Saggio sopra l'espressionismo

l’architettura gotica in perfetta sintonia con la struttura gotica de La Divina Commedia di Dante

L’architettura gotica in fieri verso un unico fine: slanciarsi verso l’alto

Tutta l’architettura gotica pare un perenne cantiere in fieri. Tutta la sua struttura pare ri-farsi sotto il nostro sguardo. Ne ricaviamo sì una visione caotica (a causa della molteplicità degli elementi strutturali che fanno di una cattedrale gotica un cantiere in corso) ma ben congegnata, ben combinata, funzionalmente, per produrre quel preciso effetto di non finito.

Il linguaggio dantesco verso un unico fine: proiettarsi in sé

Quando l’architettura gotica si lancia verso l’alto, tutto ciò di cui è fatta si protende verso quell’unico fine. Quando il linguaggio de l’Inferno dantesco è proiettato all’interno di sé, allora tutto ciò di cui è fatto si esprime nell’estrinsecazione di un linguaggio quasi ripescato allo stato primordiale: il suo complesso pluralismo (cambiamenti di registri, dal descrittivo al parlato, dal paesaggio al ritratto, dal soliloquio al dialogo, parole inventate e deformate, gergali e dialettali) è impegnato a farci attraversare la Babele di un mondo ínfero, votato (com’è tutta la terrena natura) all’arbitrio di una disarmonia dionisiaca.

Il linguaggio dell’Inferno si fa grottesco

L’apparato linguistico si fa grottesco, ingoia il punto di vista di una realtà mostruosa, obbedisce all’osservazione di un mondo votato all’allegoria del Brutto.

Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana. Sansoni, Firenze 1960, pp.177-180

Questa libertà di scelta basta a mostrare che Dante, pur tenendosi saldamente radicato all’uso natio, guarda intorno a sé ed accoglie, accanto alle parole e alle forme del fiorentino contemporaneo, anche voci e forme che stanno cadendo dall’uso, qualche forma del toscano occidentale e meridionale, qualche rara voce d’altri dialetti italiani, molte voci latine, parecchie francesi.

Dante raccoglie voci d’altri dialetti italiani, latine, francesi

Questa vastità d’orizzonte ha tuttavia una limitazione rigorosa: mentre il poeta ammette senz’altro, ove gli occorrano, le forme e i vocaboli fiorentini, gli altri devono aver avuto una qualche consacrazione letteraria. Quindi i Vocaboli latini possono essere accolti di diritto, ma se usa il tipo vorria lo fa appoggiandosi ai Siciliani e ai Siculo-toscani; vonno (3ª pers. plur. del pres.) era dell’umbro letterario; fenno, apparinno, terminonno (3ª pers. plur. del perfetto) erano stati usati letterariamente da toscani occidentali; la rima di lome (o lume che sia) con nome e come ha precedenti nel Cavalcanti e nel Bolognesi, e così via. (…)

Dante non si fa scrupolo di usare voci plebee

Dante non si fa scrupolo di adoperare nella Commedia voci fiorentine d’ogni strato sociale, anche plebee. (…) I gallicismi che troviamo in Dante non sono pochi, ma si stenta a indicarne qualcuno che non si trovi anche in altri testi e quindi possa essere esclusivamente suo. Anche flailli (Par., XX, v. 14), adattamento del fr. ant. flavel, flajel, finora non documentato da alcun altro testo, potrebbe essere giunto a Dante per tramite siciliano, se badiamo al vocalismo.

Voci coniate da Dante e voci attinte attorno a sé

Difficile è anche stabilire il confine tra le voci coniate da Dante e quelle che egli può avere attinto attorno a sé, da fonti di cui non ci resta testimonianza. Probabilmente sono sue parecchie derivazioni immediate, deverbali come cunta (Pur., XXXI, v. 4) o denominali come alleluiare, golare, mirrare.

