Saggio sopra l'espressionismo

la parola poetica gettata nel mondo

La parola dell’Espressionismo è infetta ed eretica

L’Espressionismo è, dunque, per una poesia che si presenti impuzzata come ferita infetta, causata dall’esistente. Non è di conseguenza per parole che provengano da idilli giacenti in fasce.

Contro l’idillio, bucolico e l’ottimismo individualista e petrarchesco

È invece ciò con cui costituisce il bisogno di contraddire l’afflato contemplativo di una scrittura rivolta passivamente al proprio Io, di vituperare l’ottimistica politicizzazione dell’individualismo, dell’amor di sé, dell’autofilia esternati dall’egotismo graziosamente idilliaco, bucolico, petrarchesco, amoroso, eroico. È per parole che non siano né idealiste né sognatrici né illuse, ma fondate sulle ferite aperte del sociale. È per una scrittura emessa dall’incalorimento infernale delle viscere: capace di terrificare la stupidità rappresentativa degli innumerevoli condizionamenti sociali; non incarcerata nel qualunquismo irresponsabile di un ottimismo autopromozionale.

Il linguaggio espressionista viola ogni schema fisso e precostituito

Il linguaggio espressionista è capace di violare e offendere regole fisse e precostituite, con un linguaggio pieno di resistenze eretiche; è capace di indignarsi di fronte a ogni sorta di delitto sociale, di rivoltarsi contro archi trionfali dei granitici assertori di
guerre e carneficine di massa.

Il linguaggio espressionista vive nel mondo e per il mondo

La parola espressionista ci offre un discorso che parla da un mondo che vive. Ogni suo gesto parla da un corpo che parla e che è dal mondo parlato.
A nulla rinuncia la parola espressionista: né alla propria storia, né a sottolineare emozioni che non cessino di esternare l’esperienza vissuta attraverso un colloquio interpersonale con la piaga aperta del sociale. È questa una scelta operativa che agisce sempre in concomitanza con quanto accade nella paradossalità del vissuto. La parola proviene ora da una ricerca archeologica del quotidiano, ora da ciò che il presente dà a spron battuto, e mai travalica ciò che fa parte della vita: le seduzioni di un mondo (esteriorizzato dal suo pluralismo) l’allettano.

Una parola capace di muoversi su molti temi e linguaggi

Nulla le è inaccessibile, ogni incontro con un nuovo
linguaggio si concretizza in una espressività nuova, capace di muoversi su molti temi e su molti linguaggi. Tale parola vive nel mondo e non in chi si rifugia in se stesso per evitare il mondo; non ignora le situazioni vissute dal mondo; non parla da sola ma con il mondo, e con il mondo dice ciò che la vita dice: fosse la vita malata, la parola sarebbe malata; fosse la vita piena di
emozioni, la parola esploderebbe in tante forme espressive quante sarebbero le emozioni che volesse suscitare.

La parola assume il corpo del mondo

La parola assume, come dato di fatto, il
corpo del mondo: vi sono così parole che mostrano un discorso corroso dal morso della fame, straziato dalla criminale stupidità della guerra, addolorato perché il dolore che subisce è il dolore che il mondo subisce.

La grettezza della parola rifiuto della società

Per immaginarsi al vivo l’azione di una parola cosiffatta, immaginatevela gettata nel mondo e ripescata come rifiuto del mondo: ha indosso tutte le conseguenze che le sono derivate nell’esser stata consumata, sfruttata e gettata via; ha sulla pelle escoriazioni provocate nell’esser stata gettata in mezzo a tant’altri rifiuti; ha nella voce la rabbia dell’emarginato, è arrabbiata come
chi abbia avuto coscienza di esser stato trattato come un rifiuto della società.
Questa parola dice al mondo: se tu non fossi quel che sei, io non andrei in mille pezzi per mitragliare da più parti, in più punti, il tuo ignobile sistema.

Parola plurale, caleidoscopica, mutevole come il reale

Così mi faccio in pezzi, mi sfaglio in tanti colori e forme per poter meglio calzare più linguaggi; divento plurale, caleidoscopica, mi muto per poter meglio aderire ai mutamenti del mondo; io comunico il reale, non la mistificazione di esso; io non proietto ciò che accade o ciò che è accaduto, io mostro in diretta ciò che faccio e ciò che accade al momento.
Cadiamo così in un linguaggio che non ha paura di riportare in sé il comportamento psicofisico (intaccato dagli eventi sociali) di ogni singola parola.

