviamento stralignato dall’abuso del male.
E allora, il linguaggio lirico della predicazione assume toni profetici:

Jacopone da Todi,
Cantico 6

La luna è scura e ’l sole è ottenebrato,
le stelle de lo cel veio cadere;
l’antiquo serpente pare scapolato,
tutto lo mondo veio lui sequire.

L’acque s’à bevute d’onne lato,
fiume Iordan se spera d’engluttire
e ’l popolo de Cristo devorare.

e una visione mistica che porta all’allucinazione acustico-vocale:

Jacopone da Todi, Cantico 78

Da celo venneme una voce
e disse: «Ségnate con croce
e piglia el ramo de la luce,
lo quale è a Deo molto agrato».
Co la croce me segnai
e lo ramo sì pigliai,

tutto lo corpo ci afrattai,
sì ch’enn alto fui levato.
Poi, levato en tanta altura,
trovai amor de derittura,
lo qual me tolse onne paura,
und’el meo cor era tentato.

e l’adagio proverbioso, messo in rilievo da parole che parlano con la gestualizzazione materico-verbosa, come ripescata da una rozza e corrosiva sapienza popolare:

Jacopone da Todi, Cantico 5

Veio la gentelezza,
che no n’aia ricchezza,
retornare a vilezza;
onn’om l’apella brama.
(…)

L’omo c’à sanetate
trova granne amistate;
se i vèn la tempestate,
rómpeseli la trama.

De Babilonia civitate infernali di Giacomino da Verona, linguaggio con arcaismo, popolareggiante

Anche il tema deve ammartellare l’immaginazione del lettore, flagellandolo con una grassa asprezza e acidità di tono. De Babilonia civitate infernali di Giacomino da Verona, ricalca con estrema pertinenza quanto detto sopra. Il linguaggio è volutamente ripescato da un certo arcaismo veneto; è plebeo, e suona popolareggiante, corrotto e impuro, non solo nella sua forma linguistica e fonetica, ma anche per le sue descrizioni colorite con toni rozzi e dozzinali per far colpo sull’immaginazione di un pubblico altrettanto dozzinale.
Nonostante la metrica (costruita su quartine di alessandrini) sembri fatta per lettori decisamente non sprovveduti, la descrizione invece vuole imprimere le proprie immagini in un pubblico incolto. Si fa perciò realisticamente orripilante e raccapricciante. Il racconto (per poter far presa sull’incolto) si muove su ingredienti semplici ed efficaci.

Una cucina demoniaca, il realismo condito dal fuoco

Ci troviamo in una sorta di cucina demoniaca, in cui i maligni, intenti intorno a un pentolone, preparano un orrido pasto fatto di uomini accuratamente macellati e conditi con acqua, sale, fuligine, vino, fiele, aceto forte, tossico e veleno.

Charles Baudelaire, Razzi, in Poesie e prose… p.987
Giacomino da
Verona, De Babilonia
civitate infernali in
Poeti del Duecento.
Contini Ricciardi,
Milano-Napoli 1960

Tutto ciò per rendere ancor più realistica la descrizione a cui si aggiunge, ovviamente, un crudel fuoco perché, se bisogna far colpo sul popolo occorre ricordarsi che «il popolo -per dirla con Baudelaire- è adoratore nato del fuoco».

La puzza è così grande, che esce dalla bocca,
che se io volessi dirlo, tutto sarebbe invano,
e uno che solamente s’avvicina e la provi

La puça e sì granda   ke n’exo per la boca,
ka eo volervel dir   tuto seria negota,
ké l’om ke solamentre   l’aproxima né ’l toca

giammai per nessun tempo sarà libero dalla nausea.
Mai non fu veduta in nessun tempo
né luogo né altra cosa altrettanto puzzolente,