Dante prende dalla lingua viva

Tra le molte derivazioni prefissali (adimare, appulcrare; dismalare, divimare; indracare, ingigliare, impolare, inurbarsi, inventrare; rinfamare, ringavagnare; sgannare, spoltrire; transumanare, ecc.) parecchie sono certo sue, specialmente le voci formate da possessivi, da pronomi, da numerali, da avverbi (immiare, intuare, inleiarsi, inluiarsi, intrearsi, internarsi [der. di terno], incinquarsi, immillarsi, indovarsi, insemprarsi, insusarsi). A proposito d’imparadisare, il Tommaseo diceva, nel Dizionario: “È della lingua viva, e da essa l’avrà preso Dante, non essa da Dante”: ma in presenza di tante coniazioni di questo tipo, ci sembra più probabile il contrario.

Forse di conio dantesco è anche qualche formazione suffissale: pennellaggiare, torreggiare.

Il Gotico nella temporalità del provvisorio, nei giochi di linee in movimento e nella pluralità di forme e azioni
Resurrezione dei morti il giorno del giudizio universale, Cattedrale Saint Étienne, 1270-1280

L’incombente presenza di materiali policromici, di bassi e alti rilievi, di archi intrecciati e orditi da linee curve contrapposte, di piloni a fascio, di motivi ornamentali, arabescati, astratti, vegetali, antropomorfi, figurati di insiemi scultorei, di finestroni, di contrafforti, di modanature, di nicchie, di capitelli, di guglie, di edicole, di doccioni, di pinnacoli, di effetti cangianti di ombre e luci, di ornamenti e figure modellati con effetti calligrafici, spostano tutta l’architettura gotica sulla presenza di una struttura plastica incalzata dal movimento indefinito della linea. Cosicché l’architettura gotica si sviluppa e si evolve nella temporalità del provvisorio: la linea sfugge alla stabilità strumentale di un centro, permane solo nel movimento interpersonale con altre linee; l’identità della forma e delle sue azioni deve disvelarsi pluralizzata da un procedere nello spazio che annulli le proprie conclusioni.

Il Gotico supera definitivamente l’architettura antica

E non è affatto vero, a nostro avviso, «che la varietà» come afferma Montesquieu «che si è cercato di porre nel Gotico l’ha reso monotono», anzi è una varietà che ha distaccato ogni tipo di forma dalla monotona persecuzione della forma ripresa e rifatta. Diciamo piuttosto -con Arnold Hauser- che

Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte (vol.I) Einaudi, Torino 1984, p.266

il Gotico riesce per la prima volta a sostituire la tradizione antica con qualcosa di affatto nuovo, opposto e tuttavia non inferiore alla classicità. Solo col Gotico l’antichità è effettivamente superata.

La ricchezza formale del Gotico è eterogenea, e l’eterogeneità è propria della natura del mondo:

Giordano Bruno, l’eterogeneità del mondo e il pluralismo della vita

Li mondi se intendeno essere questi corpi eterogenei, questi animali, questi grandi globi, dove non è la terra grave più che gli altri elementi, e le particelle tutte si muoveno e cangiano di loco e disposizione non altrimente che il sangue ed altri umori e spiriti e parte minime, che fluiscono, refluiscono, influiscono ed effluiscono in noi ed altri piccioli animali.

La ricchezza formale del Gotico è eterogenea
Cappella di Enrico VII, Abbazia di Westminster, Londra, 1503-1519

L’eterogeneo infatti naviga nella similitudo con il naturalismo organico del naturale; pertanto nel Gotico l’eterogeneo ci costringe a viaggiare nel pluralismo formale della vita; l’elemento passivo (l’equilibrio statico) è escluso dalla composizione dell’elemento attivo (lo squilibrio determinato dall’indefinito e disciplinato da una forma frazionata dall’interpolazione di altre forme), l’eterogeneità gotica… è la dimostrazione che ogni elemento organico è eterogeneo e vive eterogeneamente in una natura di per sé eterogenea.

Eterogeneità organica e astrazione della visione estatica

Ma l’eterogeneità, che è l’Io che si schiude al pluralismo della vita e della sua attuazione organica che si attualizza nell’atto di esprimersi in tutta la sua molteplicità, mal si addice alla visione introspettiva dell’estasi, che richiede per compiersi, quale esperienza interna, l’abbandono totale alle proprie deviate e intime visioni. Ma è proprio del Gotico l’attitudine della forma architettonica a completarsi in una forma che protende la propria attrazione (l’immagine mentale-psichica dell’estasi) per contrapporla alla forma visivamente tattile, a quel tipo di forma cioè più conveniente a esser recepita attraverso i sensi che attraverso l’astrazione psichica dell’estasi.