Parole che parlano per frammenti

Abbiamo così parole che si comportano parlando come se fossero state tagliate fuori dal discorso: parlano per frammenti, e si dimenano sulla pagina come tanti ritagli che comunicano il proprio disappunto per essere state fatte a pezzi. E per tutte quelle cose da dire, il discorso si rompe in tante parole quante sono le cose da dire.
La parola ride, urla, s’arrabbia, parla attraverso la corporalità della propria sonorità, si rompe, sbatte a terra, minaccia di uccidersi, si uccide, uccide,
consegna il discorso al capriccio degli eventi, è corpo, è gesto, è difficoltà ad intendersi, è segnale, è la lingua di chi non riesce a esprimersi o di chi parla,
ininterrottamente, come se sapesse ch’è destinato a tacere per sempre.

Ad ogni significato una parola, ad ogni parola un significato

Il discorso acquista di conseguenza più significati: ad ogni significato una parola, ad ogni parola un significato che parla di sé come se non fosse stato appena acquisito e fosse perciò tutto ancora da esplorare e da comprendere.
La parola, ch’è chiamata sulla pagina a parlare, è perciò quella che più risponde alla necessità di esprimersi criticamente, dando voce alla contraddizione. La parola è chiamata sulla pagina a rispondere a tutti gli aspetti della vita.

La rabbia della parola imprigionata nelle regole

Come far schiantare la parola dalla rabbia se non inducendola a sentire più da vicino la prigionia entro cui le regole canoniche e espressive l’hanno isolata? Lasciatela soffrire per un po’ entro quella prigione, lasciatela incatenata alle regole, e vedrete che prima o poi risponderà al desiderio di spezzarle, rovesciarle.
Mettetela in condizione di dire nient’altro al di fuori di ciò per cui è stato per essa stabilito che dica; impacchettatela sotto un alone protettivo, che la
mantenga lontana da ogni contaminazione linguistica; formulate per essa rigidi principi di comunicazione, che non escano dalla sfera di una propria estetica letteraria, e la vedrete ribellarsi, attaccare o prendersi in giro… pur di uscire da quel bagno penale all’insegna dell’indifferenza. Sentirà il bisogno di frequentare il desiderio di muoversi nell’ampio spazio del mondo, giocando brutti scherzi all’angusto spazio entro cui le regole l’hanno tenuta prigioniera.

La parola libera va incontro all’ignoto, polverosa e infangata

Finalmente, libera di muoversi in ampi spazi, che non siano più quelli relegati alla frigidità di un contegno letterario, professionale, potrà andare incontro
all’ignoto, potrà liberamente scendere da se stessa per sentire sotto i propri piedi ciò che si prova nel toccare la nuda terra, polverosa o infangata.
Lasciandosi stringere dalla matassa dell’infinito: viaggerà in forme informi, ascolterà il balbettío di cose che ancora non sono, parlerà genuinamente con parole che iniziano a prendere forma dal magma linguistico di un inizio.

La poesia sonora Dada, la poesia transmentale e la glossolalia del Cubofuturismo russo: grumi sonori alla ricerca di una forma

È così che la poesia sonora dadaista, ad esempio (o la poesia transmentale e la glossolalia del Cubofuturismo russo), si rifà all’infanzia della vita, cioè al tempo in cui non v’erano ancora parole bell’e fatte, ma grumi di
suoni che lottavano tra loro per prendere forma contro quella sorta di mutismo materico entro cui si dibattevano, come un agglomerato informe,
suoni amorfi e confusi.

Dada: cambiare il linguaggio per un futuro migliore

Attraverso la poesia sonora il Dadaismo ci dice: occorre cambiare il nostro linguaggio. Se il linguaggio che abbiamo ereditato ci ha consentito solo di ottenere distruzioni e rovine (occorre tener presente che siamo in piena guerra mondiale), allora vuol dire che qualcosa, nel pensiero dell’uomo, non ha funzionato. Dunque, occorre ricominciare da zero, nella speranza che
(tenendo lontana la parola da ogni inflessione di menzogna) si arrivi a ottenere un linguaggio riformulato da nuove parole come appena nate, per la  costruzione di un futuro migliore del presente.

