Saggio sopra l'espressionismo

la città degli espressionisti

L’immedesimazione corporea dell’espressionista vale anche per ciò che concerne l’orientamento della propria arte verso la propria epoca e la vita della metropoli che ne è la sua logica conclusione.

La metropoli ispira gli espressionisti, tra tecnologia ed emarginazione

Ciò che ispira questa arte è: sia il primato dell’emancipazione tecnologica della metropoli, sia la condizione marginalizzata di tanti suoi adepti, compresi loro stessi. Gli espressionisti esortano la propria arte alla mobilitazione sociale, e a frapporre tra la metropoli e la dottrina artistica una visione ideologica e critica. La città è dagli espressionisti vissuta come una seconda natura e anche con questa seconda natura il contatto dev’essere corpo a corpo, dev’essere prevalentemente un bagno nella proliferazione delle sue articolazioni, si penetra nel suo sesso industrializzato, si presta attenzione alla sua condizione di indeterminatezza e di fluidità, ci si attiene all’essenzialità dei suoi innumerevoli travestimenti; tutto in essa dev’essere materialmente recepito.

La città non viene dunque soltanto colta nel suo mero effetto di allettante produttività industriale (insieme al suo fazioso ideologismo che si rifà ai progetti politici e tecnologici mascherati di socialità), ma anche nella sua emorragia di progetti idealistici, di desideri pragmatici, avviando i quali si spera di rivitalizzare le sue prospettive esistenziali, le sue pretese sociali. Ma non v’è nello sguardo dell’espressionista, rivolto alla città, la divinizzazione dei suoi entusiasmi mercificati e del suo germe di onnipotenza e totalitarismo capitalistico.

L’espressionista e la città: una visione critica

L’espressionista produce una visione critica anche riguardo a chi alimenta ottimismo come forma di sfruttamento, e crea aspettative ideologiche attraverso finti ricorsi a un rapporto fiduciario tra individui e gruppi sociali.

Dopo le sconcertanti rovine provocate dalla prima guerra mondiale e gli orrori indesiderati ma purtuttavia subiti, era fin troppo facile (in tale allarmante sconquasso e disorientamento sociale) promuovere mistiche ideologie umanitarie e farle passare come autentiche a gruppi sociali consenzienti.

L’orgiastica condizione sociale di mistificazione mistica

Poiché un’intera società di individui era divenuta dubbiosa dei valori sociali e umanitari a causa della guerra, divenne fin troppo facile, in tale clima di sfiducia, da parte di sfruttatori, vendere, ottenendo consenso, falsi ottimismi, surrogati sentimentali e mistici. È con mordace ironia che Ivan Goll descrive, non senza una nota sottilmente critica, quella orgiastica condizione sociale di mistificazione mistica:

Ivan Goll, Sodoma e Berlino. Il Formichiere, Milano 1975, pp.46-49

Perduta la guerra e abortita la rivoluzione, il paese stava sprofondando in una nera voragine dove nessuno riusciva più a riconoscersi. I tedeschi giostravano nella cosiddetta repubblica come cavalli lasciati improvvisamente liberi in una prateria, ma non erano felici: rimasti senza briglie e senza paraocchi, erano accecati dal sole e sconvolti dal vento; e poi la prateria era finta: l’erba fresca e i fiori teneri erano mere imitazioni di cartapesta. E allora, a cosa rivolgersi? Quale eroe adorare, non essendo possibile vivere senza adorare nessuno?

Quale eroe adorare? Di quale fede inebriarsi?

Di quale fede inebriarsi, essendo inimmaginabile sostentarsi con la tessera del pane non innaffiata dal nettare di un’illusione? Era venuto il momento in cui la filosofia e la metafisica, le due brillanti amanti che il tedesco manteneva da secoli a carissimo prezzo, mettessero in opera le loro grazie. In piedi, Jakob Boehme e Schopenhauer, fate cantare le vostre voci nella notte fonda del terrore! Dateci dei sogni e la fantasmagoria delle stelle! Odemar continuò: – Io prevedo per i prossimi anni una straordinaria crisi mistica. Le agitazioni sociali e il marasma economico faranno vacillare il buonsenso di tutta la nazione. Una febbre simile a quella dell’anno mille s’impadronirà del paese. Disperazioni ed estasi cavalcheranno la sua povera anima. Tutti i valori costituiti crolleranno e se ne cercheranno altri per sostituirli e nella fretta si scambieranno i riverberi per stelle. La danza è già cominciata.