Cattedrale Sant’Andrea di Wells, 1220-1239

L’astrazione differisce dalla forma visibile e tattile dei sensi: l’una nasce dall’immaginazione, da un inconscio che spinge in fuori le proprie visioni; l’altra è tutta esperienza e accade sotto la recettività dei sensi; l’una non ha corpo, e pertanto la sua assenza di materia, forma non paralizzata da un equilibrio dedotto da un compromesso con la forza di gravità, sviluppa linee che perdono la propria linea, eccentricamente spinte nello spazio per non trovare mai l’appiombo; l’altra si sviluppa secondo una forma che ci avvicina al pulsare organico della vita e, in quanto tale, partecipa all’attività terrena di una forma che si fa praticamente funzionale.

Prolissità del Gotico contro lo stile casto

Il Gotico è lo stile della prolissità.

Contraddire Schopenhauer e la sua dottrina estetica

Prendendo in prestito alcuni brani dai Parerga e paralipomena di Arthur Schopenhauer (in cui in alcuni passi si evince il disprezzo contro ogni tipo di prolissità verbale, poiché «l’affettazione nello stile è da paragonare al fare le smorfie»), proviamo a contraddire la sua dottrina estetica (che predica uno stile casto) con quella estesa, profusa e verbosa del Gotico.

Arthur Schopenhauer, Parerga e paralipomena, Adelphi, Milano 1998

E dunque: a «ogni parola superflua agisce proprio contro il suo scopo», si dica:

Ogni elemento superfluo agisce per il suo proprio scopo

nell’architettura gotica ogni elemento anche superfluo agisce proprio per il suo scopo, che è quello di restituire -in conformità a un assetto cosmico- un aspetto universale, in cui l’adattamento di ogni forma del creato (dal più piccolo al più grande, da ciò che riteniamo superfluo a ciò che consideriamo essenziale) si riconosca in forme che abbiano relazione con un Kosmos pluralizzato, poiché il pluralismo cosmico nulla da sé esclude.

Ogni cosa merita di essere conosciuta

All’affermazione «si eviti ogni prolissità e ogni intreccio di annotazioni di poca importanza che non meritano lo sforzo di essere letti», si risponda:
se nell’avvicendamento universale di macro in micro e di micro in macro si esprime la condizione cosmica, allora non si eviti -in un’architettura che voglia in sé validare la compagine concettuale dell’universo- ogni intreccio di annotazioni di poca importanza (poiché nel progetto divino non vi sono esseri e cose di poca importanza, tutto in esso -dal piccolo al grande, dal buono al cattivo, dal bello al brutto, dal positivo al negativo- ha un valore intrinseco ed estrinseco- ed è al posto giusto), ch’è ogni cosa creata dal creato merita di essere conosciuta. Per chi persegue la vera conoscenza tutto merita di esser preso in considerazione.

Racchiudere molte forme in ciò che è di per sé limitato

A… «usare molte parole per esprimere pochi pensieri è sempre infallibile segno di mediocrità; prova di una testa eminente, invece, è racchiudere molti pensieri in poche parole», si dica:
non usare molte forme per riuscire a esprimere la vastità pluralistica della complessità di una cosmica creazione è sempre infallibile segno di mediocrità; prova di un’architettura ben riuscita nel proprio intento -come quella gotica-, invece, è racchiudere molte forme in uno spazio che è di per sé pur sempre limitato.

Lo stile casto non esprime la complessità dell’universo

A… «come in architettura bisogna guardarsi bene dall’abbondare con gli ornamenti, così come nelle arti oratorie ci si deve guardare da tutti gli ornamenti retorici non necessari, da ogni amplificazione inutile e in genere da ogni sovrabbondanza nell’espressione, e cioè ci si deve dedicare a uno stile casto», si risponda:
come in una architettura che persegua un effetto formale e strutturale pluralistico (qual è quella gotica), bisogna abbondare con svariati elementi formali per conferire all’intera struttura architettonica l’aspetto di una cosmogonía. Così nelle arti oratorie occorre guardare a tutti gli ornamenti retorici, a ogni amplificazione, a ogni sovrabbondanza nell’espressione se ci prefiggiamo il fine di esprimere al meglio un discorso suscitato dallo sgomento cosmico. Dunque, rinunciare a uno stile casto… se si intende esprimere anche solo a parole la complessità dell’universo.