La parola dell’uomo è di per sé menzognera

Il fatto stesso che la parola sia in bocca all’uomo è già segno di guasto e di degenerazione. Se la parola (si pensi all’Illuminismo) costituiva il punto di partenza con cui istituire un ordine universale (enciclopedico), destinando ad ogni cosa il suo giusto nome, per il Dadaismo è l’atto stesso del mentitore.

L’inganno, l’impostura, la cialtroneria costituiscono l’elemento intrinseco di una società umana proiettata, per il fabbisogno dei propri interessi, sull’ipocrisia e l’artifizio dell’inganno.

Tristan Tzara, Dadà manifesto sull’amore debole e l’amore amaro, in Manifesti del Dadaismo e Lampisterie, Einaudi, Torino 1975, p.23

Dirà Tristan Tzara:

La bugia circola -saluta il signor Opportunismo e la signora Comodità…

Il dubbio, il rifuto dell’assoluto e la ricerca dell’altro da sé

Ragion per cui, il linguaggio che addosso ti sciorina tanti aspetti del reale, non cura l’assoluto né pretende che l’assoluto entri in sé, ma segue gli innumerevoli orifizi di cui l’esistenza è fatta, s’addentra in essi per vedervi le cose da diverse angolazioni, per decodificare ciò che normalmente la quotidianità offre attraverso la sua monotonia. Per dirla con Cioran:

Nessuno può trovare un assoluto al di fuori di sé.

L’assoluto è per chi basta a se stesso

Ciò vuol dire, che l’idea dell’assoluto può nascere solo in chi vede in se stesso l’unica risorsa della propria vita; in chi pensa che il mondo inizi e finisca in sé; in chi è sicuro di bastare a se stesso; in chi non ha il minimo dubbio che l’eliminare i dubbi da se stesso sia la miglior soluzione per giungere a trovarsi faccia a faccia con l’assoluto.

Il rifiuto della saggezza che insegna a evitare la sofferenza

Ma chi va al di fuori di sé alla ricerca dell’altro, chi si spinge oltre se stesso per non ritardare all’appuntamento con ciò che vive fuori di sé, chi basa la
propria vita sui dubbi perché in sé non prevalgano certezze che blocchino la sua crescita e la sete febbrile nel ricercare sempre l’altro da sé, chi disfà e rifà continuamente se stesso (perché ciò che è non gli basta), chi si dà a sbloccare la fissità dei propri occhi perché il proprio sguardo si posi dappertutto (sul pluralismo della vita), rifiuta l’assoluto e ciò che da esso potrebbe derivare: cioè la saggezza.
La saggezza non soffre nel vedere l’altro soffrire. Saggiamente, pacata e tranquilla, ci dispensa saggi consigli per divenire altrettanto saggi per non soffrire.

Un’arte saggia seguirebbe i canoni del Bello

Per questo potrei affermare che l’Espressionismo detesta la saggezza, anzi la ripudia (se fosse un’Arte saggia, non si esprimerebbe secondo i classici canoni del Bello?)…

Emil Cioran, Al culmine della disperazione. Adelphi, Milano 1998, pp.105-106

l’Espressionismo insomma direbbe con Cioran:

Detesto i saggi per il loro spirito di compromesso, per la loro pavidità e il loro riserbo. Amo infinitamente di più le passioni divoranti e fatali rispetto all’immutevole stato d’animo del saggio, che lo rende insensibile al piacere come al dolore. Costui ignora l’elemento tragico
della passione, la paura della morte, così come non conosce lo slancio e il rischio, l’eroismo barbaro, grottesco e sublime. La sua anima non vibra, resta di ghiaccio. Così si esprime per massime e dà consigli. La sua aria superiore e trascendente non gli consente la tragedia o l’esaltazione eroica. (…) L’esistenza del saggio è vuota e sterile, priva com’è di antinomie, di disperazione e della tragicità delle grandi passioni. Infinitamente più feconde sono le esistenze divorate senza tregua da contraddizioni insormontabili. La rassegnazione del saggio sorge da un vuoto, non da un fuoco interiore.

fabio d'ambrosio editore
via enrico cialdini, 74 - 20161 milano | p.iva 09349370156
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