Saggio sopra l'espressionismo

il tocco nell’Espressionismo di Dante

Il tocco vivifica la materia pittorica

La pennellata espressionista esige il tocco, deve cioè farsi strumento: incidere, premere, graffiare, lasciare sulla superficie l’impronta, particolareggiatamente concreta, come su un corpo che abbia subìto sulla propria pelle un marchio a fuoco. Il tocco rende viva la materia pittorica, la consegna a una forza segnica, impestata di materismo, quasi a tirar fuori l’espressione di un dolore fisico.

Henri Focillon, Vita delle forme – Elogio della mano. Einaudi, Torino 1990, p.63

Il tocco, ci dice Focillon «è attimo -quello in cui l’utensile desta la forma nella materia». Cosicché l’espressionista cosa ottiene col tocco se non il destarsi d’una carne (d’una materia fattasi carne) dal colore?

Il colore vuol farsi toccare

Il tocco espressionista ottiene carne dal colore, il colore diviene matericamente tattile, vuol farsi toccare con gli occhi, riproduce l’atmosfera carnale di un colore che preme su di sé l’impronta impulsiva e gestuale del proprio corpo. Il tocco ci ricorda:

Henri Focillon, Vita delle forme… p.64

un valore, un tono non dipendono unicamente dalle proprietà e dai rapporti degli elementi che li compongono, ma anche dal modo come son posti, cioè “toccati”.

È sotto il tocco che il colore espressionista s’accende, s’anima, gestualizza, modella un gesto che ha le sue pieghe e le sue lacerazioni, materializza insomma tutto il magma convulsivo di una lava eruttata da un colore che assurge a tramutarsi in carne.

Il tocco dà forma e energia al colore

È il tocco che dà tono ai rapporti cromatici. Il tocco dà forma al colore, e la pennellata diviene materia organica. Col tocco s’imprime nel colore la forma di un gesto, e la forma di quel gesto, imprimendosi nel colore, ci dà un effetto cromatico come dettato dall’impulso di un corpo che vuole con forza e genuinamente significare. Col tocco si impronta un effetto cromatico consapevole di voler marcare nel colore non solo la forma di un gesto caricato di energica tensione, ma anche improntare sulla pelle della superficie del quadro una lacerazione, un’energheia performatica:

Il colore è steso tramite la performance del gesto energico e corporeo

il colore espressionista infatti è dato tramite la performance di un gesto (tocco) elevato al massimo grado della sua corporeità. Il tocco espressionista è energico e temerario nell’improntare un colore che abbia un “peso”, una spessezza condensata di corporeità, un ímpeto di commozione. Abbiamo così un colore addensato di contorcimenti, scatti, trabalzi, urti. La forza impulsiva cromatica si fa spedita nel tracciare il torbido, svelta nell’accelerare un effetto cromatico violento e sgarbato. Si ha il tocco espressionista da un colore pestato, percosso, spiaccicato. Cosicché il tocco è anche

Henri Focillon, Vita delle forme… p.64

… struttura. Sovrappone a quella dell’essere, dell’oggetto la sua propria, la sua forma, che non è soltanto valore e colore, ma (seppure in proporzioni infime) peso, densità, movimento.

Il tocco suscita una sensazione tattile

Nel tocco espressionista non v’è riferimento alla forma strutturata in uno spazio che la materializzi tattilmente nella sua fissità. La forma non risulta scattata in una posa piena, dall’impalcatura geometrica congeniale a farla apparire visivamente spazializzata, attivata tridimensionalmente da uno spazio prospettico che la mostri fisicamente estesa entro il suo limitato campo, definito e circoscritto in tutta la sua delimitata estensibilità. Nell’Espressionismo la forma si avvale del colore e del suo gestualismo materico per farsi avvertire tattilmente. La forma è contenuta nel colore e non in uno spazio geometricamente esteso alle sue scorciatoie prospettiche. La forma vive impastata nel gesto materico del colore, è il colore stesso che si fa gesto vibrando percettivamente sulla superficie, eccitando tattilmente l’occhio del fruitore. Ma perché l’Espressionismo vuole che il colore susciti, nella percezione retinica, una sensazione tattile? perché vuole col colore restituire visivamente un effetto tattile? perché vuole che il colore passi (simultaneamente) sia dalla percezione dell’occhio sia dalla percezione del tatto, provocando una sensazione tattile alla percezione retinica dell’occhio?

Voltaire, Dizionario filosofico. Mondadori, Milano 1974, p.599

Perché «niente è nel nostro intelletto che non sia stato prima nei sensi».

L’intelletto percepisce attraverso i sensi

Se il colore espressionista vuole sollecitare tattilmente l’occhio, è perché la percettività tattile lo inciti a viaggiare intorno alla forma toccandola, sentendosela fisicamente negli occhi. Non è forse attraverso i sensi che il corpo si apre a formulare idee?

Infatti…

Noi cominciamo col sentimento
Voltaire, Dizionario filosofico… pp.599-600

tutte le facoltà del mondo non impediranno mai ai filosofi di vedere che noi cominciamo col sentimento, e che la nostra memoria non è se non una sensazione che sussiste. Un uomo che nascesse privo dei suoi cinque sensi sarebbe privo di qualunque idea, se potesse vivere. Le nozioni così dette metafisiche ci vengono anch’esse dai sensi: come potremmo misurare un cerchio o un triangolo, se non avessimo mai visto o toccato cerchi o triangoli? Come farsi un’idea imperfetta dell’infinito, se non immaginando di allontanare indefinitamente certi limiti? E come toglier dei limiti, senza averne mai visti o sentiti? La sensazione circonda tutte le nostre facoltà, disse un gran filosofo.

La forma espressionista è aplastica ma fisica e tangibile

E come avere un’idea precisa di ciò che il colore espressionista provoca sensisticamente, se esso non si fa vedere tattilmente dall’occhio? Anche se la forma espressionista, che il colore compone nella sua gestualità materica, è aplastica, cioè priva di plasticismo assonometrico e di spazialità prospettica, si rende comunque fortemente fisica e tangibile all’occhio, si dà come modellata dall’argilla primièra, suggerendo alla percezione retinica un modellato formale adamitico, e quindi amalgamato a un segno rudimentale e rozzo.

Il colore si rende tangibile

Il colore insomma tende a farsi toccare. Non può che rendersi visivamente tangibile.

Henri Focillon, Vita delle forme… p.110

Non è forse con «l’azione della mano» che si «definisce il vuoto dello spazio e il pieno delle cose che lo occupano»? Il colore espressionista si mostra in tutta la sua magmaticità materica e formale, facendoci così individuare in sé forma e spazialità, superficie e volume, profondità e dimensioni, come percepiti da un occhio che abbia tastato tutto intorno a sé per scoprire come tutto intorno a sé vive fisicamente nel proprio spazio.

Henri Focillon, Vita delle forme… p.110

Superficie, volume, densità, peso non sono fenomeni ottici.

Il colore espressionista, per farsi matericamente e fisicamente vedere, deve rendersi visibile tattilmente. L’occhio lo deve percepire come se in esso vi fosse una mano a restituirgli, di ciò che ha visto, una sensazione tattile, poiché forma e spazio

Henri Focillon, Vita delle forme… p.110

l’uomo li riconosce innanzitutto tra le dita, sul palmo della mano.

Entri dunque una mano nella percezione visiva, a recepire la tattilità di ciò che si rende tattilmente visivo. Diventi l’occhio una mano dotata di tatto e il colore si faccia tattile, diventi una forma in grado di portare l’occhio a sentirla tattilmente, poiché

Henri Focillon, Vita delle forme… p.64

Lo spazio si misura con la mano e il passo lo spazio non si misura con lo sguardo, ma con la mano e il passo. Il tatto colma la natura di forze misteriose. Se il tatto non esistesse, infatti, la natura apparirebbe simile ai deliziosi paesaggi della camera oscura, lievi, piatti e chimerici.

Il tocco mosso dal divenire

Il tocco (che è proprio di un gesto reale e tangibile) è di per sé un gesto che presuppone l’intenzione di togliere di dosso all’opera d’arte la permanenza astorica della classicità (nell’opera classica non vi sono elementi estetici mossi dall’interpretazione del divenire del presente, ma un presente astorico, congelato in una staticità statuaria, significativamente elaborata secondo una concettualizzazione dell’eternità), per attraversare non l’immortalità della forma ma la forma in divenire, fattasi nel crescente divenire del presente.

Il tocco corrisponde al cadúco

Il tocco ci modella l’erosione e il guasto del presente. Sotto la sua marcata gestualità, il suo assunto estetico corrisponde al cadúco, alla deteriorabilità, al putrescibile. Se

Georg Simmel, Rembrandt. SE, Milano 1991, p.22

il ritratto classico ci ferma nell’attimo del suo presente, ma quest’attimo non è un punto di una sequenza che va in un senso e nell’altro, bensì definisce l’idea atemporale posta al di là di tale sequenza, la forma metastorica dell’esistenza psicofisica,

Ritratto classico e ritratto espressionista

il ritratto espressionista si muove invece nella dissoluzione della sua stessa struttura anatomica, è l’allegoria di un pezzo del presente già passato nell’attimo successivo, quale umana caducità su cui l’esistenza vi ha lasciato la sua impronta, il suo sotterraneo (fisico e psichico) scorrimento, regolato dal continuo fluire di ora e di ciò che sarà di conseguenza.

Rembrandt van Rijin, Autoritratto con berretto a bocca aperta, 1630 (incisione), Rijksmuseum, Amsterdam

Se il divenire del presente nel ritratto classico è inattivo e rimane chiuso in una forma infoderata in un’espressione senza presente e senza energia in divenire, il ritratto espressionista cammina tutt’intorno al suo farsi ora, qui, in questa precisa circostanza storica, concentrando su di sé anche le aporìe di ciò che è nel tempo avvenuto e di ciò che sarà nel tempo avvenire.

Il tocco in Rembrandt

Col tocco -con cui si decompone la materia pittorica- si discevera l’unità statica della forma, si lacera la struttura spaziale composta in un saldo equilibrio. Il tocco lo ritroviamo anche in Rembrandt:

Georg Simmel, Rembrandt… p.23

Mirabilmente, Rembrandt registra nella statica unicità della scena tutto il movimento vitale che ha condotto ad essa, il ritmo per così dire formale, la disposizione d’animo, la totalità del destino del suo processo vitale.

