Saggio sopra l'espressionismo

dentro al colore dell’Espressionismo

Il colore espressionista ingrassa piccolezze miserande

In quei colori ci sono tonalità che soffocano nella loro limacciosa torbidità la luce sopravvanagloriosa della luce. Quei colori si danno a ingrassar piccolezze miserande che dal fondo del loro livido cromatismo è come se vi trapelasse la voce strangolata dalla desolazione. Georges Rouault dichiara:

Georges Charensol, Georges Rouault. L’Homme et l’Oeuvre in Walter Hess, I problemi della pittura moderna. Garzanti, Milano 1958, p.61

Io sono il silenzioso amico di coloro che soffrono nella pianura deserta. Sono l’edera dell’eterna miseria che si aggrappa al muro lebbroso dietro il quale l’umanità che si ribella cela i suoi vizi e le sue virtù.

Che cosa voleva dire per l’Espressionismo fare arte? Forse affidare le proprie forme alla rappresentazione di un estetismo formale imperturbabile, radicalmente distante dall’esistenza e dai suoi accumuli di scorie? Forse riportare l’arte alla modalità classicista, sostanziata formalmente da un razionalismo edonistico che costringa la forma ad affermare un senso compiuto dall’esaltazione di un Io sempre più individualizzato, idealizzato dagli stereotipi, passivizzato col tenerlo estraneo alle comunissime conflittualità dell’esistente?

Fare arte significa portare a sé gli organi vitali dei demeriti del mondo

No! per l’Espressionismo… portare a sé gli organi vitali dei demeriti del mondo è preferibile alla forma ammaestrata a rappresentare l’esemplarità di una ricercatezza estetica fine a se stessa.

Ecco l’Espressionismo: il colore contro il perbenismo ipocrita e acritico, contro l’equilibrio classico

Conquistare un colore che infastidisca il perbenismo indifferente di un’esistenza contaminata dall’ipocrisia; compromettere l’equilibrio classico della composizione col ridurla in campiture cromatiche che squillino, spaventate nell’urtarsi a vicenda; rappresentare il dissenso dall’accomodamento acritico a una società sconfitta dalle proprie sconfitte.

La coscienza del progetto fallito della società umana

Ecco l’Espressionismo: nasce da un prodotto artistico che ha sentito il profondo desiderio di rendere consapevoli che la società dell’uomo appartiene a un progetto fallito, attraversato dalle malformazioni provocate dalla singolarità di tale fallimento. Bisognava introdurre nel colore lo smarrimento di un’intera generazione, il corpo di una generazione che la guerra ha mangiato.

Il colore oltraggia e condanna l’ambiente infernale dell’esistenza

Bisognava dare al colore lo spazio illimitato entro cui poter condannare all’oltraggio ciò che andava oltraggiato: la guerra, incontrata anche nell’aggressività della coscienza collettiva, che rendeva infernale l’ambiente in cui doveva regolamentare la propria convivenza con la distruzione in atto.

Il colore deve sabotare l’opera pittorica

Bisognava liberare il colore dal mero desiderio di dipingere, occorreva liberarlo dalla colpa di essere nient’altro che colore. Quindi, dare ad esso i requisiti tonali fondamentali per sabotare l’opera pittorica:

-ora con una vampata di colori ustionanti che bruciassero la vista,

-ora con pennellate impetuose, irruenti, brutali, che costringessero a muoversi a tastoni tra le forme per sottrarre l’occhio del fruitore dal vedere ciò che avrebbe potuto aspettarsi di vedere.

Sì, nell’Espressionismo possiamo attingere incubi, scorrere in una materia pastosa senza spiragli di luce, vedere l’inferno ritagliare dei corpi che hanno ancora vita solo perché ci proiettano l’inizio della loro fine.

Il colore agisce sulla forma inarmonica e rappresenta eventi mentali della condizione umana traumatizzata

Il colore non agisce più su una forma armonica bensì inarmonica, cioè su una forma deturpata dagli accidenti di una malattia esistenziale, che pone l’accento su eventi mentali: ciò che vi si rappresenta è una condizione umana da cui prolificano lacerazioni viste attraverso le lenti di una mente traumatizzata.

Il linguaggio materico dell’Espressionismo, folle, ebbro, allegoria della decostruzione

L’arte con l’Espressionismo non ha più nulla a che vedere con l’arte misterica ed esotica del simbolismo, né con quella ornamentale ed esornativa dell’Art Nouveau. Con i pittori della Brücke, l’arte si avventa su se stessa con un linguaggio pittorico spregiudicatamente materico, esplicitamente primitivo, inscrivibile in intonazioni cromatiche eretiche, abbrutite, guastate. Con tocchi smoderati, quasi smaniosi di perdurare in una coscienza ebbra e follemente esaltata, la forma pittorica diviene allegoria di un linguaggio decostruito. Si regge su una struttura rovinata, come innesto in una compagine dissestata o completamente crollata:

Theodor Adorno, Teoria estetica. Einaudi, Torino 1977, p.76

… dell’Espressionismo sopravvivono, come risultati oggettivi, opere che si astengono dalla organizzazione costruttiva. In corrispondenza si ha che non si può riempire di espressione nessuna costruzione, in quanto forma vuota di contenuto umano. Le costruzioni assumono espressione attraverso la freddezza.