çamai per nexun tempo   non è livro d’angossa.
Mai no fo veçù   unca per nexun tempo
logo né altra consa   cotanto puçolento,

e mille miglia e più lontano si sente
la puzza e il fetore, che c’è in quel pozzo
dentro.
Assai laggiù c’è bisce, ramarri, rospi e serpenti

ké millo meia e plu   da la longa se sento
la puça e lo fetor   ke d’entro quel poço
enxo.
Asai g’è là çó bisse,   liguri, roschi e serpenti,

vipere e basilischi e dragoni mordenti;
aguzzi più dei rasoi tagliano le unghie e i denti,
e tutto il tempo mangiano e sono sempre affamati.
(…)

vipere e basalischi   e dragoni mordenti:
agui plui ke rasuri   taia l’ongle e li
denti,
e tuto ’l tempo manja   e sempr’è famolenti.
(…)

Lì c’è i demoni con grandi bastoni,
che spaccano le ossa, le spalle e i fianchi,
e questi sono neri cento volte più dei carboni,
se non mentiscono le parole dei santi sermoni.

Lì è li demonii   cun li grandi bastoni,
ke ge speça li ossi,   le spalle e li galoni,
li quali è cento tanto   plu nigri de carboni,
s’el no mento li diti   de li sancti sermoni.

Così orribile volto ha quella compagnia,
che c’è maggior piacere per valli e montagne,
essere flagellati con spine da Roma fino in Spagna
piuttosto che incontrarne uno solo nella
campagna.

Tant à orribel volto   quella crudel compagna,
k’el n’ave plu plaser   per valle e per montagna
esro scovai de spine   da Roma enfin en Spagna
enanço k’encontrarne   un sol en la campagna.

Qui siedono custodi, la sera e l’indomani,
e fuori dalla bocca mandano un crudel fuoco,
la testa hanno cornuta e pelose le mani,
urlano come lupi e abbaiano come cani.

Ked i çeta tutore,   la sera e la doman,
fora per mei’ la boca   crudel fogo çamban,
la testa igi à cornua   e pelose le man,
t urla como luvi   e baia como can.

Ma dopo che uno è lì, e quelli l’hanno in cura,
in un’acqua lo mettono che è di tal freddura
che un dì gli pare un anno, secondo la scrittura,
prima che lo mettano in un luogo di calura.

Ma poi ke l’omo è lì   e igi l’à en soa cura,
en un’aqua lo meto   k’è de sì gran fredura
ke un dì ge par un anno,   segundo la scriptura,
enanço k’eli el meta   en lago de calura.

Ma quando è poi al caldo, al freddo vorrebbe essere,
tanto gli pare duro, fiero, forte e acerbo,
per cui non sarà mai libero per nessun tempo mai,
dal pianto e dal dolore e da gran pena per giunta.

E quand ell’ è al caldo,   al fredo el voravo esro,
tanto ge pare’l dur, fer,   forto et agresto,
dond el non è mai livro   per nexun tempo adeso
de planto e de grameça   e de gran pena apresso.

Stando in quel tormento, sopra ci viene un cuoco,
cioè Belzebù, dei peggiori del luogo,
e lo mette ad arrostire, come un bel porco, al fuoco,
in un gran spiedo di ferro per farlo cuocer presto.

Staganto en quel tormento,   sovra ge ven un cogo,
çoè Balçabù,   de li peçor del logo,
ke lo meto a rostir,   com’un bel porco, al fogo,
en un gran spe’ de fer   per farlo tosto cosro.

Poi prende acqua e sale e fuligine e vino
fiele, aceto forte, tossico e veleno
e ne fa un guazzetto ch’è tanto buono e fino
che ogni cristiano ne scampi il Re divino.

E po’ prendo aqua e sal   e caluçen e vin
e fel e fort aseo   e tosego e venin
e sì ne faso un solso   ke tant e bon e fin
ca ognunca cristïan   sì ’n guardo el Re divin.

Al re dell’inferno in dono lo portano,
egli lo guarda bene e poi dice al messo:
«Io non gli darei», così dice «un fico secco,
perché la carne è cruda e il sangue è bell’e fresco.