Oscuri profeti predicano nella notte e i poeti proclamano la morte dell’arte

Oscuri profeti predicano nella notte. Spengler annuncia la fine dell’occidente. I poeti proclamano la morte dell’arte. Einstein sentenzia che tutto è relativo. Tutto ciò che era vero diventa falso. Il vecchio mondo si sgretola! (…) I giornali, secondo lui, segnalavano apparizioni di Cristo soprattutto alla frontiera bavarese e nei deserti della Pomerania. In un villaggio dell’Erzgebirge, degli allucinati avevano visto apparire il Barbarossa alla testa del suo esercito. Nel Baden un ingegnere di una fabbrica di materie coloranti aveva trovato la pietra filosofale. E un chimico di Breslavia aveva fabbricato oro con dell’argilla reperibile solo in Slesia.

Ogni giorno un miracolo: una ondata mistica dilaga in tutta la Germania

La popolazione insomma si stava abituando a leggere ogni giorno di un nuovo miracolo. Le miserie di questa terra diventavano insignificanti, se confrontate con le grandi cose occulte che si andavano annunciando. Si costituivano ovunque sette per codificare e sfruttare senza perder tempo i precetti dei nuovi profeti che rivelavano questi miracoli. Ogni cittadina aveva il suo apostolo. Entravano in ballo anche le scienze e le filosofie. E già incominciavano a occuparsene le corporazioni politiche, mentre nemmeno i gruppi sociali più spregiudicati riuscivano a sottrarsi all’ondata mistica che dilagava in tutta la Germania. D’ora innanzi chi avrebbe avuto più immaginazione sarebbe diventato il padrone del paese. La gente era pronta a credere a qualsiasi cosa. La metafisica s’infiltrava nell’economia, nelle scienze e nell’architettura, gli affari venivano trattati sul piano di una Weltanschauung. Gli imprenditori costruivano nell’immaginario. I politici codificavano i miracoli. Non c’era più nulla d’impossibile.

L’illusione è la manna degli affamati

L’illusione diventava la manna quotidiana degli affamati. Il gigantesco assumeva forme naturali come nel paese di Gulliver. Non si vedeva più il mondo così com’era, ma con un binocolo, ora ingrandito e ora minuscolo, il che faceva credere allo spettatore di essere diventato una divinità capace di trasformare le cose a suo talento. I banchieri credevano a tutto ciò che un fanatico sapeva loro proporre in un linguaggio nietzschiano e prestavano denaro per i progetti più inverosimili. Gli armatori, se gli alleati lo avessero permesso, avrebbero volentieri intrapreso una spedizione per trovare diamanti al polo Sud. Non c’erano soldi per comprare grano in America, carne in Svezia o arance in Africa, ma se ne trovavano quanti si voleva per erigere un tempio a Goethe, per elevare una torre del popolo, ancor più alta della Tour Eiffel e tutta di vetro, simbolo della fratellanza umana, per fondare una fabbrica di latte artificiale estratto da una calce speciale o per ripubblicare le opere complete di Voltaire in pergamena e con le maiuscole dipinte a mano, come non esistevano neanche in Francia.

Tutto era possibile
in Germania, tranne comprare pane senza tessera

Tutto, sì, tutto era possibile in Germania, tranne comprare pane senza tessera o udire da un commerciante un ragionamento privo di divagazioni metafisiche. (…) – Ma la sua idea, insomma! – sospirò Finkelstein. – Sfruttare la stupidità umana. Trarre profitto dalla crisi di misticismo che dilaga in tutto il nostro popolo. Capitalizzare gli ideali e le grandi estasi che scuotono il più umile cittadino. La Borsa è un tempio come un altro. Quante miniere africane sono esistite solo per la fede dei rentiers e hanno reso milioni a chi le ha immaginate! Ora, lei crede che l’idea di Dio non valga l’idea del platino? – Bravo! Geniale! – esclamò d’un tratto Finkelstein buttando via il sigaro.

Stabilire un contatto benevolo con la società di quell’epoca… voleva dire per l’espressionista metterla criticamente in guardia dai suoi tristi archetipi di comportamento, di spersonalizzazione, di schizofrenia insultante.

