Saggio sopra l'espressionismo

l’artista espressionista crea l’opera seguendo la sua natura, il suo istinto

Da Edward Munch, al quale

Marco Valsecchi, Maestri della pittura moderna. Garzanti, Milano 1957, p.124

le linee ondulate e molli che richiamano le sinuosità vegetali di certe decorazioni liberty, il colore acceso a fuoco oppure soffocato repentinamente da una brusca cenere, ma sempre crepitante di violenze espressive e persino di sontuosità cromatiche, gli servono a simboleggiare il suo cedimento ai fantasmi della sua interiorità travolta da una crescente angoscia

a James Ensor, nelle cui opere troviamo

Giulio Carlo Argan, L’arte moderna 1770-1970… pp.260-261

il carnevale grottesco della superstizione e del vizio, l’assillante paura della morte… larve orrende invece di belle fanciulle, scheletri invece di nudità rosa, vecchi stracci invece di fiori…,

L’uomo concreto, fallace e inutile senza il dominio dell’Io

L’uomo concreto, fallace e inutile senza il dominio dell’Io è l’uomo concreto che l’Espressionismo raffigura: la sua fallace esistenza, i suoi errori, il suo terrore, la sua umana argilla, i suoi inutili fregi d’oro.
Nell’Espressionismo non si pratica il dominio dell’Io. Tutto in esso appare abbattuto da un profondo senso di rinuncia al proprio corpo.

Un corpo che ha perso il centro corporale

Il corpo espressionista non sembra più istituzionalizzato dalla propria anatomia, ma
da un allontanamento persino dal proprio sistema immunitario: il corpo espressionista impone alla vista la sua immanente putrefazione. Quel corpo si trascina lungo un uomo che ha perso il suo centro corporale. È come se in quel corpo ci sentissimo per strada: tutto ciò che è in strada (troppo buio, troppa luminosità, troppo fango, troppa polvere, troppa sofferenza, troppe vittime dell’uomo, troppa malinconia, troppo masochismo, troppo sadismo) gli si appiccica addosso.

Nell’Espressionismo c’è tutto l’indesiderabile dell’esistenza

Nell’Espressionismo, dunque, prende corpo quanto vi è nell’esistenza di più indesiderabile. Il corpo espressionista sembra infatti voler dire (come ebbe a dir di sé Georges Rouault):

Georges Charensol, Georges Rouault. L’Homme et l’Oeuvre in Walter Hess, I problemi della pittura moderna… p.60

Volete scrivere di me? Il mio linguaggio pittorico è indesiderato, fatto di tutti i dialetti più miserabili, volgare e talora sottile, come nel forno del vasaio talora si fondono o si scindono elementi contrari.

Scendere in strada, vuol dire mantenere in piedi la vista, perché possa andare verso ciò che lì vi si evidenzia; vuol dire che la vista rinuncia all’immobilità
atarassica e alle sue modulazioni narcisistiche per andare incontro alla personalità della natura. E la personalità della natura è sempre fisiologicamente
formata da un equilibrio ottenuto dall’interazione di «elementi contrari»:

Emil Nolde in Walter Hess, I problemi della pittura… p.63

…l’uno con l’altro. L’uno con l’altro: uomo e donna, gioia e dolore, divinità e demonio. Anche i colori sono stati opposti gli uni agli altri: caldo e freddo, chiaro e scuro, debole e forte.

In Nolde, infatti (ma potremmo anche dire in tutto l’Espressionismo), tutti gli elementi pittorici sono stati trafitti da forti contrasti. Ogni sua composizione pittorica mostra ora colori bassi (come emersi dalla terra), ora colori rinfrescati (come originati in terso vivido sangue).
Sono pitture che si contentano di rassodarsi a visione primitiva, in esse si cerca

Emil Nolde in Walter Hess, I problemi della pittura… p.62

di fissare qualcosa dell’essere primordiale.

Cercare la primordialità nella natura sfrenata

E ove cercare un certo grado di primordialità se non nell’abbandonarsi, senza la briglia, alla smoderatezza della natura?

Obumbrare tutti i luoghi comuni dell’arte accademica

Vogliamo darvi il colore del germe infettivo, e il balenío di una luce orgogliosa e virile, uniti insieme in una dimostrazione di coraggio, nell’edificazione di un mondo pittorico creato alla stessa guisa della natura che crea (questo è quanto ci dicono le opere degli espressionisti), vogliamo istroppiare l’opera d’arte accademica e i suoi matrimonii con le regole fisse, obumbrare tutti i luoghi comuni con cui è stata concepita, e ricordare, alla vista del fruitore d’arte inesperto, che

Emil Nolde in Walter Hess, I problemi della pittura… p.62

regole estetiche fisse non ci sono. L’artista crea l’opera seguendo la sua natura, il suo istinto.

Come la natura che crea secondo le proprie regole… così l’artista concepisce la propria opera:

L’artista crea l’opera seguendo la sua natura

Dipingendo avrei sempre voluto che i colori, tramite me come pittore, si sviluppassero sulla tela con la stessa conseguenza con cui la natura stessa crea le sue figure, come si formano i minerali e le cristallizzazioni, come crescono il muschio e le alghe, come sotto i raggi del sole deve dischiudersi e sbocciare il fiore.