A lo re de l’inferno   per gran don lo trameto,
et el lo guarda dentro   e molto cria al messo:
«E’ no ge ne daria»   ço diso «un figo seco,
ké la carno è crua   e ‘l sango è bel e fresco.

Portatelo indietro, immediatamente,
e dite a quel cattivo cuoco che non mi par ben cotto,
e che lo deve mettere col capo in giù stravolto
dentro a quel fuoco che arde sempre notte e giorno.

Mo tornagel endreo   vïaçament e tosto,
e dige a quel fel cogo   k’el no me par ben coto,
e k’el lo debia metro   col cavo en çó stravolto
entro quel fogo ch’ardo   sempromai çorno e noito.

E inoltre digli ancora da parte mia
che non me lo mandi più, ma sempre lì lo lasci,
e non sia negligente e pigro in questo fatto,
perché è ben degno d’avere questo male ed altro».

E stretament ancor   dige da la mia parto
k’el no me’l mando plui,   ma sempro lì lo lasso,
né no sia negligento   né pegro en questo fato,
k’el sì è ben degno   d’aver quel mal et altro».

Di essere giù mandato non gli dispiace mica
poi lo mettono in un fuoco, che arde in così fiero modo
che quanta c’è gente al mondo che vive sotto il  cielo,
non ne potrebbe spegnere nemmeno una favilla.

De ço k’el g’e mandà   no ge desplase’l miga,
mai en un fogo lo meto,   ch’ardo de sì fer’ guisa
ke quanta çent è al mondo   ke soto lo cel viva,
no ne paria amorçar   pur sol una faliva.

Mai non fu visto né mai non si vedrà,
così grande e fiero come  quel fuoco sarà:
né oro né argento né castelli né città
ne potranno salvare colui che nel peccato morirà.

Mai no fo veçù,   né mai no se verà,
sì grando né sì fer   cum’ quel fogo serà:
aoro né arçento   né castel né cità
non à scampar quelor   k’en li peccai morà.

Sofisticazione retorica e mescolanza universale

Tutto il Gotico si esprime per mezzo di un’eloquenza visiva e linguistica che ha in sé compreso sia un linguaggio che sta nella sofisticazione retorica appropriata a ciò che vuole esattamente comunicare, sia un linguaggio mosso dal desiderio di

Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana. Salani… p.54

«una mescolanza universale» orientato a concepire un’«opera di una immaginazione primitiva e ancor rozza (…), coniugando
in sé il fantastico e l’affetto, il divino e l’umano, e nelle sue gradazioni dall’inferno al paradiso facendo vibrar tutte le corde dello spirito».
La Divina Commedia muove dunque i suoi passi da questa gotica mescolanza universale. Afferma Dante nell’Epistola a Cangrande della Scala:

Epistola a Cangrande della Scala in Dante, Opere minori…

E per ciò è chiaro che la presente opera si dice Commedia. Infatti se guardiamo alla materia,
è orribile e fetida al principio, perché Inferno, prospera, desiderabile e accetta alla fine, perché Paradiso; al modo d’esprimere, è il modo piano e umile, perché lingua volgare in cui discorrono anche le donnette. Vi sono anche altri generi di narrazione poetica, cioè il carme
bucolico, l’elegia, la satira, e il canto votivo, come può esser palese anche da Orazio nella sua Arte Poetica…

Linguaggio tra sacro e profano, tra àulico e ínfimo

Potremmo dire: alla stessa stregua di tutta quella materia religiosa di cui tutta l’arte medioevale era intrisa, Dante propende per un linguaggio che molto vive nella prosperità di una locutio grezza –horribilis et fetida– (tendente agli opposti: sacro e profano, parlato àulico e ínfimo) perché già essa caratterizzava tutta la materia religiosa artistica dell’epoca.

Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana. Salani… p.53

Infatti, «la… tendenza troppo ascetica e spirituale» di quella materia religiosa «era vinta dal grosso senso popolare che paganizzava e umanizzava tutto. In questa storia religiosa, il cui proprio teatro è l’altra vita, a cui questa è preparazione, l’uomo mescolava le sue passioni terrene, le sue vendette, i suoi odii, le sue opinioni, i suoi amori».
Aggiungiamo a tutto ciò che spesso la materia di quell’arte prendeva forma da particolari esperienze di vita che lasciavano ferite mai rimarginate.
Fu il caso del notaio Jacopo Benedetti (Jacopone da Todi, 1230-1306) di cui

Adolfo Bartoli, Le origini della letteratura italiana in AA.VV, Gli albori della vita italiana. Treves, Roma 1920, pp.272-273

Narrasi avesse per moglie una bella giovane e ricca gentildonna, che recatasi un giorno ad una festa nuziale, fu travolta cogli altri nella rovina della sala ove danzavasi; onde trasportata a casa moribonda, non potè nascondere al marito un pungente cilizio, che, tenuto sotto le splendide vesti, le lacerava le carni. Quella vista fu per Ser Jacopo come un ammonimento di Dio: da quel giorno, donate ai poveri tutte le sue ricchezze, e copertosi di stracci, si diede alla vita della penitenza, e tant’oltre si spinse da compiacersi d’esser mostrato a dito, d’esser deriso, d’esser seguito da una folla che gli urlava dietro a dileggio: Jacopone, Jacopone!

La follia per l’amore di Dio

Diventò sua passione l’esser pazzo per amore di Dio, e fece pazzie incredibili, come quella di mostrarsi in pubblico con un basto d’asino sulle spalle e il morso
in bocca, camminando carponi come le bestie, o di cospargersi il corpo di trementina e avvoltolarsi nelle piume, che, rimanendogli appiccicate, davano a quel disgraziato un aspetto del quale non saprebbe immaginarsi il più ridicolo. Per questa passione dell’amore divino il povero frate andò delirando anni ed anni, condannandosi ai più duri patimenti. Per l’amore divino egli odiava sè stesso, godeva di essere vilipeso, chiedeva a Dio tutti i mali, tutti i dolori, tutti i tormenti: la febbre, l’idropisia, la podagra, la lebbra, il mal caduco, chiedeva d’esser fatto cieco, sordo e muto, e che il suo corpo fosse ridotto fetente e che la sua sepoltura fosse nel ventre di un lupo! Rinnegava il padre, i parenti, gli amici, aspirava a spogliarsi della sua umanità, raccomandava la sua fama all’asino che raglia.

Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana. Salani… p.53

E non è un caso che anche in Jacopone prevalga, secondo De Sanctis, il Grottesco: «mescolanza delle cose più disparate, senza nessun senso di convenienza e di armonia», proprio come è in sostanza il Gotico in cui «quel difetto di armonia è il grottesco». Ovviamente,

Franco Mancini, Introduzione a Jacopone da Todi,
Laude… p.XI

la nozione desanctisiana del grottesco, interessante quando identifica col “difetto di armonia”, diventa inaccettabile allorché di esso grottesco si rinviene la causa in una “rozza ingenuità”.

Il Grottesco: la condizione dell’uomo e la creazione

E il Grottesco, occorre tener presente, nasce sempre dallo sguardo posato sulla condizione esistenziale dell’uomo e sulla universale creazione: due elementi che in coppia si accompagnano in tutta l’arte gotica ed espressionista.
E «che cos’è la creazione?» si chiede Victor Hugo:

Victor Hugo, Sul Grottesco… pp.133-134

Bene e male, gioia e lutto, uomo e donna, ruggito e canzone, aquila e avvoltoio, lampo e raggio, ape e calabrone, montagna e vallata, amore e odio, testa e croce, chiarezza e difformità, astro e porco, alto e basso.

