Saggio sopra l'espressionismo

il corpo ctònio in Bacon

La pittura ctònia di Bacon: un corpo autofago e l’abisso

Uno sguardo all’opera pittorica di Bacon, e subito ci sentiamo risucchiare nelle viscere di una rappresentazione dello ctònio. Tutta la sua pittura è raccapriccio di un corpo intento a cibarsi della propria carne.

Francis Bacon, Crocifissione (particolare femminile), 1981 (litografia)

Un corpo che ci conduce negli accidentali sentieri che portano alle interiora di una natura allo stato brado, è simile a quel lato oscuro femminile in cui ribolle il magma mestruale: è l’abisso riluttante ad apparire in superficie, ma che viene poi a forza espulso, buttato fuori, perché l’Averno, trascinato fuori dal suo fondo pestilenziale, mostri la vera faccia dei suoi adoratori, la grassa foia dei suoi corteggiatori.

Ogni forma di vita che appartiene al mondo dell’uomo è corrotta

Lì siamo portati alla frequentazione delle ebollizioni; lì lo strazio non lenisce ferite, ma esercita il suo diritto a farci vedere di che cosa è fatto; lì la temporalità della vita ci scarica addosso la sua sconcia atmosfera di esseri inadeguati a essere persino ciò che sono; lì ogni forma di vita, che appartenga al mondo a cui l’uomo appartiene, conosce tutte le tappe della propria corruzione; lì non c’è nulla di più angoscioso di un’angoscia che si faccia materia per toccarci e farsi toccare; lì non v’è senso compiuto, si inciampa nella fisionomia mostruosa delle penombre, che espellono da se stesse immagini che non hanno né la consistenza solare della luce né la consistenza tenebrosa del buio, ma solo ciò che, essendo stato eroso a metà dell’uno e dell’altra, non è né ciò che mostra di essere né ciò che non mostra di essere: è il mezzo corpo che non mostra mai per intero il proprio corpo, è il corpo monco, mostruosamente deturpato, essendo la solitudine estrema di un corpo mutilato.

Il mezzo corpo che non è mai sé né altro, né intero

È un urlo muto: il corpo si tende tutto nello spasmo di un urlo che non riesce a urlare. Restando bloccato nel suo spasmo di dolore, s’è deformato in un grumo amorfo di carne e sangue, dal cui impasto ne esce una forma come vomito… vomitato da un fiotto mestruale.

In Bacon il corpo si trasforma anche in una materia che inizia a liquefarsi al contatto di un rogo (per autocombustione?), o che inizia a mettere insieme i propri pezzi (dalla consistenza gelatinosa e cartilagìnea) come fosse un corpo che stia per nascere dalla propria deformità.
Quel corpo ha masticato se stesso e, dopo essersi masticato, s’è sputato il masticaticcio addosso?

Il corpo si nega e mangia se stesso

Il corpo in Bacon si nega, perché ha lasciato che la propria carne mangiasse se stessa e si straziasse masticandosi. Nel percorrere in dettagli quel grumo di carne, notiamo: non vi sono particolari fisiognomici che si destreggiano in una figura costruita per apparire tale; non v’è un insieme di dettagli anatomici che delimitino una anatomia corporea, ma un amalgama che ha stabilito, tra il corpo e la propria carne, quanto segue:

Materia finita prima di giungere alla propria forma o formata e già in decomposizione?

la figura deve essere o all’inizio della sua fine o alla fine del suo inizio; ecco, stava per formarsi, ma è finita prima che giungesse ad avere una forma; ecco, ha inizio proprio all’inizio della sua fine. Ma ciò che vediamo è l’inizio di un corpo in decomposizione, o sfracellato, o un corpo all’inizio del suo formarsi?

I colori diventano liquidi e non portano la forma

Su quel corpo… i colori raccomandano di diffidare dei propri colori: liquefacendosi si fan ben comprendere poiché dicono, nel mostrarsi, più di quel che dicono e meno di quel che non dicono.

I colori fanno attenzione a che i propri colori non portino in sé una propria forma. Essi obbediscono alla fisionomia di una matericità cromatica che ha perso il controllo di sé, liquefacendosi sotto il gesto di una pennellata che introduce il senso di un corpo maciullato dentro i suoi colpi.