Rembrandt von Rijin, Ritratto di donna di 83 anni, 1634, Londra, National Gallery

Non è un caso che il tocco, misurato sui suoi ritratti, sia stato condotto a catturare nel colore l’esperienza esistenziale del corpo. Corpo che trascolora nell’essere ciò che è ora: un corpo in continuo divenire.

Corpo che è ora, per il «processo vitale»: non può obbedire al classicismo imperturbabile

Corpo che è ciò che è a causa del suo «processo vitale», secondo cui l’effetto cromatico non è più portato ad esprimersi metaforicamente, ma concretamente: riscuote dal vivo il processo del divenire, che avviene nel processo fisico, concreto della temporalità. E per ciò stesso la forma estetica del ritratto non può obbedire alla configurazione di una classicità, fedele al concetto di imperturbabilità, né a una forma ritrattistica basata sullo psicologismo.

Il ritratto psicologico è forma irrigidita

Infatti, per dirla con Georg Simmel, «non si tratta (…) di psicologia dipinta».

Se

Georg Simmel, Rembrandt… p.23

l’orientamento psicologico opera sempre una singolarizzazione e dunque un certo irrigidimento, che si sottrae alla totalità della vita presente in ogni attimo, che invece fluisce continuamente,

La forma fluida coglie il processo vitale

allora occorre afferrare al volo le sensazioni che ci vengono trasmesse dal fluire del «processo vitale» e fare in modo che esse non si raggelino in una forma che abbia definitivamente smesso di fermentare sotto l’attenzione dei nostri sensi. Stando così le cose, dovremmo forse ammettere che la ritrattistica di Rembrandt non abbia fatto altro che anticipare le osservazioni di Hermann Bahr:

Hermann Bahr, Il superamento del naturalismo. SE, Milano 1994, pp.42, 45, 52

occorre una nuova psicologia. (…) La psicologia deve procedere con un nuovo metodo, perché la trasformazione delle scienze naturali ha cambiato dovunque tutti i metodi. (…) Ciò che era non è più, e ciò che è non è stato mai prima. (…) Gli eterni sentimenti degli uomini ci appaiono in nuove forme che passeranno anch’esse e saranno a loro volta menzogna. (…) Tutta questa richiesta di una nuova psicologia che si leva a gran voce mira a realizzare un nuovo metodo di oggettivare l’inconscio dei nervi e dei sensi prima che raggiunga l’intelletto.

E ciò vale anche per quel tipo di pittura intrisa di Espressionismo, che voglia muoversi (alla ricerca della forma adeguata) sulle sensazioni vive che affiorano dai nervi. Se tali sensazioni hanno già raggiunto l’intelletto, ecco allora l’intelletto catalogarle, e riporle nei cassetti della propria memoria per lasciarvele raffrenate e allucchettate.

La vecchia psicologia coglie solo l’effetto dei sentimenti

Occorre dunque beccare una sensazione quando ancora duole sui nervi; sentirsela fluire addosso, tremare, agitarsi; e sentirsela battere sui nervi vuol dire lavorarla a caldo… prima che si raffreddi e raggiunga l’intelletto. Ed era proprio questo che non aveva fatto la vecchia psicologia (come la vecchia pittura):

Hermann Bahr, Il superamento… pp.47-48

La vecchia psicologia trova sempre solo l’ultimo effetto dei sentimenti, quell’espressione che la coscienza alla fine formula per essi e la memoria conserva.

La nuova psicologia cerca la verità del sentimento

La nuova cercherà invece i suoi primi elementi, gli inizi nelle tenebre dell’anima, prima che essi vengano fuori alla chiara luce del giorno, tutto quel lungo, complicato, confuso processo dei sentimenti che getta alla fine i fatti complessi al di là della soglia della coscienza in forma di semplici conclusioni.

La nuova psicologia come la nuova pittura

Ve lo farò capire con un paragone: pensate solo a come si è trasformata la pittura, a come essa prima affrontava e a come oggi essa affronta i problemi dei colori. Prendete una tavola azzurra, ponetela in un raggio di sole che irrompe dalla finestra e quindi fatela ritrarre due volte, prima da un pittore della vecchia scuola, poi da uno di quella più recente. Quello della vecchia scuola, non appena sarà tornato in sé dal turbamento causatogli dal primo sguardo, constaterà il risultato della sua raccolta, le percezioni che la coscienza ha acquisito: che la tavola è azzurra e che il profluvio di sole è giallo; quindi andrà al cavalletto e dipingerà l’azzurro, dipingerà il giallo e dipingerà con fedeltà zelante fintanto che sulla tela non otterrà proprio quell’azzurro e quel giallo come l’effetto della tavola e del sole nella coscienza.

Dipingere prima che la coscienza abbia modellato la percezione

Il pittore della nuova scuola procederà in maniera diversa: invece di attendere che l’intelletto capace di astrarre si sia ripreso, prima ancora di emettere il verdetto in cui si dice che vi sono una tavola azzurra e un raggio giallo, ancor prima di riaversi e di raccogliersi, coglierà a volo, piuttosto, proprio il turbamento causato dal primo sguardo, prima che esso venga modellato e plasmato dalla coscienza. Andrà quindi al cavalletto per dipingere proprio questa caccia furiosa di ombra e di luce e di tutti i colori mischiati insieme disordinatamente in vortici impetuosi, fintanto che non realizzerà sulla tela proprio quello stesso tumulto e quello stesso vortice che infine hanno causato l’effetto azzurro e giallo della tavola e del raggio nella sua coscienza. Proprio come i due pittori, si distinguono anche i due psicologi. La vecchia psicologia ha disegnato a memoria i risultati dei sentimenti com’essi si esprimono alla fine nella coscienza; quella nuova invece disegna la preparazione dei sentimenti prima che essi siano penetrati nella coscienza. La vecchia psicologia ha colto i sentimenti dopo che essi si sono stabiliti nella condizione ideale, come vengono serbati dal ricordo; la nuova psicologia raccoglierà i sentimenti nella condizione sensoriale prima che essi si siano definitivamente impressi.


La psicologia viene trasferita dall’intelletto ai nervi

La psicologia viene trasferita dall’intelletto ai nervi – questo è il punto. La vecchia psicologia, che non ha mai smesso di fare ricerche sulla coscienza, assume solo un numero minore di sentimenti, e solo dopo averli compressi, cancellati, alterati. Impazziremmo se venissero raccontati tutti insieme allo spirito gli innumerevoli messaggi che con questo fragoroso ímpeto il mondo circostante incessantemente martella sui sensi, sui nervi. (…) Pertanto la nuova psicologia, che vuole la verità del sentimento, ricercherà il sentimento nelle sensazioni nervose, proprio come la nuova pittura, che vuole la verità dei colori, ricercherà i colori negli occhi, mentre tutta la vecchia arte si chiudeva nella coscienza che porta in ogni cosa la menzogna.


Il tocco coglie la complessità del divenire

È col tocco che si coglie il vigore e la complessità delle cose che sono in divenire. È il tocco che si esprime con un linguaggio conseguente a sommovimenti emotivi, tirando fuori persino l’inconscio e il suo ímpeto opaco di luce sotterranea, e il nervosismo provocato dal contatto diretto coi nervi.

Il tocco spinge alla ricerca di un colore insolito non dottrinale

Il tocco propugna l’irrazionalità impulsiva e propulsiva del gesto spontaneo, induce alla ricerca di un colore insolito (contro il vezzo della stravaganza irrazionale fine a se stessa), lungi da tonalità dottrinali. Il tocco si muove nel colore come una forma di protesta, febbrile e antipedantesca; toglie dal colore l’immobilismo del sognante, e, divaricando l’azione antiaccademica, dà colori vivi e dinamici, sordi e ciechi, feroci e ripugnanti.

Il tocco ha stile corporeo, nasce dal tragico e appartiene al transeunte

Il tocco è impegnato nella corruzione, nell’alterabile, nell’infezione, nel marcescibile, nel transeunte, poiché il suo stile è corporeo ed è sollecitato dai sensi a vivere negli abusi di un materiale cromatico orgiastico. Il tocco dà sempre un colore che sembra nascere dalla tensione allucinata del tragico: un colore condensato di lacerazioni, che si fan vedere come eresie nei riguardi del classico e dell’accademico. Dal tocco tutto appare normale nella sua anormalità: il colore è nervoso e appassionato; l’ebbrezza del livido illividisce; la forma pare esposta a tutti i rischi di un vissuto còlto in flagrante da un colore incrinato da ciò che il mondo passa; ed è pittura che ti lascia l’amaro in bocca, libera di andare contro ogni equilibrato classicismo fine a se stesso.

Contro l’arte classica immutabile

Ma contro quale forma classicista agisce il tocco? Ecco: è contro quella forma che abbia assunto per il proprio farsi, un’estetica che si neutralizza nella idolatria di una forma visibilmente razionalizzata dall’egemonia del canone assoluto. E ciò perché la regolarità classica non è idonea ad approdare alla realtà del proprio tempo.

La regolarità classica non è coeva al proprio tempo

Essa s’accentra su se stessa con canoni e consuetudini che si tengono nettamente distanti dal pluralismo dell’esistente, soggiace agli schemi, snatura la natura con un concetto di forma artificiosamente sublimata, che non ha nulla di reale in sé, né la sistematicità dei mutamenti storici, né il decadimento legittimato dallo scorrere del tempo, né l’opera di corrosione che avviene alle intemperie del presente. L’arte classica non si colloca in nessun tempo, essa si limita a prendere posizione in se stessa, il suo modello è (universalizzato) se stessa, la sua forma antica se la trascina anche in un mondo nuovo, è sempre portata a realizzare, esteticamente, ciò che è stata.