L’architettura, in questo caso, non può infatti restare ferma, invariabile, inalterata, ordinata, ma deve ritrarre -con una certa passionalità parossistica- come se si trattasse di un linguaggio messo in bocca a una trance estatica, la mutevolezza, il vorticismo della complessità e dell’ambiguità.

A… «è contro ogni buon senso il fatto di intersecare un pensiero con un altro, come se si trattasse di una croce di legno. Ciò tuttavia accade quando si interrompe quello che si sta dicendo, per inserirvi un discorso completamente diverso, dando così in custodia al lettore una frase cominciata ancora priva di senso, finché non venga completata», si dica:

Intersecare un elemento con un altro per il multiforme

denota buon senso il fatto di intersecare un pensiero con un altro, una forma con un’altra, una linea con un’altra, come se si trattasse di ottenere un’ampia volta a crociera che in sé ne contenga delle altre, se il compito è quello di ottenere un’architettura multiforme, indefinitamente definibile. Ciò tuttavia accade quando si interrompe, ad esempio, una linea per inserirvi una linea completamente diversa da quella che l’ha preceduta, dando così al fruitore l’effetto di un’architettura appena cominciata, priva di forma compiuta e perciò ancora indefinibile nel suo senso, finché non venga completata.

L’universo non è compiuto né comprensibile

E se l’arte gotica pare non arrestarsi mai in una solida e ben definita compiutezza (com’è quella romanica), è perché: il giro dell’universo non potrà mai essere definitivamente compiuto; la conoscenza non potrà mai giungere a un’assoluta conoscenza; i segreti dell’universo non ci potranno mai esser svelati del tutto.

Il Gotico congiunge l’uomo con l’universo-Dio

L’architettura gotica ha così creato non solo una forma dedita all’ascesi, all’elevazione spirituale, con l’intenzione di congiungere la terra al cielo, l’uomo con l’universo-Dio, ma anche una forma che fa dire al fruitore, che in essa si trova a viverla spazialmente:

La nostalgia dell’unità
Albert Camus, Il mito di Sisifo… p.82

È il divorzio fra lo spirito che desidera e il mondo che delude, è la mia nostalgia dell’unità: l’universo disperso e la contraddizione che lega l’una all’altro.

Pertanto: «lunghi periodi, arricchiti di proposizioni secondarie incastrate l’una nell’altra e dalle stesse imbottite», sarebbe sbagliato considerarli negativi se questi venissero tenuti in conto secondo l’accezione gotica: l’architettura gotica (così pure ogni sua forma espressiva) trova terreno in tutto ciò che l’uomo complica, col proprio pensiero, pensando e riflettendo sui segreti dell’universo. A un pensiero ne succedono incessantemente altri, il flusso riflessivo è inarrestabile e, pertanto, incomputabile nei suoi innumerevoli ragionamenti.

Una cattedrale gotica come un’enciclopedia di immagini

Insomma «periodi simili» che «forniscono al lettore solo frasi compiute a metà che la sua memoria a questo punto deve accuratamente raccogliere e conservare, come i frammenti di una lettera stracciata, finché completate dalle altre rispettive metà aggiunte in seguito, esse ottengono un senso», sono quelli che più indubbiamente si adattano a rappresentare un’architettura sostenitrice di una elucubrazione che miri invano a rivelare i segreti del trascendentale. È perciò del tutto pertinente aver l’impressione, entrando in una cattedrale gotica, di trovarci all’interno di una enciclopedia di immagini e forme, di simboli e allegorie, di colori e giochi di luci cangianti. L’insufficienza del nostro occhio ad abbracciare il tutto, e della nostra mente a memorizzarlo, sottolinea la debolezza dell’uomo (incapace di estendere i propri sensi conoscitivi su tutto il creato) rispetto alla inesauribile forza energetica del divino.