Il Grottesco è l’antitesi degli elementi in natura

La natura è l’eterno bifronte. E questa antitesi, da cui ha origine l’antifrasi, si ritrova in tutte le abitudini dell’uomo; è nella favola, è nella storia, è nella filosofia, è nel linguaggio. Siate le Furie, vi chiameranno Eumenidi, le Affascinanti; uccidete i vostri fratelli, vi chiameranno Philadelphe; uccidete vostro padre, vi chiameranno Philopator; siate un grande generale, vi chiameranno il piccolo caporale.

Antitesi in natura e
antitesi in arte

L’antitesi di Shakespeare è l’antitesi universale; sempre e dovunque è l’ubiquità dell’antinomia; la vita e la morte, il freddo e il caldo, il giusto e l’ingiusto, l’angelo e il demone, il cielo e la terra, il fiore e la folgore, la melodia e l’armonia, lo spirito e la carne, il grande e il piccolo, l’oceano e l’invidia, la schiuma e la bava, l’uragano e il sibilo, l’io e il non-io, l’oggettivo e il soggettivo, il prodigio e il miracolo, il tipo e il mostro, l’anima e l’ombra. È di questa evidente controversia misteriosa, di questo flusso e riflusso senza fine, di questo perpetuo sì e no, di questa opposizione irriducibile, di questo immenso antagonismo perpetuo che Rembrand fa il suo chiaro-scuro e che Piranesi compone la sua vertigine.
Prima di togliere quest’antitesi dall’arte, cominciate a toglierla dalla natura.

Il Grottesco incoraggia ad ammettere la realtà

Insomma: totus in antithesi. Il Grottesco incoraggia ad ammettere la realtà del mondo così com’è, anche nella sua estrema marginalità rispetto al resto dell’universo, anche in tutte le sue antitesi e contraddizioni connaturate sia all’uomo sia alla natura.

Victor Hugo, Sul Grottesco… pp.133-134

Ma che cos’è l’antitesi? È «la facoltà sovrana di cogliere i due lati delle cose».
Ed è certo che, nel cogliere sempre gli opposti, bene e male, vita e morte, il Grottesco non è estraneo alla màcabra corruzione dell’uomo.

Il Grottesco non vuole
piacere ma attrae morbosamente

Nel proprio orizzonte ritrattistico, anche la coscienza negativa dell’incoscienza vi prende forma, ragion per cui il Grottesco non mira a procurar piacere. Il suo scopo è creare un’attrazione su di sé, suscitando morbosità: nella sua forma, danneggiata dallo scetticismo che nutre nei riguardi della visione normale dell’esistente umano, vi entra anche lo sguardo di chi non ha piacere nel ricevere piacere dagli aspetti ordinari dell’esistenza, poiché sa che questi mentiscono all’esistenza stessa, giacché l’esistenza è corrosa dal folclore di una bruttura generalizzata.
Ed è così che nel Grottesco di Jacopone da Todi (ed anche di Dante e di tutto l’Espressionismo):

Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana. Salani… p.55

Trovi il plebeo, l’indecente, il disgustoso misto coi più gentili affetti: ciò che è pure il carattere del santo con le sue estasi e le sue stravaganze. E questo in Jacopone non è già un contrasto che celi alte intenzioni artistiche, ma rozza natura, così discorde e mescolata come si trova
nella realtà.
Ecco il principio del cantico 48:

Jacopone da Todi, Cantico 48

O Signor, per cortesia,
mandame la malsania:
a me la febbre quartana,
la continua e la terzana;

a me venga mal de dente,
mal de capo e mal de ventre,
mal de occhi e doglia de fianco,
la postema al lato manco.

La poesia di Jacopone, naturale con
niente di finito né armonico

La poesia di Jacopone è proprio il contrario di quella de’ trovatori. In questi è poesia astratta e convenzionale e uniforme, non penetrata di alcuna realtà. In Jacopone è realtà ancora naturale, non ancora spiritualizzata dall’arte; è materia greggia, tutta discorde, che ti dà alcuni tratti bellissimi, niente di finito e di armonico.

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