La forma classica guarda sempre al passato

La sua forma resta invariata e invalicabile: non intende raggiungere l’uomo moderno con una forma rinnovata; vive in una perenne e immutabile regressione al passato, non mira a raggiungere nessuna evoluzione. La sua forma è, espressamente, ciò che è stata e sempre sarà. Col tocco il colore viene mantrugiato, tasteggiato, picchiato. E nell’andar dentro a un tale colore ci si accorge che esso inveisce contro se stesso con l’invelocimento della corruzione, che personifica le macerie corporali con tonalità cromatiche rese sospette da un mondo caduto boccone su se stesso. Sotto il tocco espressionista, i colori paiono trafitti da colori che il corpo sente dentro. Un corpo disfatto da colori disfatti… apparirà scosso da toni cromatici disfatti.

La pittura espressionista in qualsiasi periodo infastidisce l’occhio

La pittura espressionista, a qualsiasi periodo storico appartenga, ha sempre elaborato effetti cromatici crivellati da asprezze e acidità, fatte non per dilettare l’occhio ma per infastidirlo. Ma v’è anche una scrittura in cui il tocco sia stato espresso? Se esiste… di che materia verbale è fatta?

La scrittura del tocco è ncessariamente dura e aspra

Sicuramente non v’è tocco nella scrittura se le parole che la compongono si pronunciano con tonalità calde e dilettevoli, leziosamente confortanti, melate e laudative, carezzevoli e sdolcinate.

L’Inferno di Dante: linguaggio metifico e appestante

Una scrittura che abbia subíto il tocco, che sia stata scritta per suscitare sensazioni tattili, è fatta di parole dalle tonalità sonore dure, brutali, aspre, equivoche, penetranti, corrosive, e suonano sinistramente come uscite dalle viscere di un vulcano in eruzione, o dalla triste e infausta sproporzione di un luogo tartàreo. Si pensi, ad esempio, all’Inferno di Dante le

Arnaldo Momigliano, Commento alla Divina Commedia in Dante Alighieri, Divina Commedia. Sansoni, Firenze 1947, p.48

cui visioni (…) danno un’impressione simile, di ribrezzo, di orrore, di spavento: la selva animata, gli indovini stravolti, gli inceneriti e gli incorporati coi serpi, gli idropici, i lebbrosi, gli idrofobi mantengono la fantasia del lettore in una sfera scura e innaturale.

Eccoci in un linguaggio dalle sonorità mefitiche e appestanti, come carni che son fuori dall’olezzo della bellezza e dalla rettitudine della luce. Se

Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana (vol.I), Napoli 1929, p.217

l’Inferno è il regno della carne, che scende in costante regresso sino a Lucifero

Elémire Zolla, Le meraviglie della natura. Introduzione all’alchimia, Bompiani, Milano 1975, p.277

e «Lucifero con la gola serrata» è «sequestrato nell’immondezzaio» allora l’Inferno non può che dar vita a un paesaggio scellerato che, in quanto tale, avrebbe bisogno per essere descritto di parole specificatamente impiombate di irriverenze, atte più a gridare come un corpo, a cui sia stato strappato uno spicchio di carne, che a parlare con sonorità carezzevoli e suadenti. Un linguaggio incapestrato dalla carne non può che rotolarsi tra le ignominie… e le parole chiamate a esprimerlo non saranno mai in delizie: parole che, subendo lacerazioni senza guarigioni possibili, picchieranno il linguaggio con sonorità colorìfiche violente e lo attanaglieranno nello stagno, sopito nella propria acqua sporca.

Il linguaggio luciferino e grigio dell’Inferno

Un linguaggio che si muova nell’Inferno (che ci descriva l’Inferno) non può che essere ìnfero e luciferino:

Elémire Zolla, Le meraviglie della natura… p.278

l’adoratore del fuoco non può che amare infatti i bitumi incendiari più delle acque diafane e lunari, e ai loro murmuri e chiocciolii per forza preferisce scoppi e stridori. I cieli delle sue contrade non gli può spiacere che incombano velati da grigi nugoli densi di zolfi e ammoniache, piuttosto che cerulei e percorsi da cirri.

Come elaborare il sostrato corporeo ìnfero se non con parole biliose, con un linguaggio che sembri uscito dal vomicamento della terra, dalle sue profondità e abissi, in cui sia possibile estorcere un magma verbale bituminato, grottesco, eccentrico, impuro, brutale? Nell’Inferno dantesco la parola ha coscienza del mondo terreno a cui appartiene: e dunque è testimone dell’esistenza corrotta degli umani.

Linguaggio corrotto per una materia corrotta

Il mondo sformato dalla sua malaugurata follia è tutto quanto prende vita nell’Inferno. Per esprimerlo occorre un linguaggio lirico pieno d’impicci: parole proporzionate al ventre della terra, capaci di attaccarci addosso… ora il sentore della caducità

Paradiso, canto VII, 124/127

Tu dici: Io veggio l’acqua, io veggio il fuoco,
L’aere, la terra e tutte lor misture
Venire a corruzione e durar poco:
E queste cose pur fur creature.

… ora la carne che pecca, di schiatta mostruosa, confitta nello strazio di una umanità deformata dalla propria malvagità. L’Inferno apre il crocicchio del mondo: qui si danno convegno i vizi e le virtù, la spiritualità e la carnalità, la sublimità e l’abiezione, il pianto e il ghigno e lo sberleffo, stretti in un groviglio tenebroso e tragico.

L’Inferno: depravazione, sghignazzo e minchionatura con linguaggio lazzo e sentenzia

«Mondo senza fine amaro» è l’Inferno, un sabba presenziato da deboscia e depravazione, da dissolutezze e abusi, da intemperanze; una tregenda di dèmoni arcifanfani, che ben s’addicono alla concupiscenza, le cui tortuose movenze contrastano la spiritualità con un panorama corporeo orrendo, turpe, difforme; un convegno di sommità e inferiorità, di elevato e di ínfimo, saporoso e mordente come sghignazzo scombuiato a minchionatura maligna e burlevole. Qui il linguaggio ìnfero è parodía, irrisione, lazzo, dileggio, burletta: e sberteggia, proverbia, punge, corbella, sentenzia. Ma come mai il linguaggio lirico Dante lo ha intagliato rozzamente? perché le parole adoperate nell’Inferno… paiono uscite da budella di diamante? perché i suoi versi sono sia di basso metallo sia di zecchino oro coniati? Perché

Benedetto Croce, Breviario di estetica. Laterza, Bari 1974, p.53

la fantasia artistica è sempre corporea, ma non è obesa, sempre vestita di sé medesima e non mai carica di altro od “ornata”.

Il linguaggio lirico ìnfero si sporca di tutto

Un linguaggio lirico ìnfero non può insomma esprimersi con una verbosità àulica, che guardi verso il basso dall’alto del suo Olimpo. Stare nel basso vuol dire sporcarsi di tutto, perciò

Benedetto Croce, Breviario di estetica… pp.48-50

che il linguaggio venga concepito in tutta la sua estensione (senza arbitrariamente restringerlo al cosiddetto linguaggio articolato ed arbitrariamente escluderne il tonico, il mimico, il grafico), e in tutta la sua intensione, cioè preso nella sua realtà che è l’atto stesso del parlare (senza falsificarlo nelle astrazioni delle grammatiche e dei vocabolari, e senza immaginare stoltamente che l’uomo parli col vocabolario e con la grammatica).

L’uomo parla come il poeta perché esprime impressioni

L’uomo parla a ogni istante come il poeta, perché come il poeta esprime le sue impressioni e i suoi sentimenti nella forma che si dice di conversazione o familiare, e che non è separata per nessun abisso dalle altre forme che si dicono prosastiche, prosastico-poetiche, narrative, epiche, dialogate, drammatiche, liriche, meliche, cantate, e via enumerando.

La poesia non è il linguaggio degli dèi ma il linguaggio degli uomini

E se all’uomo in genere non dispiacerà di esser considerato poeta e sempre poeta (come esso è, in forza della sua umanità), al poeta non deve dispiacere di venir congiunto alla comune umanità, perché solo questa congiunzione spiega il potere che la poesia, intesa in senso angusto e augusto, ha su tutti gli animi umani. Se la poesia fosse una lingua a parte, un «linguaggio degli dèi», gli uomini non la intenderebbero…

Così per Dante diviene importante dare con la parola il pane colla balestra, cioè… fare che il benefizio sia di disgusto a chi lo riceve. La parola ne l’Inferno si dimostra capace di materializzarsi abbruciata come un eretico. Abbranca l’uomo con tutta la sua iniquità e lo restituisce con tutto il suo corpo di deità fangosa che lo affligge.

La parola rozza, plebea, molteplice in Dante come in Sade ha violenza metonimica

In Dante, la parola rozza, plebea ha coscienza della propria forza: possiede in sé un valore semantico indiavolato cioè trasgressivo, e traccia la via a un linguaggio composto, molteplice.

Roland Barthes, Sade, Fourier, Loyola. La scrittura come eccesso. Einaudi, Torino 1977, p.22

E la forza prometeica di tale linguaggio, sviscerato e rude, congegna una forma espressiva pregna di «violenza metonimica» (che è quanto accade -come afferma Barthes- in Sade, altro fautore di una scrittura altamente dissacrante e polisemica). E che cosa fa la «violenza metonimica» all’interno di un linguaggio espressivo? Ecco:

Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana. (vol. I) Morano… p.215

giustappone in uno stesso sintagma frammenti eterogenei, appartenenti a sfere di linguaggio ordinariamente separate dal tabù socio-morale.

Dante, col suo linguaggio è «pietoso, sdegnoso, gentile, crudele, sarcastico, vendicativo, feroce», ed è «così ingegnoso nelle sue vendette, così eloquente nelle sue invettive».

Roland Barthes, Sade, Fourier, Loyola… pp.22-23

Di conseguenza la testualità del suo poema ci rimanda alla scrittura di Sade: «ciò che il tal modo viene scosso» nella scrittura di Sade come in quella di Dante

Contaminazione criminale della poesia contestatrice

sono evidentemente, in maniera molto classica, i feticci sociali, re, ministri, ecclesiastici, ecc., ma è anche il linguaggio, le classi tradizionali di scrittura: la contaminazione criminale tocca tutti gli stili di discorso: il narrativo, il lirico, il morale, la massima, il topos mitologico. Cominciamo a sapere che le trasgressioni del linguaggio possiedono un potere di offesa almeno altrettanto forte quanto le trasgressioni morali, e che la «poesia», che è il linguaggio stesso delle trasgressioni del linguaggio, è in tal modo sempre contestatrice.