Aspirare a interpretare l’universo

Quindi ciò che ivi, fra quel bailamme di pluralistici elementi estetici, possiamo fare, è solo aspirare di avvicinarci (chissà come, chissà quando, spiritualmente-astrattamente) alla reinterpretazione dell’universo, acquisendo poco alla volta, tassello dopo tassello, quegli elementi conoscitivi in grado di condurci a una sensazione del divino che si cela nell’energia che ha tutto originato.

Per cui ben s’intona all’arte gotica ciò che Octavio Paz scrive a proposito della «composizione filosofica in versi» Primero sueño di Suor Juana Inés de la Cruz:

Octavio Paz, Suor Juana Inés de la Cruz. Garzanti, Milano 1991, p.416

non è una descrizione bensì un discorso, e il suo tema è astratto; le frasi si prolungano in incisi e parentesi, espediente imparato da Góngora che la poetessa usa con intenzioni diverse: non per descrivere ma per narrare un unico racconto, in cui ogni episodio è una esperienza spirituale.

Commedia e pluralismo verbale e stilistico gotico

In fondo… il Gotico non è forse la sorella minore del Barocco?
Volendo prendere in considerazione il linguaggio adottato nella Divina Commedia, non possiamo fare altro che constatare che esso si manifesta all’insegna di un pluralismo verbale e stilistico simile a quello riscontrabile nell’architettura gotica.

Parole e immagini irritabili contro il desiderio di distensione

La Divina Commedia è sì la descrizione di un’esperienza terrena, ma è anche il racconto realistico di ciò che in quell’esperienza si è vissuto. Anche qui vige la forma aperta, connaturata a un registro verbale sorprendentemente molestato da un lirismo sporcato da un linguaggio pluralizzato, e da parole e immagini irritabili che non esaudiscono il nostro desiderio di quietezza e distensione, impiantate su un discorso che spezza l’ordinarietà di una consequenzialità rettilinea.

Tutto ciò fa della Divina Commedia un testo dalle entità verbali e strutturali innumerevoli, da cui se ne ricava un luogo dalle prospettive aprospettiche, realisticamente surreali, collocate in un linguaggio fruibile da disparati angoli di vista, pluralizzato da una contaminazione implacabile di argomenti e parlati come inscritti nel sistema di un cantiere in corso.

Nell’Inferno non v’è la riflessività del Paradiso, il verso ammorbidito, a volte, nel pensiero speculativo e contemplativo. L’Inferno è un’orgia caratterizzata da parole pultàcee, che sforacchiano visivamente l’udito.

La parola dell’Inferno è mordace, un urlo primitivo e collettivo dei dannati che sguazza nel fango

La sua parola è un urlo lercio e immondo, non dà ebbrezza, è aspra e mordace, accomuna in sé tutte le urla e le bestemmie dei condannati, all’impurità ìnfera è condannata ed è intensa di accenti rudi: la sua sonorità è primitiva, come un suono destinato a sguazzare nel fango.

Estetica cosmologica dell’intersecazione macchinosa e labirintica

L’estetica cosmologica, è l’estetica dell’intersecazione, dell’interporre, del frammettere, dell’orditura, e ciò perché il sapere che s’incammina verso la conquista dei segreti cosmologici non può che aspirare all’indefinibilità dell’universalismo: la sorgente del sapere è infinita, per tradurla in forma estetica non può che tradursi in un artificioso arcano e perciò narrare la complicazione inestricabile dei segreti insolubili.

La linea in garbuglio (che imbroglia la linearità), l’intreccio macchinoso tra fioriture di linee e forme plastiche, impreziosite da volumi minuziosamente elaborati per dar vita a una sovreccitazione di forme in eccesso, mirano a ordire il regno della complessità cosmica, fedele all’archetipico di una progettualità ispirata al Kosmos.

Arabeschi, intrecci, increspature, linee (sinuose e spezzate) e forme labirintiche (anche quando queste sono chiamate a modellare il mero panneggio di una veste), si liberano nello spazio per compiere un’architettura vertiginosa, di contaminazione formale, per conferire al tutto l’aspetto di un macrocosmo pluralistico.