I colori agli sgoccioli

Quei corpi, sotto le sferzate delle pennellate, rivelano di essere coscienti di ciò che stanno provando: eviscerati, contusi, bruciati dai loro colori rimangono sulla superficie del quadro così come dovrebbero essere se su di loro si gettasse una secchiata d’acqua: scolando sulla superficie del quadro, sembrano corpi che si apprestano a sgocciolare a terra.

Quei corpi, che si amplificano nella prolissità di una malformazione (genetica o ottenuta da specifiche torture), sembrano esplodere nello spazio della tela come carni adattate, figurativamente, a mutilazioni innominabili. In quei corpi si rispecchia l’avidità della tortura. Emettono colori di materia disgustosa e purulenta.

Una cancrena incontrollata si estende sulla tela

Ciò che nello spazio della tela pare estendersi a macchia d’olio è una cancrena incontrollata, affluita da una condizione corporea mortificata da colori che frequentano macellazioni che suscitano disgusto, stigmatizzate dal terrificante. Corpi come dettagli fecali, usciti da un ano ignominioso (quanto la disdicevole natura della putrefazione).

L’incesto del corpo e della carne: la tortura sostituita al piacere

In Bacon è l’incesto che prende corpo sulla scena del quadro: il corpo còpula con sua sorella carne, facendo uscire dai colori un fluido seminale che disprezza il piacere, lo tortura, lo sbrana, lo mangia e lo vomita rendendolo disgustoso quanto l’attraente volto della sostanza putrescente.
La figura è tutta attrezzata di carne da scartare. Il suo aspetto è penoso, poiché è carne da cui si è formata la condizione di una sofferenza messa a macerare in se stessa.

Quei corpi non lasciano di sé più niente da vedere, ma nel vederli così com’essi sono (affioranti da una carne appolpettata) si lasciano sentire per ciò che più non sono.

Il dilaniarsi reciproco di colore e figura

Quei corpi lanciano su se stessi una sensazione spiacevole di tortura che sembra esprimersi in tempo reale. V’è una reciproca contrapposizione tra figura e colore: il colore sembra dilaniare la figura, la figura il colore.
Fate a pezzi un corpo, dopo aver cavato fuori tutto ciò che ha dentro di sé. E a pezzi gettatelo in un tritacarne. Fate, poi, di quella carne tritata un impasto con cui modellare qualcosa che assomigli a qualcuno ché assomigli a qualcosa più che a qualcuno. E voilà! avrete ottenuto quella figura che, nei quadri di Bacon, si sforza di essere ciò che non vorremmo essere neppure da morti.

Il colore fagocita la figura e la espelle

Il colore ha ingurgitato la figura e ha poi impedito al corpo di conservare un colore appropriato alla sua corporalità: i colori infatti hanno defecato un colore che mal si addice a un corpo che abbia la pretesa di apparire simile a un corpo.

Così abbiamo… che la figura guastata da quei colori ha a sua volta annientato il colore, contaminandolo col suo guasto: il colore scorre sulla superficie di quei corpi, soffrendo la sensazione di una paccottiglia indistinta.
È la violenza del mondo che lì designa lo strazio di un corpo abbassato a una cosa, ridotta a meno di una cosa qualunque?

Il corpo dipende dalla mancanza di ciò che lo costituisce

Eppure quel corpo non dipende dalla presenza di ciò che esso ci mostra, ma da ciò che ci nasconde lasciandocelo presagire, immaginare: la mancanza di tutto ciò che costituirebbe un corpo ci riempie di immagini proiettate proprio da quella mancanza.

La carne sfracellata dall’impatto del colore

Vi possiamo così vedere: una carne che si sfracella all’impatto del colore, e un colore adeguato a ciò che potrebbe essere espulso dallo stomaco di un cannibale; mescolati insieme dànno quelle figure ingerite dai colori, e quei colori ingeriti dalle figure.

L’orrore della geometria

L’orrore che provoca la figura, maciullata nel proprio dramma interiore, è reso ancora più evidente dal contrasto provocato dall’asettica geometrizzazione dello spazio.

La figura guastata dai colori posta nello spazio geometrico sterilizzato
Francis Bacon, Trittico ispirato all’Orestea di Eschilo, 1981 (litografia)

Lo spazio appare sterilizzato: vive fuori del dramma della figura, non ha nulla che lo accomuni alla terribile orridezza della figura. E uno spazio dismorbato, depurato dai microbi dell’esistente, non può che essere geometrico.