Espressionismo senza struttura e quindi senza identità

Nell’Espressionismo non v’è più struttura perché l’arte non crede più, ottimisticamente, all’evoluzione storica, né alla possibilità che l’uomo possa migliorare di generazione in generazione. La mancanza di una struttura equivale alla perdita d’identità, alla morte dell’arte edonistica, al rifiuto di un linguaggio convenzionalmente e passivamente impiegato da tutti, all’esaltazione di una rottura con il linguaggio solipsistico borghese.

La forma destrutturata diventa brutta, l’arte deve usare il Brutto contro il brutto del mondo

La mancanza di struttura, nell’Espressionismo, deriva dall’intenzione di non voler restare in un linguaggio svuotato di contenuti, spettacolarizzato da una forma fredda e sliricizzata. La forma destrutturata si svuota di estetismo e di trascendenza, e perciò diviene brutta. In quanto brutta dà voce a una realtà decentrata, messa al margine, investita dall’isolamento forzato. Si comunica attraverso il Brutto ciò che il mondo ha in sé imbruttito, e svuotato di coscienza etica. Di qui l’Espressionismo dice a se stesso:

Theodor Adorno, Teoria estetica… p.83

L’arte deve far proprio ciò che è bandito come brutto, non più per integrarlo, per mitigarlo o per fargli accettare di esistere ricorrendo all’umorismo, che è più repellente di tutto ciò che è repellente, bensì per denunciare, nel brutto, il mondo, che lo crea e lo riproduce secondo la propria immagine…

La distruzione della figura, come specchio del malessere sociale

La figura viene perciò demolita, su di essa si proiettano i preliminari di un folle vandalismo che razionalizza lo smantellamento della struttura anatomica. Su quei corpi vi si proietta lo svuotamento delle facoltà fisiche, non è più un’immagine, sia pure demolita, di carne, ma è il sostrato epocale della disarmonia svalutata dal male, come specchio fedele di un malessere sociale.

L’anatomia è svuotata e il corpo non sostiene più se stesso

La struttura anatomica dei corpi ha subíto un saccheggio, tutte le ossa sono state orribilmente rimosse. Cosicché il corpo, non potendosi più reggere su se stesso, urta lo sfasciamento inarrestabile della propria carne.

Non l’onnipotenza del Bello, ma la vittoria del dolore e della desolazione, la solitudine del colore

Figure che paiono portarsi addosso il peso di un’esistenza sconciata dalla sopravvivenza d’una carne ripiegata su se stessa. In esse non vi è stata tratteggiata l’onnipotenza del Bello (cioè la fiducia nell’equilibrio, da cui ripartire per la costruzione di una nuova armonia delle forme), ma l’interno del dolore, la discesa in un colore sporcato da un senso di isolamento, da una luce in lutto, illuminata da una oscura percezione del reale. Colore per il quale la sua brillantezza viene attutita, colore colto in solitudine, su cui incalza l’autoderminazione di una tonalità malata, il rapporto perdente con la sofferenza, l’indecorosa mutilazione del corpo e del suo ambiente, la desolazione. Il colore dell’Espressionismo, se avesse la facoltà della parola, ci direbbe (dalla viva voce di Albert Ehrenstein):

Albert Ehrenstein, Tubutsch. Adelphi,  Milano 2000, pp.11-12

Non è la malinconia, l’amarezza dell’autunno, non la fine di un lavoro impegnativo, non il torpore di chi, ottuso, si ridesta da una lunga, grave malattia, proprio non capisco come sono potuto sprofondare in questo stato. Intorno a me, in me, regnano il vuoto, la desolazione, sono svuotato, da che cosa non so. Chi o che cosa abbia suscitato questo orrore indistinto: il grande, anonimo mago, il riflesso di uno specchio, la piuma di uccello caduta, la risata di un bambino, la morte di due mosche – indagare su questo, sì, anche solo voler indagare, è vano e folle come qualsiasi ricerca d’una causa a questo mondo. Altro non vedo se non gli effetti e le conseguenze: che la mia anima ha perso il suo equilibrio, che qualcosa, in essa, è spezzato, infranto, e si dovrà constatare un inaridirsi delle sorgenti interiori.

La ragione di tutto ciò, la ragione della mia rovina, non riesco neanche a figurarmela e, colmo dell’atrocità, non scorgo nulla che in questa mia situazione disperata possa causare il sia pur minimo mutamento. Perché, appunto, il vuoto dentro di me è completo, sistematico per così dire, e si accompagna alla deplorevole mancanza di un qualche elemento di caos. I giorni scivolano via, le settimane, i mesi. No, no! solo i giorni. Non credo vi siano settimane, mesi e anni; sono sempre e soltanto giorni, giorni che si rovesciano l’uno nell’altro, che non riesco a trattenere con qualcosa di sperimentato sulla mia pelle. Vanamente vivo secoli.

fabio d'ambrosio editore
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