Entrare nei meccanismi malati della città per conoscerli e obiettarli

Lo scenario sociale, sia pure tutto da ricostruire, appariva già funestato da gruppi sociali pregni di smodato edonismo che decretavano ogni sorta di mercimonio e sfruttamento. Eppure, in quella malattia sociale ci si tuffava: l’espressionista frequentava quelle eiaculazioni trionfali di emotività artificiose e surrogati sociali per meglio conoscerle e obiettarle. La strada artificiosa della metropoli era lì che gli permetteva confronti con la carrareccia motosa e sdrucciolevole della campagna. Tutto un mondo illustrato da patologie fisiologiche, da eccitamenti nevrotici, da patinate e forzate felicità al culmine del loro orgasmo, appariva all’espressionista come un mostro dai movimenti disinvolti e tentacolari.

L’espressionista cattura con atteggiamento critico le immagini dall’apparente benessere cittadino

L’espressionista aveva la forza di catturare per immagini quel bailamme di formale benessere. Si dava a sfogliare quel libro aperto, abbattendo nella sua visione ogni forma di conformismo etico ed estetico. Non restava criticamente passivo neppure di fronte al malessere che quella parvenza di libertà elargiva sottobanco. Per egli era estremamente importante carpire l’uomo formalizzato dalla sua brutalità e dai suoi conflitti.

Strada, piazza, caffè-concerto sono i luoghi degli espressionisti

L’espressionista amava la strada (poiché è sempre pronta ad accogliere quell’individuo che cerca, ossessivamente, di districarsi dalla sua asfittica esistenzialità privata); amava i caffè-concerto (ove s’annidava il bisogno insopprimibile dell’alienato metropolitano -letterati, artisti, prostitute, ecc.- di dar libero corso alla propria ribellione interiore).

L’artista ha sete di stimolazioni

Insomma, la sete di stimolazioni costringeva l’artista espressionista a uscir fuori dai suoi personali incanti, portandolo spontaneamente ad accettare il rischio dell’incognito che la strada offriva. La sua visione non cercava più il luogo rassicurante su cui posare il proprio sguardo ma, infrangendo ogni regola privatizzata, badava a soddisfare la propria infinita curiosità, la propria libertà emotiva:

Ernst Ludwig Kirchner, Lettera a Botho Graef 21 settembre 1916, in L’arte moderna. L’espressionismo e il fauvismo… p.358

In tutti questi anni, -dirà Kirchner- il lavoro in atelier procedeva parallelamente al disegno nelle strade, nelle piazze, nei caffè-concerto ecc.

La città viene vissuta come un sistema globalizzato di residui tecnologici, che ruotano intorno a una collettività formata da esistenze embrionali che subiscono in silenzio l’anima devitalizzata di una società convertita all’alienazione. V’era, quindi, trasgressione estetica nelle opere degli espressionisti, perché diveniva determinante sbattere in faccia al borghese tutta quella miseria sociale, quell’abisso di umanità tradita da essa stessa, quella elettricità mímica di un caos sociale incespicante sulle proprie nevrosi e inquietudini. L’arte la si sperimentava tastando, con tutto il corpo, i postulati del suo alienante progresso.

La pittura contro l’elettroshock borghese

Dunque, cosa far entrare nelle loro città dipinte? Figure che sembrino aver subito un elettroshock dalle ciniche convenzioni sociali, imposte dal sesso borghese. Far sprizzare dalle forme lo sfruttamento delle categorie inferiori; il dolore provocato da una mordacchia messa in bocca a un arrabbiato; la frustrazione e la malinconia della puttana; le utopie fallite; tutto un mondo sociale svegliato di soprassalto dalle atrocità della guerra; i tradimenti dell’uomo fatti all’uomo.

Fallite le utopie e passata la guerra con le sue atrocità, cosa far entrare nella poesia?

E cosa far entrare nelle loro poesie?
La poesia espressionista vede nella città uno stato storico che è a più dimensioni: calato dentro il proprio tempo e il proprio spazio, esso si trova ovunque si trovi lo stato patologico dell’esistente, ovunque si trovi l’uomo afflitto dall’ampliamento sensoriale che percepisce a più dimensioni l’intensità febbrile di un ordine sociale rotto, tormentoso, che urta razionalmente con se stesso, stigmatizzato da un proprio decadimento.