Il linguaggio espressionista del I canto de l’Inferno

Siamo già, nel I canto de l’Inferno, in luogo di un linguaggio poetico trivialmente espressionista:

Aggettivi come tocchi di pennello colorano il linguaggio

la plètora degli aggettivi, che ossessivamente descrivono la «selva» (oscura, selvaggia, aspra, forte, amara), è già di per sé Espressionismo; gli aggettivi fungono infatti da tocco pittorico, si incide, si imprime e si scalfisce nella materia verbale, si tenta con più parole (con più aggettivi) di restituire un’immagine della «selva» tridimensionale; ad ogni aggettivo ci arriva «visivamente» un’immagine diversa dalla «selva», alla fine è come se l’avessimo percorsa in tutti i suoi aspetti; e se l’aggettivo dà colore al linguaggio verbale, più aggettivi aggiungono più colore, più campiture cromatiche.

L’orrido del malanno estetico e morale: lonza, leone, lupa

Nell’Espressionismo entra anche l’orrido, il Brutto in forma di malanno estetico e morale: la visione della lonza («leggiera e presta molto»), del leone (che «parea che contra» Dante andasse «con la test’alta e con rabbiosa fame»), e la lupa («che di tutte brame sembiava carca ne la sua magrezza»), impaurì così tanto Dante da fargli perder del tutto la speranza di poter raggiungere «l’altezza» del monte. Ovviamente, l’acre sapore delle tre fiere s’accentra se le considerassimo anche nelle loro rispettive allegorie: la lonza (invidia-lussuria; Firenze scissa in Bianchi e Neri); il leone (superbia-ira; la Casa reale di Francia); la lupa (avarizia; la Curia Romana ovvero il potere temporale della Chiesa).

Il linguaggio espressionista e Berlino allegoria della vita stagnante e imputridita

È del linguaggio espressionista dar d’urto nell’allegoria (i testi poetici delle Berlino, di Georg Heym, non mirano a rappresentare Berlino ma le Berlino, è cioè il ritratto (universalizzato) apocalittico della città che si industrializza, còlta nei suoi limiti di alienazione; è l’allegoria di un’esistenza che si libra nell’apparenza stagnante di una catarsi (l’industrializzazione) entusiasta di imputridire in se stessa

Georg Heym, Berlino II in Umbra vitae… p.29

(…) La criniera di fumo
Pende fuligginosa sulla morchia delle acque.
(…) Fumo, puzzo, fuliggine grava sopra le onde
Che le lucide e brune pelli di concia intorbidano.

In Dante espressionista ci troviamo in un linguaggio dichiaratamente brutto. L’Espressionismo stesso è l’estetica del Brutto, un’estetica che formula (vedi tutti coloro che se ne sono serviti, in questo caso Rimbaud) un linguaggio in cui

Ivos Margoni, Introduzione in Arthur Rimbaud, Opere… p.XXXIV

gli schemi narrativi tradizionali saranno stupefatti di accorgersi di trasportare nel loro corso ordinato e benedetto dalle facoltà una materia caotica e dissonante; ciò che l’estetica ha catalogato da secoli negli scaffali del bello e del brutto, del solenne e del turpe, del nobile o dell’abietto, si ritroverà disposto sul piano indifferenziato, e quindi redentore, della pura presenza.

Il Brutto come rivolta contro la società e l’arte

(…) L’assunzione del brutto a categoria estetica non è dunque (…) soltanto un aspetto della lotta contro il reale sensibile; è anche, e geneticamente soprattutto, la forma finale e interiorizzata della rivolta contro la società e contro l’arte che la rappresentava sublimandola.

Espressionismo: l’estetica del Brutto, senza ornato

Nell’estetica del Brutto non v’è delicatezza di tono né luccicanti eloquenze dell’ornato, finemente mescolate a una certa superfluità linguistica, né parole aggraziate dalla galanteria di un sospiro sentimentale. Il Brutto non è fatto per epurare le lacerazioni sociali; dipinge il male da cima a fondo; mira a restituirci linguisticamente la barbarie denominata uomo; risponde all’estetismo delle rovine, delle prospettive deformanti, con l’acuminata diffidenza nei confronti di un’arte sentimentale, zeppa di forme ed espressioni convenzionali; è condensazione di un linguaggio che scarica, intenzionalmente, sul macrocosmo delle proprie parole il substrato terroso di una irrazionalità viscerale. E viscerale è infatti «la passione della paura avuta» da Dante quando si ritrovò in quella “selva oscura”:

Inferno, canto I, 19

Allor fu la paura un poco queta
che nel lago del cor m’era durata
la notte ch’i’ passai con tanta pieta.

La paura sanguigna è propria del linguaggio viscerale espressionista

È una paura che gli entra direttamente nel cuore, sanguigna, che gli attraversa il corpo, entrando nei suoi più ascosi meccanismi, divenendo pertanto viscerale. Tale corporeità-visceralità propria di un linguaggio espressionista, è ben evidenziata dal commento che ne fa Boccaccio:

Giovanni Boccaccio, Il comento alla Divina Commedia e gli altri scritti intorno a Dante. Tomo I, Laterza, Bari 1918, p.28

È nel cuore una parte concava, sempre abbondante di sangue, nella quale, secondo l’opinione d’alcuni, abitano li spiriti vitali, e di quella, siccome di fonte perpetuo, si ministra alle vene quel sangue e il calore, il quale per tutto il corpo si spande: ed è quella parte ricettacolo di ogni nostra passione; e perciò dice che in quello gli era perseverata la passione della paura avuta.

È con la tecnica espressionista che il linguaggio mira a ottenere un effetto corporeo, concreto, di cosa raccolta dall’aspetto terroso dell’esistenza. La parola in questo caso deve uscire dal vivo di ciò che l’esistenza dà: dall’urlo nevrotico di un nevrotico al vissuto in trance di una spropositata visione estatica; dall’armonia alla disarmonia; dallo shock psicologico a uno stato d’animo inquietato da una visione apocalittica; dal Bello

Albert Camus, Il mito di Sisifo… p.41

(per il quale però bisogna sempre ammettere, secondo l’estetica espressionista, che «nel fondo di ogni bellezza sta qualche cosa di inumano…») al Brutto (che liricamente va inteso anche come desincronizzazione dei significati, per portare il linguaggio alla corporeità di parole scosse dai nervi e da sensazioni ulcerative).

Pessimismo e utopia = urlo e geometria (Mittner)

Il linguaggio espressionista si rifà sempre alla magniloquenza dell’urlo. Perché con l’urlo espressionista si è sia sull’orlo del pessimismo sia sull’orlo di un’utopia con cui s’intende ricostruire un nuovo mondo. La dualità pessimismo e utopia si traduce, secondo Mittner, in «urlo e geometria».

Urlo = forma strappata alla forma

L’urlo ci risponde linguisticamente con una forma demolita, abbattuta, sradicata, ed è la forma dell’incomunicabilità tra le cose e gli esseri, è la forma strappata alla forma e perciò divenuta proiezione della fine dell’uomo.

Geometria = forma della ricostruzione

La geometria invece è la forma della ricostruzione: ricostruisce a partire da ciò che dall’urlo è stato criticamente demolito. Nella sonorità delle parole dantesche s’è concentrata la discordante alterazione del dannìo del mondo: la sonorità delle parole è stridente, taglia l’udito quasi a volerlo rimuovere dalla sua percezione consuetudinaria. La musicalità verbale di Dante, affogata nello stridore, sembra che si faccia inarticolata, sinistra e vibrante. Sembra rifarsi (quasi andasse incontro a una nuova necessità di scuotere il lettore, come la nuova musica l’ascoltatore) a quanto Thomas de Hartmann esplicita ne L’anarchia nella musica:

Thomas de Hartmann, L’anarchia nella musica, in Vasilij Kandinskij, Franz Marc, Il Cavaliere Azzurro… p.82

Supponiamo, ad esempio, che il compositore senta la necessità di scuotere l’ascoltatore con un certo particolare accordo. Per raggiungere questo scopo è evidentemente necessario far precedere una serie di altri accordi in contrasto con l’accordo principale, giacché in caso contrario il nostro orecchio si abituerebbe a questo tipo di mezzi espressivi, e non sarebbe più in condizione di reagire con violenza alla necessaria combinazione.

Il linguaggio babelico del dolore

Tutto quel dolore fisico, provato materialmente, si metamorfizza nel III canto, in un linguaggio babelico, tramite cui il dolore, che attraversa il corpo sofferente del condannato, ne esce caratterizzato essenzialmente da un linguaggio straziante, per mezzo del quale diverse lingue… orribili favelle… parole di dolore… accenti d’ira… e voci alte e fioche diventano lo strumento attraverso cui il corpo delle parole esprime il proprio significato polisemico di “vissuto”, la cui carnalità è sovraccentuata da ciò che il dolore crea dalle molte variazioni della sua lingua:

Inferno, III, 22/30

Quivi sospiri pianti e alti guai
risonavan per l’aere sanza stelle
per ch’io al cominciar ne lagrimai.

Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d’ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle

facevano un tumulto, il qual s’aggira
sempre in quell’aura sanza tempo tinta,
come la rena quando turbo spira.

Il dolore si esprime con il linguaggio del corpo

La lingua del dolore esige esprimersi nel linguaggio del corpo. Cosicché la lingua che personalizza il dolore, deve in sé distorcersi, far parlare e parlare con il corpo, deve spingersi nel linguaggio del corpo come un furore iconoclasta, atto a romperlo in lacerti dolorosi, conflittuali, come tanti corpi e tante cose (le parole) imprestati da tanti altri corpi e da tante altre cose. Il linguaggio del dolore deve esprimersi come segno del corpo, le sue parole devono mostrare (più che far udire) com’è fatta la comunicazione fra parole che si cristallizzano in un gesto mosso da pene corporali.