Tutto questo deve avvenire istintivamente. Occorre però che l’istinto stia sempre in cervello perché non subisca appieno l’oppressione della sola ragione, fondata sulle sue logiche e le sue convenienti ragionevolezze.

L’istinto ha le sue ragioni, che la ragione non ha

Parafrasando Pascal, potremmo dire: l’istinto ha le sue ragioni, che la ragione non ha. L’istinto viene da un sentire che si sporge sempre in fuori dal corpo in cui è contenuto; è come un proiettile che non sta troppo in canna, perché vuol colpire al momento ciò che ha di istinto avvertito, sentito; l’istinto parte sempre dal proprio istinto; per l’istinto è sempre meglio rischiare che stare in contumace coi rischi dell’esistenza; sì, l’istinto è ciò che direbbe (come Orlando, del Morgante di Luigi Pulci) a chi volesse seguir il proprio istinto:

Luigi Pulci, Morgante Maggiore, canto XV

… sia quel che ti piace;
Meglio è morir, che stare in contumace.

Ascoltar l’istinto vuol dire essere sempre in sul sentire, stare sempre in orecchie e in gàngheri, senza mai uscir fuori dei gàngheri, ché altrimenti il dubbio potrebbe pronunziar i suoi dubbi e, quindi, frenare l’azione dell’istinto. L’istinto va lasciato al proprio istinto; l’istinto può stare in azione senza altro intervento. Ma, affinché un’opera d’arte risulti essere stata concepita d’istinto, occorre che accolga nelle proprie forme un clima come cagionato da uno spirito barbaro, che vuol dire: bere e strabere, con una certa violenza e avidità, tutto ciò che l’istinto dà da sentire, dissigillando i sensi.
Scrive Maurice Vlaminck:

Maurice Vlaminck, in Walter Hess, I problemi della pittura moderna… pp.59-60

Componevo d’istinto, maldestramente, ponevo i colori con l’unica idea che per me scusava tutto: dire quello che sentivo. Dipingevo balbettando, esclusivamente per me. (…) Non avevo alcun’idea preconcetta. (…) Ero un barbaro tenero e pieno di violenza. Traducevo d’istinto, senza metodo,
una verità non artistica, ma umana. Soffrivo di non poter picchiare ancor più forte, di essere giunto al massimo d’intensità, limitato come restavo dal blu o dal rosso del venditore di colori.

Come far straripare il colore?

Già, come togliere al colore quelle tonalità che giacciono, fissate una volta per tutte, in quei tubetti acquistati da un «venditore di colori»? Come far straripare altri colori da quel colore, come far sgorgare da quel colore colori che rivelino altri colori; colori indotti dal bisogno di mostrarsi diversi da come normalmente stagnano nel tubetto che li contiene?

Ad ogni colore occorre un antagonista

Ecco: il colore non deve restar crocifisso sul proprio colore, ma deve con esso entrar in conflitto invalidando ciò che è, e questo può avvenire solo se viene indotto, dalla possibilità di uscire da se stesso, a non paralizzarsi sul proprio colore assunto per sé come unico protagonista. Gli occorre insomma un antagonista, un colore che esca fuori da se stesso senza una meta, che risulti cresciuto entro un orizzonte allargato, che incoraggi se stesso a fluire, a seconda dei casi: lento e tranquillo/irruento e impetuoso/gonfio di melma e bile/irrigato da una pasta indorata e odorosa di luce. Un colore, dunque, che -d’accordo con Maurice Vlaminck- non faccia della pittura, ma la propria pittura.

Un colore non faccia della pittura, ma la propria pittura

Affinché la pittura arrivi a fare una propria pittura, occorre che guardi dentro alle cose, che arrivi ad incarnare lo spirito che si cela dentro al suo ambiente, la vita che lì si racconta. Ottenere un’arte non estranea a quello sforzo creativo che tratteggia istintivamente lo spirito interiore e che anima significativamente ogni forma del sentire.

Franz Marc, I Fauves
tedeschi, in Vasilij
Kandinskij, Franz
Marc, Il Cavaliere
Azzurro… p.26
Vasilij Kandinskij, Heavy Red, 1924, Basilea, Kunstmuseum Basel

Rifacendoci a Franz Marc, del Der Blaue Reiter: è guardando l’esterno dall’interno che si arriva a capire che l’arte deve toccare «le cose più profonde, che il rinnovamento non può essere formale» o, aggiungiamo, soltanto formale, perché esso significhi «rinascita del pensiero».
È dissigillando il pensiero che si arriva ad ottenere una sua rinascita: mandare a pezzi i vecchi orciuoli che lo tenevano segregato in un ambiente per uso solo di se stesso. Mai dire, dopo aver pensato, che basta e strabasta ciò che si è pensato. Mai dire, dopo che si è concepito un’opera, che così com’è stata concepita basta e strabasta a se stessa.

L’artista deve perseguire l’istinto del bambino

Ma… per raggiungere codesto scopo, occorre che l’artista persegua l’istinto del bambino, che non méndichi all’adulto un modo fisso e definitivo per pensare e osservare.

fabio d'ambrosio editore
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