Il ricorso a una organizzazione seriale ordinata, geometricamente razionalizzata, ci rimanda, in ogni composizione di Bacon:

– a una spazialità senza tempo, neutralizzata dalla permanenza di uno spazio governato dal calcolo ordinario, e dalla giusta misura;

Lo spazio chiuso è fisso e atemporale

– a una performance dello spazio chiuso, che vive in sé, a prescindere dal condizionamento temporale dell’esistente.

La fissità dello spazio geometrico è stata concepita per urtare (contrastatamente) contro la figura spregiudicatamente ridotta all’affanno mentale e al contorto malessere psichico.

La solitudine della figura

L’opposizione tra elemento debordante della figura e spazio chiuso nella sua divina essenza geometrica, evoca la solitudine esistenziale. La figura, drammaticamente deformata, vive (esaltata nella propria metamorfosi anatomica, scioccante) ignorando lo spazio in cui si trova a vomitare il proprio avvilimento; e viceversa:

Spazio e figura non si contaminano

lo spazio, geometricamente formulato dai postulati euclidèi, valutabile sulla base della razionalizzazione di un equilibrio strutturale, è mostrato formalmente nella sua concreta impermeabilità: non si lascia contaminare dalla tensione disforme della figura.

Da tale accentramento del contrasto tra figura e spazio (tra contenuto e contenente) si evince:

Lo spazio è denso delle urla dell’assassinio

– nell’infrazione al sentimentalismo emozionale entra persino l’uomo (psichicamente deformato) dall’anatomia ridotta a un’ingestione di se stessa;

– lo spazio è come se si colmasse di urla che gridano all’assassinio;

– perché codesta mostruosità si scontorce, storpiata nel suo sconcio disformamento?

Perché occorre ricorrere a storpiature estreme, che abbiano colto l’esistenza umana in flagrante reato, per rendersi conto che

Henry Miller, Il tempo degli assassini. Mondadori, Milano 1976, p.68

L’Inferno è in ogni cosa, è dovunque si pensi che sia. Se credete di essere all’Inferno, ci siete. E la vita, per l’uomo di adesso, è divenuta un Inferno perenne per la semplice ragione che egli ha perso ogni speranza di conquistarsi il Paradiso. Non crede neppure in un Paradiso da lui creato. Coi suoi processi di pensiero si condanna al profondo inferno freudiano del desiderio soddisfatto.

Deformazione sociale e psichica specchio del mondo
Francis Bacon, Studio di testa umana, 1954

– la deformazione anatomica si sviluppa in nome della distruzione e autodistruzione di un assetto sociale votato al cataclisma psichico;
– l’istantaneità dell’essere angosciato si traduce, allegoricamente, in follia incondizionata: si nutre di sconvolgimenti sociali, di civiltà schiavizzata dal proprio crollo;
– deturpare la superficie è proprio della deformazione; la deformazione entra nello spazio, si tuffa nella superficie, la rompe per vomitarle addosso la materia di cui è fatta: una forma e un colore che sono corpi amorfi, seppelliti (in se stessi);
– alla deformazione viene assegnata la capacità di esplodere nella forma in senso critico e autocritico;
– la deformazione è aspirazione a rivelare ciò che nell’interno non è visibile;

Evocare lo shock per rompere le abitudini percettive
Francis Bacon, Studio di testa umana, 1954

– ma perché Bacon mira, in primis, a provocare lo shock?
Perché lo shock conduce alla rottura delle abitudini percettive e ricettive; ciò che viene mostrato, per mezzo dello shock, è l’impatto violento con la realtà visualizzata.

Perdere il dogma della forma e sprofondare nel vissuto coatto

E la visualizzazione scioccante, in Bacon, implica di per sé che la forma umana non si ponga più in qualità di dogma e precetto edificanti: la sua espressione umana sprofonda nella contorsione di un vissuto coatto;
– la quotidianità (rappresentata dallo spazio cubico entro cui è posta la figura) è la macchina da cui si dipana l’indole patologica emergente dalle sue quotidiane relazioni personali e sociali;

Spazi asettici e corpi contorti come specchio delle mostruosità
del mondo

– in quegli spazi asettici, come gestiti da case di pena, i corpi si mostrano quale specchio delle mostruosità del mondo.

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