Il dolore del corpo diventa parola sonora

Il dolore ha, come vero linguaggio, la profondità di un corpo sofferente, ed è per questo che in esso si fa determinante un linguaggio polisemico come uniformato al peso ed al volume di un corpo che sia divenuto parola sonora, chiamata a cadere nel linguaggio in forma di detrito fonico, di materia viva, di cosa materiale e organica. Il tumulto, sottolineato dalle diverse lingue, è ottenuto nel linguaggio con la differenziazione dei diversi segni fonici; linguaggio che è da Dante reso concretamente simile alla «rena quando turbo spira». È questa una similitudine che ci porta a immaginare le lingue infernali, come una materia linguistica proveniente dalla dimensione concreta delle cose che sono e che sono concretamente-materialmente corpo, cosa.

L’eternità nell’Inferno vissuta come tempo reale

V’è ne l’Inferno una dimensione spazio-temporale che si fa eterna e una eternità che ci viene descritta come un paesaggio vissuto in una condizione di tempo realisticamente deprecata al momento. L’Inferno diviene così la conclusione del destino fatale, riservata all’uomo, ch’è innanzitutto uno scontrarsi con essa faccia a faccia.

Il realismo del mostro medievale orrido e non fantastico

Se l’Inferno si muove su un piano le cui dimensioni degli esseri e delle cose non sono fantastiche ma realistiche, ciò è dovuto fondamentalmente alla cultura medievale: i mostri medievali non sono vissuti dall’immaginario collettivo virtualmente: ciò che li caratterizza non è un ritratto fantastico. Il mostro medievale designa, con i propri elementi iconografici, la propria concreta realtà: il suo aspetto orrido è vissuto ed è percepito come entità viva. La superstizione religiosa medievale fornisce alla collettività la convinzione che l’orrido fantastico non è fantastico ma vero, e non è depositato in una dimensione virtuale né concettualmente superstiziosa, ma visivamente realistica. Potremmo, parafrasando Camus, affermare che l’orrido dantesco non rinuncia al suo aspetto che la superstizione medievale dipinge con tratti realistici.

Albert Camus, Il mito di Sisifo… p.41

L’orrido deve «rimbalzare in immagini». «Esso viene rappresentato indubbiamente con miti; ma miti senz’altra profondità che quella del dolore umano e, come questa, inesauribile».

I mostri escono da un mondo vivo

Infatti nell’Inferno le figure mitologiche non sembrano affatto provenire dal sistema mitologico che le contiene in qualità di esseri e personaggi fantastici. Essi sembrano uscire, materialmente, da un mondo vivo. Pluto, le Furie, Caronte, Minosse, il Minotauro, i Centauri, i Giganti, Flegias, Cerbero, le Arpie si muovono ne l’Inferno come corpi concreti, adeguatamente cònsoni alla situazione spazio-temporale, in cui i loro aspetti si animano visivamente e si fanno concretamente, carnalmente vivi. Il mostro medievale non gioca a rimpiattino con la fantasticheria. Ne l’Inferno è vissuto con attenzione anche dal paesaggio.

I paesaggi demoniaci si compenetrano alle creature mostruose

I personaggi demoniaci non appaiono semplicemente appoggiati sui paesaggi ìnferi, no, gli uni e gli altri si compenetrano perfettamente. Ogni paesaggio descritto è stato linguisticamente attrezzato in maniera che le parole -atte a descriverlo- si compenetrino con il linguaggio adottato per tratteggiare, caratterialmente, la figura demoniaca. Insomma, fra la figura demoniaca e il paesaggio (chiamato a compenetrare la figura) v’è un rapporto simbiotico. Ne l’Inferno pare che il paesaggio abbia scritturato il personaggio demoniaco più idoneo a rappresentarlo o, viceversa, che il personaggio demoniaco abbia scritturato il paesaggio più idoneo a compenetrarlo.

Il linguaggio realizza effetti pittorici e sonori

L’atmosfera si carica di parole che si tuffano in un linguaggio costruito per realizzare effetti pittorici e sonori con cui tendere agguati al lettore: in essa ci sentiamo dei nàufraghi approdati a un mondo inaspettato perché, sì ultraterreno, ma concretamente visionario. Il linguaggio è portato a descrivere il peggio dell’atmosfera paesaggistica e delle figure demoniache. Il linguaggio è stato sommerso in cavillose parole che, puntigliosamente, trasudano una sonorità atta a stimolare percettivamente la visione di un mondo impressionante, additato alla gogna. La parola è trattata come una materia fisiologica, che si articoli in un corpo (il linguaggio) organizzato per mimetizzarsi con tutto quanto descrive. Siamo a un linguaggio modellato sui paesaggi e sulle figure da essi contenuto. Il suo effetto sonoro si muove su un progressivo e alternato crescendo e decrescendo; in esso percorriamo, continuamente, allucinazioni sonore che poco hanno dell’allucinazione.

Il linguaggio del paesaggio e delle figure: fonosimbolismo e fonoallegoria

Il linguaggio si fa realisticamente fascinoso, perché è in grado di trascinarci nel vero: la sua sonorità si fa segno, macchia di colore, figura collocata sonoramente sul proprio corpo sfregiato da un consistente materiale visivo-sonoro, utile a visualizzarci un’espressività linguistica fonosimbolica e fonoallegorica. E in questo sinestetico linguaggio vi prende parte

Albert Camus, Il mito di Sisifo… p.164

non la parola divina che diverte e acceca, ma il volto, il gesto e il dramma della terra, in cui si compendiano una difficile saggezza e una passione senza domani.

Ed eccoci nel III canto assordati da parole cariche del gesto e del dramma della terra: la bestemmia proferita dagli ignavi, anime «lasse e nude», da Caronte imbarcate per essere traghettate sull’acque dell’Acheronte:

Inferno, canto III, 103/105

Bestemmiavano Iddio e’ lor parenti,
l’umana spezie e ’l loco e ’l tempo
e ’l seme di lor semenza e di lor nascimenti.

I bestemmiatori e il linguaggio del vulgo

Il bestemmiatore, nella cultura popolare, è chiamato anche «bocca d’inferno». Ed è certo che la bestemmia ci trasporta sempre al livello basso del linguaggio, cioè a quello proferito dal vulgo o dall’uomo visceralmente irritato da qualcosa. La bestemmia (come l’esecrazione, la maledizione, l’imprecazione, la parolaccia) è sempre una parola vomitata da un corpo che si sbraca in tutta la sua carnosità, e rutta dai muscoli imbestialiti dell’ira.

La violenza della bestemmia fa percepire la presenza dei corpi

E qui, per quanto le bestemmie siano smoccolate da anime «lasse e nude», la visione che ne ricaviamo è non di anime senza corpi ma di corpi imbroccati da una carnaccia imbestiata, poiché è la bestemmia a proiettarci l’acre, l’urtante gesto del dramma della terra, ruttato dalle proprie viscere.
Anche il paesaggio qui descritto, ci immette in una sostanza materica ben definita e tangibile. Si vedano al riguardo le descrizioni sempre pertinenti a descrivercelo visivamente: «terra lacrimosa», «livida palude», «fioco lume», «buia campagna», «onda bruna»:
aggettivi che ci relazionano a un preciso colore, che ci tratteggiano, espressivamente, qualità cromatiche specificamente pittoresche. E tale effetto pittoresco ci viene ugualmente restituito anche quando il paesaggio proferisce immagini dal senso allegorico morale:
«riva malvagia», «trista riviera».

Naturalismo tangibile dantesco

Il linguaggio fantastico di Dante mira sempre a un’espressione naturalistica, portando così la varietà del linguaggio a evocare, naturalisticamente, l’influsso formale di una realtà dalle caratteristiche tangibili e corporee.
Le modalità espressive del Medioevo mirano a rendere veristiche le immagini evocative anche se sono congruenti a un determinato significato simbolico.

La vita religiosa e la fisiologia corporea

Tutta la vita religiosa del Medioevo non vive nella concettualizzazione teologica della religione, ma inverte la simbologia teologica in uno stile di vita a stretto contatto con la fisiologia corporea:

Johan Huizinga, Autunno del Medioevo… p.278

L’infusione della grazia divina vien sentita tanto come un atto simile al bere quanto come una saturazione. Una devota di Diepenveen si sente tutta inondata dal sangue di Cristo e sviene. La fantasia del sangue, tenuta viva ed eccitata continuamente dalla credenza nella transustanziazione, si manifesta in rosse visioni inebrianti. Le ferite di Gesù, dice S. Bonaventura, sono i fiori sanguigni del nostro dolce, fiorito paradiso, sui quali l’anima deve volare come una farfalla, bevendo ora a questo ora a quell’altro. Attraverso la ferita del costato essa deve penetrare fino al cuore. Il sangue scorre nei ruscelli del paradiso. Tutto il sangue caldo e rosso di tutte le ferite si è versato per la bocca di Suso fino nel suo cuore e nella sua anima. Caterina da Siena è una delle sante che hanno bevuto alla ferita del costato di Cristo, così come altri hanno potuto gustare il latte dal seno della Vergine: S. Bernardo, Enrico Suso, Alano de la Roche.

Minosse giudice delle anime
Gustave Doré. Minosse, Canto V, Inferno, 1861-1865 (incisione)

All’ingresso del secondo cerchio, nel V canto, ecco il mostro Minosse, in atto di digrignar i denti. Da re cretese dal potere legislativo, figlio d’Europa e di Giove, già ritenuto essere infernale giusdicente insieme a Radamanto ed Eaco, Minosse è qui di nuovo sotto le vesti di chi giudica e destina le anime:

Inferno, V, 5/6

esamina le colpe ne l’entrata,
giudica e manda, secondo ch’avvinghia.

Il ritratto di Minòs è reso ancor più realistico nel modo con cui è descritto nell’atto di avvolgersi intorno a sé la coda, tante volte quanti sono i cerchi che intende con essa indicare (cioè nove volte, quanti sono i cerchi infernali).