La poesia profetica degenerazione di una metropoli malata (Die Nacht/La Notte di Georg Heym)

Il linguaggio poetico sconfina così in una illuminazione lirica additata da immagini grottesche, deliranti, profetiche. Die Nacht di Georg Heym ne è solo un esempio: la descrizione notturna di una notte metropolitana include una visione come dettata dall’indeterminatezza di un occhio in relazione con la dimensione lacerata del proprio Io:

Estasi senza ebbrezza, vagheggiamento terrifico che sfigura ogni cosa

una certa esperienza visuale, istantanea, ha comportato un linguaggio invasato da un’estasi febbrile, che non ha però portato a una piacevole ebbrezza visionaria, ma a un furore ebbro di disformità visionaria, quasi subíta sensorialmente da un vaneggiamento terrorifico che tutto sfigura e storpia, a contatto con la degenerazione fisica di una metropoli malata, fuori della quale la morte attende.

La Notte di Georg Heym: descrizione della città tra cubismo, surrealismo e paranoia

Nella lirica di Heym la descrizione della metropoli avviene in tutta la sua estensione: torri, tetti, luci, finestre, mura, porte, ponti, gente, strade, campane, piazze si susseguono in un linguaggio conciso, frammentato. La tecnica adottata è ora cubista (ritagli di immagini ricomposti in forma di collage mostrano da più punti di vista, tramite accumulazione, sprazzi e squarci di scene in movimento), ora surrealista (le immagini sono state catturate in una paradossalità onirica, prevaricata da furore farneticante, da paranoia).

Dare l’idea di una metropoli alienante

Non v’è distacco né dal grillare di un cervello alienato, né dall’esperienza alienante vissuta in uno stato di coscienza ipercritico: la coscienza critica -nei confronti del dato di fatto- e la rabbia farneticante di un alienato mentecatto, si fondono in un’unica ragion d’essere: dare al lettore l’idea di una metropoli alienante e infernale nella sua genesi tecnologica (quindi attraente e repellente insieme), dare l’immagine tangibile di un’epoca scandita dall’adempimento della propria catastrofe (o già avvenuta o imminente). Il seguente componimento lirico, infatti, suona in maniera profetica.

Georg Heym, Umbra vitae. Einaudi, Torino 1970, p.83

LA NOTTE
Con lunghi colli pendono le stelle
Di fuoco sulle torri che vacillano,
Sferzando i tetti. E la fiamma saltella
Come un fantasma per le vie sconvolte.

Finestre sbattono. E le mura antiche
Senza denti spalancano le porte.
Nelle fauci precipitano i ponti
E fuori c’è, ad attendere, la Morte.

Corre la gente intorno senza mèta,
Gridando cieca, con le armi in mano.
Giù nelle strade è un brusio sordo, e danzano
Agitate dal vento le campane.

Rosse e morte le piazze. E lune enormi
Con gambe ossute salgono oltre i tetti,
Illuminando ai malati che dormono
Le fronti scialbe come lini freddi.

La città espressionista: l’orrore e il Grottesco

La città espressionista appare quasi sempre arcaicamente devastata da orrori, congelata nella negatività della propria decadenza. Il Grottesco ne sottolinea il suo aspetto peggiore, deposita sulla città un flusso di deformazioni come uscite irrazionalmente dall’egemonia di un meccanismo sociale disorganico.

Per gli espressionisti la città è generatrice di un caos cinico: in essa l’individuo declina, non vive più nel sensibile, ma nel simulacro dei suoi stessi sensi.

La città falso di se stessa

La città lo priva di sensazioni, fornendogli un occhio sensoriale -al posto del corpo- che vede tenendosi a distanza, che vede senza toccare e, quindi, senza vedere. Cosicché la città, come l’individuo, prende la faccia della maschera; se ne imbeve sino a divenire un falso di se stessa. E la città racconta di una umanità che si è svestita della propria presenza; celebra l’uomo citato, non l’uomo presente in tutta la sua dimensione di uomo.

L’uomo diviene inutile anche a se stesso

Nell’Espressionismo assistiamo a una città che aggira l’uomo, rendendolo inutile persino a se stesso.

Georg Heym, Il Pazzo in Il ladro. Novelle. Edizioni dell’Ateneo, Roma 1982, pp.63-65

Ne Il Pazzo (1911) di Georg Heym, nel suo infausto finale, il protagonista passa ignorato persino di fronte al portiere di una grande casa, in cui entra senza avere nessuna familiarità con essa. Da perfetto sconosciuto attraversa grandi sale con «tavoli innumerevoli pieni di trine, di vestiti», «saloni pieni di mobili, arredi, quadri», senza che nessuno in quel luogo si accorga della sua presenza.