La proteiformità della natura e la proliferazione di forme a colpi di mutevole
Jean de Chelles, Rosone transetto settentrionale, Cattedrale Notre Dame de Paris, 1250

L’architettura espressionista (che in sé comprende tante cose in comune con quella gotica) ci mostra una struttura posseduta da un modellato architettonico che ha come intrinseco contenuto formale l’orgoglio di una massa plastica prometeica: la sua fiducia nella proteiformità della natura si riflette -come nel Gotico- nella proliferazione di forme fondate su ciò che la multiformità della natura suggerisce. La sua forma mima il travaglio dell’abbondanza multiformale della natura e delle irregolarità profuse dai suoi inarrestabili cambiamenti. Assistiamo a una forma che ascende e discende, si trasforma e diviene, freme sotto i colpi del mutevole: è stravagante, eteròclita, capricciosa, apparentemente incongruente. Dico apparentemente incongruente… poiché la sua insolita e sregolata forma ha una sua logica, conforme a un preciso disegno architettonico.

Hermann Finsterlin (1897-1973), su incitamento di Bruno Taut, scrisse per la rivista Frühlicht, da questi fondata, un testo che potremmo considerare un manifesto sull’architettura espressionista:

Hermann Finsterlin, L’ottavo giorno (Frühlicht fascicolo 11) in Gli anni della avanguardia architettonica in Germania 1920-1922. Mazzotta, Mi-
lano 1974, pp.55-56

Da parte dell’ambiente tradizionalista uno dei rimproveri principali che viene mosso alla nuova casa e soprattutto alla mia architettura è quello dell’imitazione della natura. Dicono che la mia gamma di modelli si compone di lumache, funghi, coralli, ecc. Io riconosco un solo impulso creativo, una volontà formativa e la sua efficacia sul cigno del lago di Loto come su una goccia di infusorio, sull’ameba come sulla nebbia di Andromeda. Solo ciò che è immediato e irripetibile distilla i valori. Il nostro mondo sensitivo è un frammento piccolissimo del caleidoscopio eterno, il supremo crea solo se è coordinato e vibra all’unisono con le pulsazioni divine, e trasmette le sue manifestazioni alla sfera di vita del mondo terrestre.

Uno pseudomanifesto dell’architettura espressionista: l’impulso creativo e la volontà formativa contro la cecità del Bello

Forse che la natura non è presente nelle creazioni dell’arte antica? La colonna, con le sue foglie di acanto accanto e i germogli di loto, non si offre ancor oggi al confronto con la palma che le cresce vicina? E il duomo gotico della palma non si inarca sopra ogni carovana che sosta nell’oasi, simile a mani di un dio che filtrano la calura attraverso la griglia spaziale di verde mistico? E la cupola di San Pietro vista dalla lontana Messina non sembra forse il cadavere lillipuziano di un echinoderma senza spine? E le facciate dei nostri esercizietti stilistici non presentano con superbia aristocratica i loro totem, tutta una collezione di prodotti naturali dall’acanto alla conchiglia di Venere, dall’ovidotto ai facchini con la testa di Medusa e agli atleti muscolosi di un penitenziario mitologico, per mascherare pietosamente il buon vecchio cubo privo di idee; una mascherata, una festa saturnale del primo regno della natura?

Qui sta l’“apriti Sesamo” dell’architettura moderna, nel ricercare lo stile non più nell’enantèma ed esantèma delle forme fondamentali più primitive, ma nei mutamenti complessi della grande forma in sé e dei suoi organici subindividui. Poiché sono esantèmi queste esercitazioni stilistiche, tutte eruzioni estranee e mimetiche di un organismo primitivo, sanzionato per millenni dalla perversità estetica di un occhio troppo umano sulla base del principio della cecità del Bello.

L’Espressionismo, lo spazio miracoloso del Tutto

Con l’Espressionismo siamo di fronte a un’architettura disinvolta: vorrebbe acquistare tutte le forme e i colori della natura come sue primizie. È lo spazio miracoloso del Tutto e, in quanto tale, deve esporsi a un gioco di forme e di luci cangianti che non può governare. È come uno strumento sonoro da cui vengono emanati suoni immaginabili e inimmaginabili, per conferire al proprio brano musicale una sinfonia esercitata da forze policromatiche.

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