Le voci dolenti e l’effetto fonovisivo del percuotere

Ed è qui che le voci dolenti dei dannati (dei lussuriosi) percuotono l’orecchio di Dante.
Il verbo percuotere aumenta d’effetto l’immagine che dà a livello fonovisivo: i lamenti da Dante uditi gli suonano negli orecchi come oggetti contundenti, tant’è che il percuotere suggerisce un valore fisico e non smussa affatto, semanticamente, nel suo effettivo significato, l’evocazione di un dolore fisico percepito dall’udito in maniera estremamente materiale, denso di sostrato, compatto ed organico, come segno lasciato da un dolore fisicamente sofferto. Percuotere infatti vuol dire (secondo il dizionario)

colpire qualcuno (o una parte del suo corpo) con violenza, più o meno intensa facendo ricorso a pugni, schiaffi o calci o con un oggetto o strumento contundente…, in modo da provocargli o cercando di provocargli dolore ed eventualmente lesioni più o meno gravi.

Inferno, V, 25/36

Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
là dove molto pianto mi percuote.

Io venni in loco d’ogne luce muto,
che mugghia come fà mar per tempesta,
se da contrarii venti è combattuto.

La bufera infernal, che mai non resta
mena li spirti con la sua rapina,
voltando e percotendo li molesta.

Quando giungon davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina.

Il percuotere dà materialità fonica, e ci conduce a immaginarci fisicamente un suono (i lamenti) che a fondo sia penetrato nell’udito con tutto il suo materiale sonoro.

Il suono ha la valenza fisica di un oggetto

Siamo quindi a un suono che abbia assunto il comportamento fisico di un oggetto per poter meglio incidere, nella percezione auditiva, un gesto percuotente, perpetrato a danno dell’udito?
Il linguaggio, in Dante, s’accorda sempre alle caratteristiche del luogo verbalmente dipinto, alla caratterizzazione dei personaggi e al parlato perlopiù pertinente alla forma dialogica. Far parlare i vari personaggi, è un modo per farci partecipi di ciò che di volta in volta accade, è un modo per tenerci fisicamente inchiodati al luogo, per farci vivere al vero ciò che là si materializza.
Le dolenti note e il dolore fisico da esse provocate sono consustanziali: non può esservi percezione di un dolore fisico, da parte dell’udito, senza le dolenti note, e non può arrivarci immediatezza d’immagine visiva dalle dolenti note senza il dolore fisico da esse provocato all’udito.

La sessualità come attributo dello ctònio

Nel Medioevo spesso si ricorreva alla sessualità per articolare i corpi demoniaci con un certo realismo animale. Là dove, nella animalità demoniaca subentra l’elemento sessuale, la figurazione appare strettamente correlata allo stato terroso, organico, corporeo vero e proprio di una creatura del mondo ctònio. L’immagine che se ne ricava è quella di una materialità che ci restituisce, in forma mimetica, non un’immagine evocatrice di un corpo ultraterreno, ma l’immagine concreta di un corpo in carne ed ossa. Tant’è che

Johan Huizinga, Autunno del Medioevo… p.279

anche nelle fantasie che riguardano il diavolo, l’elemento sessuale aveva il suo posto: Alano de la Roche vede le bestie che figurano il peccato munite di orribili organi genitali, dai quali si sprigiona un torrente di fuoco e di zolfo, che col suo fumo offusca la terra; vede “meretrix apostasiae” che divora gli apòstati, li vomita, li divora di nuovo, li bacia e li culla come una madre, li partorisce sempre di nuovo dal suo grembo.

Immaginazione infernale e caccia alle streghe

Questo era il rovescio della “dolcezza” dei devoti. Come complemento inevitabile delle dolci fantasie celesti, lo spirito nascondeva un nero pantano d’immaginazioni infernali, le quali trovavano, anch’esse, la loro espressione nel linguaggio ardente della sensuosità terrena. Non è poi tanto sorprendente che ci siano rapporti fra tranquille cerchie dei pietisti di Windsheim e ciò che di più fosco ha prodotto il Medioevo verso la sua fine: la mania delle streghe, cresciuta allora sino a diventare un sinistro sistema di zelo teologale e di severità giudiziaria.

Canto IV, cerchio III, golosi nel pantanaccio

Nel IV canto, Dante subisce «novi tormenti e novi tormentati». Siamo al terzo cerchio fra i golosi, in un luogo su cui «pute la terra» a causa di una «piova / eterna, maladetta, fredda e greve» e di una «grandine grossa, acquatinta e neve / che per l’aere tenebroso si riversa…».
La losca pioggia, lercia e brodolosa, caccia i golosi in un pantanaccio.

lnferno, VI, 13/15

Cerbero, fiera crudele e diversa,
con tre gole caninamente latra
sovra la gente che quivi è sommersa.

Cerbero uomo fattosi dèmone

E ancora una volta siamo di nuovo di fronte a un ritratto dalle forti caratteristiche terrene. Il ritratto di Cerbero ci mostra non un dèmone ultraterreno ma un uomo fattosi dèmone:

Inferno, VI, 16/17

Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,
e ’l ventre largo, e unghiate le mani;

Cerbero, essere umano e follia omicida (Inferno, VI, 18)

I suoi gesti ricalcano, nella loro demoniaca e maligna tetraggine, l’efferata naturalezza di un essere umano in preda alla follia omicida:

graffia li spiriti, iscuoia ed isquatra.

Il suo ritratto si rifà ai tratti caratteristici di una caricatura grottesca.

I sermocinatori e la violenza descrittiva delle sinestesie e della gestualità semantica

Anche nei sermoni medioevali, tenuti da sermocinatori professionisti, vi si riscontra un vocabolario ricco di parole atte a designare intensamente -proiettando immagini impressionabili per via della loro sonorità e valenza semantica- una visualizzazione del racconto, ottenuta da una certa violenza descrittiva.

Accrescimento di parole ossessive rendono il linguaggio materico

Il discorso, costruito sull’accrescimento ossessivo di parole adeguate a rendere il linguaggio materico, doveva tradursi, sinesteticamente, anche in un esito mímico-gestuale (tradurre cioè la parola in gesto e il gesto in parola), perché l’effetto iconico della parola mostrasse la propria forza in maniera lacerante e denotasse, sul piano sonoro-semantico, l’atto di un corpo pieno di materialità vibrante, in modo da destabilizzare, impressionare l’abitudinarietà auditiva dell’ascoltatore.

Cristo implacabile macellatore del peccatore

Non mancavano sermoni in cui la figura di Cristo -dipinta con toni realistici- veniva descritta come un efferato e implacabile macellatore, che con sadica scrupolosità da notomista avrebbe anatomizzato il corpo del povero peccatore se questi non si fosse pentito:

Padre Romolo Marchelli, Prediche Quaresimali. Gasparo Storti, Venezia 1683, pp.55-56

Quel perito anatomista, con la mano di ferro armata, in atto che sembra di carnefice ed è di giudice, stassi intorno ad un cadavero per espor di fuori ciò che sta dentro e scoprir nei morti i secreti dei vivi. Comincia l’opera sua: leva sottilmente la pelle, taglia dopo le carni, indi snuda le ossa; scioglie i legami dei nervi, snoda i groppi dei muscoli, apre gli organi de’ sensi; porge separate tutte le membrane, sfasciate tutte le cartilagini, staccate tutte le viscere. Eccoti distinta ogni fibra, divisa ogni arteria, scoperta ogni midolla; entra nelle officine vitali: il cibo qui si cuoce, il sangue qui si purga, l’alimento qui si dispensa; qui si formano gli umori, qui si temprano gli spiriti, qui si esalano i fiati, e mostrando grandi tutte le cose picciole, sopra ogni picciola parte fa un gran discorso.

Cristo perito anatomista viviseziona il corpo del peccatore

O peccatore, eccoti Cristo, fatto tuo notomista, che in quel giorno prenderà il coltello, affilato ed acuto in ambe le parti… (…)
Trincerà quella lingua che sfodrò tante bugie, tante mormorazioni, tante parole oscene… Sminuzzerà quelle mani, nelle cui unghie si vedranno le ritenute mercedi, i nascosti furti, le predate rapine… Svenerà quei piedi, che ti portarono a saltar ne’ balli più licenziosi, ad udir le comedie più lascive… Leverà la pelle, e scoprirà la carne di tutte le occulte disonestà… Taglierà i muscoli, romperà l’ossa, penetrerà le midolle… Dalle midolle giungerà fino agli spiriti vitali.


Il linguaggio si fa carne e restituisce la sensazione della sofferenza

Quando tramite una parola irrompe nell’ascoltarla una sensazione di carne torturata… è segno che il suo senso vi ha lacerato visivamente l’udito; quando si penetra in uno stato di immedesimazione, con la sofferenza di un corpo sbranato dalla frammentarietà del suo vissuto, è segno che il linguaggio s’è fatto carne perché si potessero toccare le sue parole e perché le sue parole si potessero recepire come la sensazione di una sofferenza patita da un’anima bagnata negli escrementi del dolore.