Casa ed esistenza astratta

Il protagonista attraversa quella casa con indosso un’esistenza che, ritirandosi dalla propria vita, diviene astratta, come virtualizzata dalla propria smaterializzazione; diviene, nel finale, la figurazione di un individuo che fatica a visualizzarsi anche come cosa esistente; impersóna metaforicamente l’ipertrofia dell’inafferrabilità della città, l’espansione della invisibilità visibile, l’apparenza che si situa nel presente dell’indeterminatezza della sua illusorietà.

Georg Heym, Il Pazzo, in Il ladro… pp.63-65

Passò per alcune strade affollate, traversò una piazza, e ancora altre strade. Si sentiva a disagio fra la gente. Come oppresso. Cercò un angolo tranquillo, dove sdraiarsi. Scorse una casa con un grande portone. All’ingresso c’era un uomo in livrea marrone e con bottoni d’oro. Altre persone non c’erano. Passò accanto al portiere, che lo lasciò entrare tranquillamente. Ne fu meravigliato. Non mi conosce? Si chiese. E, in fondo, si sentì offeso.

Arrivò a una porta che girava continuamente. Fu afferrato da un battente, ricevette una spinta e si trovò all’improvviso in una grande sala. C’erano tavoli innumerevoli pieni di trine, di vestiti. Tutto galleggiava in una luce dorata, che proveniva da lunghe finestre distribuendosi nella penombra dell’enorme sala. Dal soffitto scendeva un lampadario gigantesco, splendente di infiniti diamanti. Ai lati del salone grandi scalinate conducevano ai piani superiori, percorse da gente che saliva e scendeva.

“Accidenti, che chiesa elegante”, pensò. Nei passaggi c’erano signori in abito scuro e ragazze vestite di nero. Dietro a un banco sedeva una donna, qualcuno contava del denaro davanti a lei. Una moneta cadde e tintinnò per terra.

Salì la scala, passò per altri saloni pieni di mobili; arredi, quadri. In uno erano disposti molti orologi, che a un certo punto si misero a suonare tutti insieme. Dietro una grande tenda suonava un armonium, era una musica malinconica, che sembrava perdersi lentamente in lontananza. Di soppiatto scostò la tenda, e vide molta gente che ascoltava una pianista. Tutti i visi erano seri e assorti, ed egli si sentì invadere da una sensazione di solennità. Ma non osò entrare.

Giunse a una porta munita d’inferriata. Al di là c’era un gran pozzo, nel quale delle funi sembravano correre su e giù. Un grosso armadio salì dal basso, il cancello si aprì e qualcuno disse: «Salire, prego», si trovò nell’armadio, volando come un uccello verso l’alto.
Lassù incontrò molte persone che stavano intorno a grandi tavoli pieni di piatti, vasi, bicchieri e recipienti o si muovevano nei passaggi tra file di banchi sui quali brillavano, come un campo di fiori di vetro, cristalli esili, candelieri o lampade multicolori di porcellana dipinta. Lungo la parete che fiancheggiava questi oggetti preziosi girava, rialzata di pochi gradini, una piccola galleria.

Riuscì a fendere la folla e salire per la scaletta fin sulla galleria. Si appoggiò alla balaustra e vide, sotto di sé, il fiume di gente che, come innumerevoli mosche nere, sembrava produrre -con le sue teste, gambe e braccia in perenne movimento- un brusío continuo. E, insonnolito dalla monotonia di questo rumore, stordito dall’afa del pomeriggio, malato per le esaltanti sensazioni di quel giorno, chiuse gli occhi.


Il lato grottesco della città: degradazione del corpo urbanistico e disorientamento esistenziale

Ritrarre il lato grottesco della città (la sua stranezza, la sua mostruosità, i suoi brandelli umani, le sue informi masse di colore, i suoi colori urlanti), richiede una tecnica denigratoria, puntata anche contro se stessa. Nella città espressionista è solo del Grottesco la capacità di cogliere l’oggettiva degradazione del suo corpo urbanistico. Se nella città tutti gli elementi che la abitano (dall’impianto urbanistico-architettonico all’individuo sociale) partecipano al suo delirio d’onnipotenza, ecco allora l’espressionista che osa contrastare la facèta visione di chi ad esso si uniforma tragicamente. Come? Con l’impegno di esprimere (mediante l’impiego del Grottesco), in termini critici, la fatica di corpi (architettonici e umani) sofferenti e inappagati, di chi ha subíto il surrogato schizofrenico di una città che prèdica l’abbraccio inessenziale con un mondo contaminato dal disorientamento esistenziale.

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