Il lezzo pestifero delle espressioni per la Morte

Quando si passava a tratteggiare la Morte, come effetto della caducità a cui l’uomo è condannato, il linguaggio abbondava di espressioni repellenti, di aggettivi coloritamente nauseanti a tal punto che il fedele veniva sonoramente condotto a percepire appieno il lezzo pestifero, stracciato dalla carne putrefatta e inverminita di un corpo in avanzato stato di decomposizione:

S. Alfonso de’ Liguori, Opere complete. Nobile, Napoli 1847-99, pp.17-18

LA MORTE

Immaginati di vedere una persona, da cui poco fa sia spirata l’anima. Mira in quel cadavere che ancora sta sul letto, il capo caduto sul petto, i capelli scarmigliati ed ancor bagnati dal sudor della morte, gli occhi incavati, le guance smunte, la faccia in color di cenere, la lingua e le labbra in color di ferro, il corpo freddo e pesante. Chi lo vede s’impallidisce e trema. Quanti alla vista di un parente o amico defunto hanno mutato vita e lasciato il mondo!
Maggior orrore dà poi il cadavere quando principia a marcire. Non saranno passate ancora quattordici ore che è morto quel giovine, e la puzza si fa sentire. Bisogna aprir le finestre e bruciar molto incenso; anzi procurare che presto si mandi alla chiesa, e si metta sotto terra, acciocché non ammorbi tutta la casa. E l’essere stato quel corpo d’un nobile o d’un ricco non servirà che per mandare un fetore più intollerabile. (…)

Mira come quel cadavere prima diventa giallo e poi nero

Mira come quel cadavere prima diventa giallo e poi nero. Dopo si fa vedere su tutto il corpo una lanugine bianca e schifosa. Indi scaturisce un marciume viscoso e puzzolente che cola per terra. In quella marcia si genera poi una gran turba di vermi, che si nutriscono delle stesse carni. S’aggiungono i topi a far pasto su quel corpo, altri girando di fuori, altri entrando nella bocca e nelle viscere. Cadono a pezzi le guance, le labbra e i capelli, le coste son le prime a spolparsi, poi le braccia e le gambe. I vermi, dopo aversi consumate tutte le carni, si consumano da loro stessi; e finalmente di quel corpo non resta che un fetente scheletro, che col tempo si divide, separandosi le ossa, e cadendo il capo dal busto: “Redacta quasi in favillam aestivae areae, quae rapta sunt vento” [“Ridotti quasi a pulviscolo sull’aia estiva, che il vento rapisce”. Daniele, II, 35]. Ecco che cosa è l’uomo: è un poco di polvere, che in un’aja è portata dal vento…


Sebastiano Pauli, Prediche quaresimali, T. Bettinelli, Venezia 1752, p.201

Appena questo corpo, ben composto tuttavia e ben organizzato, sarà chiuso nel sepolcro e mutatosi di colore diviene giallo e smorto, ma di un certo pallore e di una certa smortezza che fa nausea e dà paura. Annerisce poi tutto da capo a’ piedi; ed un colore tetro e fosco come carbone spento, lo riveste e lo ricopre. Indi sul viso e sul petto e sul ventre comincia stranamente a gonfiarsi: sul quale stomachevole gonfiamento nasce una muffa fetida e grassa, lordo argomento della corruzione vicina. Né molto va, che il ventre così giallo e gonfio comincia a squarciarsi e a dare qua uno scoppio e là una rottura: dalle quali ne sbocca fuori una lenta lava di marciume e di schifezze in cui a pezzi ed a bocconi quella carne nera e marciosa galleggia e nuota.


Un occhio inverminito e un gruppo di budella lacere e luride

E dove vedesi ondeggiare un mezzo occhio inverminito, ove uno squarcio di labbro putrido e corrotto; e più avanti un gruppo di budella lacere e livide. In questo grasso fango si genera poi una quantità di picciole mosche, di vermi e di altri schifosi animaletti che bullicano e si aggomitolano in quel sangue corrotto, e attaccatisi a quella carne marcita se la mangiano e se la divorano. Una parte di questi vermi sorge dal petto, un’altra con un non so che di sporco e di muccoso cola dalle narici; altri invischiati in quella putredine entrano ed escono per bocca, ed i più satolli vanno e vengono, gorgogliano e rigorgogliano giù per la gola.


Il linguaggio scevro da ogni pudicizia, extraletterario contro il buon parlato

Qui il linguaggio si è liberato da ogni composita pudicizia, la parola s’accresce impudicamente nella dimensione di un processo visivo che svolge la funzione di condurci, foneticamente, a immaginarci concretamente la decomposizione di un corpo avvenuta per dissipazione linguistica: è la parola che ci presenta foneticamente davanti agli occhi (divenendo visiva) tutte le impurità di un corpo eruttate da un processo di decomposizione. È il linguaggio stesso che diviene, con parole che lo portano a postulare una semanticità che si struttura efficacemente su un’allusione visiva, linguaggio extraletterario, escludendo da sé deliberatamente parole che si esprimono secondo il modello retoricamente posato ed equilibrato della buona maniera.

Le parole del volgo scardinano il bel linguaggio

Il buon parlato è messo a repentaglio da una fitta costellazione di parole che sembrano ripescate dal linguaggio convenzionale del vulgo:
smortezza che fa nausea… qua uno scoppio e là una rottura… carne nera e marciosa… lenta lava di marciume… schifezze… carne nera e marciosa… occhio inverminito…
La parola che penetra nel linguaggio del sermone ne precisa sia l’andamento ritmico sia il rapporto fra la sua sonorità e l’immagine che questa deve verbalmente visualizzare.

Il linguaggio si fa azione

Il linguaggio si fa azione: provoca e genera immagini, mira a suscitare l’impressione che ciò di cui sta descrivendo accada sotto gli occhi dell’ascoltatore.

Il linguaggio del sermocinatore e le azioni

È un linguaggio, quello del sermocinatore, che deve interpretare, in termini teatrali, il gesto, l’ampiezza fonetica della parola, l’azione complessiva delle azioni. Tale linguaggio, sebbene sia sempre stato accompagnato sulla scena (pulpito-piazza) da azioni enfaticamente teatralizzate, doveva già in sé concentrare tutto ciò che è proprio dell’artificio teatrale. La sua natura linguistica deve trascrivere immagini (e trasferirle all’immaginazione) con l’ausilio naturale di tutti i mezzi che sono naturali alla naturalità del corpo;

La parola deve farsi gesto, farsi ascoltare, farsi vedere, farsi toccare

la parola deve farsi gesto: gesto in cui risultino chiari tutti i movimenti visivi di un’immagine suggerita dalla sua valenza sonora; la parola deve potersi staccare da se stessa e circolare nello spazio in cui la sua forza sonora si espande; la parola deve rispondere ai movimenti del corpo, deve obbedire alle esigenze percettive del corpo: deve cioè farsi ascoltare, farsi vedere, farsi toccare, farsi gustare o disgustare.

Ed anche ne l’Inferno il linguaggio agisce, al di sopra delle regole omeriche, secondo l’espressione linguistica conveniente a un sermone, e ciò perché occorre ricordare che

Ezra Pound, Opere scelte. Mondadori, Milano 1977, p.812

la precisione di Dante, sia nella Vita Nova che nella Commedia, proviene appunto dalla volontà di riprodurre esattamente ciò che egli ha chiaramente veduto.

Il linguaggio riproduce ciò che vede

Il linguaggio sermocinante mira a rendere tutto verosimile. La sua forma linguistica è modellata per raffigurare e rendere verosimigliante ogni particolare del suo racconto.

Il verosimile deve disfarsi delle regole e scendere nella teatralità dei linguaggi

Per fare ciò deve sconfinare nei diversi linguaggi; deve sfuggire a qualsiasi demarcazione linguistica; deve disfarsi delle regole, dei canoni e dei modelli precostituiti che definiscono il bello stile; deve trasgredire, violare la sua stessa forma; deve in sé ricettare linguisticamente la teatralità di un’azione scenica, di un atto sacramentale, di un’opera buffa; deve farsi simultaneamente parodia, melodramma, tragedia, commedia, farsa.
A Dante occorreva (proprio come un sermocinatore a cui preme rendere il discorso del proprio sermone verosimigliante, con l’ausilio di tutti i linguaggi utili a ottenere lo scopo)…

Cesare De Lollis, La fede di Dante nell’arte in Nuova antologia di lettere, scienze e arti, 56 (1185), Le Monnier, Firenze 1921, p.208

occorreva dir tutto, oltre che in stridenti attiguità, nel modo più breve e quindi più diretto che fosse possibile.

Ne la Divina Commedia il linguaggio poetico, passa ogni misura, vive in assoluta libertà (liberato persino dal poema omerico) a tal punto che

Thomas Stearns Eliot, Il bosco sacro. Bompiani, Milano 1967, p.190

la Commedia può essere tutto ma non è certo un poema epico.

Il linguaggio babelico del basso volgo

È un linguaggio che iscaturisce dal sermone (ha del sermone il parlato per aneddoti, le parole foneticamente cariche di semanticità corporale, parole cariche di allegorismo fonetico, parole forzate a dire altro da sé, parole che emergono dal parlato babelico del basso vulgo, ritmo attraverso cui ottenere l’analogia delle accelerazioni e decelerazioni con il senso allegorico):

Thomas Stearns Eliot, Il bosco sacro… pp.190-191

Sidgwick esalta il Dante “predicatore e profeta”, e lo presenta come se fosse un più grande Isaia o un più grande Carlyle. (…) “Predicatore” e “profeta” sono termini odiosi; ma Sidgwick vuole indicare qualcosa che non “si perde nel poeta”, ma fa parte del poeta.

E sia il predicatore sia il profeta prediligono l’utilizzazione di un linguaggio partorito al solo scopo di sostenere un’educazione morale:

Thomas Stearns Eliot, Il bosco sacro… p.190

Non vi è dubbio che l’allegoria vada presa sul serio, e che la Commedia sia in un certo senso “educazione morale”. Ma si tratta di trovare una formula per la corrispondenza tra l’una e l’altra, stabilire se il valore morale corrisponde direttamente all’allegoria. È facile stabilire quanta importanza Dante attribuisce al metodo allegorico.

Sull’educazione morale della Commedia: il predicatore deve terrorizzare

L’educazione morale del predicatore e del profeta sta tutta -tecnicamente- nel movere le parole sugli ascoltanti come un bastone catorzoluto: deve incutere paura, inorridire, sbalordire, conturbare, terrificare, maravigliare, allarmare, minacciare. Il suo contenuto semantico deve tradursi in realtà, deve muoversi in ogni parola come una verità del vissuto, deve adeguarsi alla rappresentazione dell’evento raccontato. Deve la parola somigliare decisamente a un fatto reale.

Il linguaggio profetico è moralmente feroce

Il linguaggio profetico è sempre nell’atto di dire e di raccontare col tirare addosso all’ascoltante, sinesteticamente, le parole: le parole devono farsi toccare e vedere pur rimanendo oscure, ambigue, suscettibili di essere interpretate in diversi modi. La parola deve arricchirsi di suoni dolorosi, deve originarsi in un linguaggio moralmente pieno di ferocia:

Johan Huizinga, Autunno del Medioevo… p.264

un predicatore vagante suscitava un incendio colla sua parola.

E Dante, uomo letterato medievale, sapeva benissimo che ciò che commoveva il popolo era sempre la descrizione impressionante dei terrori infernali, la tonante minaccia della punizione del peccato, le effusioni liriche sulla Passione e l’amor di Dio. Sappiamo di quali mezzi i predicatori si servivano: nessun effetto era considerato troppo grossolano, nessun trapasso dal riso al pianto troppo brusco, nessun crescendo della voce troppo forte.
Violentare l’immaginazione del vulgo è quanto fa il predicatore durante la declamazione dei suoi sermoni.

Vedere e sentire per immagini

Nel VII canto, stessa tattica: occorre suggestionare, impressionare il lettore. Quindi si dà fiato a un’orribile bestialità, suggerendo con le parole una tipica visione da film horror: ficcare nel lettore un’immagine da raccapriccio, condurlo a immaginare visivamente un’orridità che lo faccia raggricciare.

Ernesto Parodi, Lingua e letteratura.  Neri Pozza, Venezia 1952, p.205

Dante «… vede e sente per immagini, e anche una semplice parola e anche il pensiero più astruso o più impalpabile e il ragionamento più astratto assume subito nella sua mente una forma concreta di cosa sottoposta ai sensi, e, per esprimersi al modo antico, s’incarna…»:

Inferno, VII, 109/114

E io, che di mirare mi stava inteso,
vidi genti fangose in quel pantano,
ignude tutte, con sembiante offeso.

Questi si percotean, non pur con mano,
ma con la testa e col petto e coi piedi,
troncandosi co’ denti a brano a brano.

Pluto: un ritratto appena abbozzato che allude e non descrive

In questo canto (come già nella descrizione di Minosse) di Pluto non viene tracciata un’effigie. Dante crea una suspence nel descriverlo (senza darci un suo ritratto) solo attraverso «la voce chioccia», la «infiata labbia». E solo da Virgilio si viene a sapere, senza una dettagliata descrizione, che ha le sembianze di un lupo: «Taci, maladetto lupo».
Pluto è stato appena abbozzato, come fosse stato trattato di getto. E, alla stessa maniera, tanti versi ne la Commedia appaiono appena digrossati: non sono stati raffinati ma lasciati in una forma grossolana e rozza. Questo modo di abbozzare, senza «raffrenare il corso de la trascuratezza», ci rimanda a una lettera dell’Aretino, scritta a Tintoretto quando questi terminò di lavorare al suo Miracolo di San Marco, aprile 1548:

Lettera dell’Aretino al Tintoretto, aprile 1548
Tintoretto, Miracolo di San Marco, 1548, Venezia, Gallerie dell’Accademia

Da che la voce de la publica laude conferma con quella propria da me datavi nel gran quadro de l’istoria dedicata in la scola di San Marco, mi rallegro non meno con il mio giudizio, che sa tanto inanzi, ch’io mi facci con la vostra arte, che passa sì oltra. E, sì come non è naso, per infreddato che sia, che non senta in qualche parte il fumo de lo incenso, così non è uomo sì poco instrutto ne la virtù del dissegno che non si stupisca nel rilievo de la figura che, tutta ignuda, giuso in terra, è offerta alla crudeltà del martirio.

I colori sono carne e lo spettacolo pare più vero che finto

I suoi colori son carne, il suo lineamento ritondo, e il suo corpo vivo, tal che vi giuro, per il bene ch’io vi voglio, che le cere, l’arie e le viste de le turbe, che la circondano, sono tanto simili agli effetti ch’esse fanno in tale opera, che lo spettacolo pare più tosto vero che finto. Ma non insuperbite, se bene è così, ché ciò sarebbe un non voler salire in maggior grado di perfezione. E beato il nome vostro, se reduceste la prestezza del fatto in la pazienza del fare. Benché a poco a poco a ciò provvederanno gli anni; conciosia ch’essi, e non altri, sono bastanti a raffrenare il corso de la trascuratezza, di che tanto si prevale la gioventù volenterosa e veloce.


Dante Alighieri, Convivio (b5v-b6r). Impresso per ser Francesco Bonaccorsi, Firenze 1490

Eppure, quanto fosse profondamente Dante padrone del linguaggio retorico ce lo attesta non solo la Vita Nova ma anche il Convivio. Ed è proprio nel Convivio che vi troviamo esplicati i quattro sensi secondo cui

le scritture si possono intendere e debbonsi sponere massimamente per quattro sensi.

I quattro sensi delle scritture: letterale, allegorico, morale, anagogico

L’uno si chiama litterale, e questo è quello che non si distende più oltre che la lettera propria…
L’altro si chiama allegorico, e questo è quello che si nasconde sotto il manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna… (…)
Lo terzo senso si chiama morale, e questo è quello che li lettori deono intentamente andare appostando per le scritture, a utilitade di loro e di loro discenti. (…)
Lo quarto senso si chiama anagogico, cioè sovrasenso: e quest’è quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale eziandio nel senso litterale, per le cose significate, significa delle superne cose dell’eternale gloria: siccome veder si può in quello canto del Profeta che dice che nell’uscita del popolo d’Israele d’Egitto la Giudea è fatta santa e libera. Che avvegna esser vero, secondo la lettera, sie manifesto, non meno è vero quello che spiritualmente s’intende cioè che nell’uscita dell’anima dal peccato, essa si è fatta santa e libera in sua potestate.

Ed è certo che il sermone utilizza il linguaggio, facendo attraversare l’intero suo costrutto (il periodare ritmico, le parole anche extralinguistiche, il contenuto, l’intonazione, la geometria regolatrice dei vari passaggi consequenziali, il gioco fonetico studiato per comunicare con quel preciso tipo di destinatario) i quattro sensi elencati da Dante.

I quattro livelli rendono il linguaggio persuasivo

La funzione pragmatico-comunicativa del sermone si sviluppa simultaneamente su quattro livelli (litterale, allegorico, morale, anagogico) destinati a interagire, in modo da determinare un linguaggio fondamentalmente persuasivo.
Nel sermone il sermocinatore imprime un linguaggio strumentale, la sua struttura e significatività semantica sono rigorosamente studiate per un effetto che si esprima per ottenere una totale compartecipazione fra parlante e ascoltante.

La Divina Commedia concepita come sermone

E non è senza ragione che la Divina Commedia sia stata concepita alla stessa maniera di un sermone. La capacità del suo linguaggio sta anche nel rendere vero ciò che racconta. Il suo racconto è intersoggettivo, mira cioè a tirar dentro il lettore, a fargli vivere una realtà altra… altrettanto vera come il reale.

La teatralizzazione del linguaggio

Il linguaggio poetico della Divina Commedia è menato fuori dal suo chiuso sistema linguistico. Lo spazio in cui si genera è reso programmaticamente temporale: tutto ciò che ivi si racconta è come se accadesse al momento. Per ottenere tale effetto, Dante ha dovuto teatralizzare non solo il linguaggio ma anche la struttura geometrico-spaziale su cui gli eventi si succedono. Il Tommaseo, nel IV canto ci ricorda che

l’inferno dantesco è un cono rovesciato, diviso in novi ripiani circolari, come i gradi negli antichi anfiteatri.

Ogni evento è una scena teatrale

Cosicché ogni evento s’accomoda ad apparire come in una scena teatrale, tant’è che il risveglio di Dante nel limbo (luogo ove vi compaiono bimbi e adulti non battezzati) è come se lo avessimo sotto gli occhi in forma di una vera messa in scena.

Il risveglio di Dante per un tuono

È un robusto tuono a farlo rinvenire dallo sturbo di un sonno come di chi sia caduto in deliquio:

Inferno, IV, 1/3

Ruppemi l’alto sonno ne la testa
un greve truono, sì ch’io mi riscossi
come persona ch’è per forza desta;

e qui, nel primo cerchio… Virgilio e Dante non percepiscono più urla infortite di strazio ma sospiri come di gèmiti provenienti da un’intima afflizione:

lnferno, IV, 25/28

Quivi, secondo che per ascoltare
non avea pianto mai che di sospiri
che l’aura etterna facevan tremare.
Ciò avvenia di duol sanza martiri…

L’ombra dei corpi di Masaccio e il corpo vivo di Dante. Masaccio, Cacciata di Adamo ed Eva, 1424-25, Firenze, Cappella Brancacci, Chiesa di Santa Maria del Carmine

Il contrasto netto fra il robusto tuono e i languiscenti sospiri mira a dare un effetto naturalistico come fra luce e ombra. Si pensi al «rilievo vitale» ottenuto da Masaccio tramite l’effetto della lumeggiatura, con cui ha ottenuto

Roberto Longhi, Da Cimabue a Morandi, in Gli affreschi del Carmine, Masaccio e Dante. Mondadori, Milano 1987, p.330

«quasi una rivelazione dell’esistenza terrena in una fisica nobilitata dall’azione», che dovè certo riempire i contemporanei di una meraviglia pari a quella che gli spiriti del Purgatorio dantesco provarono nell’accorgersi che Dante è «vivo» perché «getta ombra».
Dante è percepito corpo vivo grazie all’ombra che il suo corpo illuminato getta. Infatti

su questo punto medita, forse, Masaccio: su questo radicale egli intende che anche lo spazio del Brunelleschi può farsi ora abitato e pulsante…

La fisicità di uno spazio è viva se in esso percepiamo corpi vivificati da colpi di luce, che fanno a terra gettare le loro ombre. Tutto il linguaggio dell’Inferno dantesco ebolle in uno spazio in cui i contrasti pigliano parola, proiettando rilievi vitali, a tutto tondo, lumeggiati, modellati da effetti chiaroscurali, portati al massimo grado dell’espressione.

Lo spazio delle ombre è vita, in Dante come in Masaccio, il tocco carico di luci

Lo stesso vigore drammatico lo ritroviamo in Masaccio. Il tocco della lumeggiatura è gravoso, tanto carico di luci ed ombre che i corpi paiono toccati da colori tumefatti.

Roberto Longhi, Da Cimabue a Morandi… p.330

E chi credesse, per esempio, di poter abbassare anche di un punto il colmo di luce e di ombre che comprime e quasi spinge le figure dei due nudi puniti da un angelo (si tratta dei due Progenitori esclusi dal Paradiso Terrestre) non riuscirebbe che a diminuire (che in arte vale: distruggere) la tragica altezza di quel dolore cocente.

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