La Natura morta con agnello -1908, di Oskar Kokoschka, non è nelle sue forme né ben definita né compatta, è invece accuratamente erosa, tutto il suo aspetto compositivo cede, è un precipitare nella forma inferiore, nel fatiscente. Tutta la composizione si mostra come materia abrasa dai propri conflitti interni, vituperatrice; corpo ferito (l’agnello) da accenti cromatici corrosivi, pieni di scoramento: sì, distorsioni cromatiche che incarnano la caducità. Già, che cosa vedi realizzarsi nell’oggi, preoccupato solo del presente? Davanti agli occhi hai questa natura morta, fatta di elementi prelevati dalla tua esistenza. Non vedi dunque come nella tua esistenza… tutto va facendosi sempre più logorato? che ci fa quel topolino bianco che par si diriga verso di te? allegoria dell’impuro, mascherato dalla purezza e castità del bianco? corpo d’animale infetto, a ricordarci la cloàca, dall’uomo stesso creata?
La salamandra, la lumaca, l’agnello scuoiato, la brocca di terracotta, il pomodoro, il tulipano, la tartaruga, la piccola biscia, che cosa starebbero a rappresentare (qui riuniti tutti insieme: fortuitamente?) se non l’allegoria di un piccolo ecosistema (quasi una moderna Arca di Noè) ingabbiato nell’impero umano della degradazione? Da questa pittura si estromette il linguaggio consolatorio. Persino l’invelenimento e la tossicità dei colori sembrano che siano stati lasciati dalla malignità di un verme… di cui il verme si nutre.
Quale potrebbe essere il senso ultimo che si cela nell’allegoria di questa Natura morta con agnello? Azzardiamo nel dire: l’uomo, nei riguardi della natura, è espropriante; il suo modo di realizzarsi con essa è sempre irriverente e distruttivo; per donarla alle sue brame, la contamina; per conquistarla, la colloca in un ruolo di sudditanza: in una màcabra natura morta, appunto. L’arte deve svegliarsi sulla punta di un coltello. Dev’essere affilata. Tagliente. Ma anche ruvida, ronchiosa, scontrosa. Deve rubarci qualche attimo di felicità, per avvicinarci agli occhi l’olezzo acre della miseria, e farci così sentire più vicini agli uomini:
Amo gli uomini, non i singoli. Soffro con i miseri a causa della miseria.
Eppure, nonostante tutta questa tragicità esistenziale, per l’Espressionismo l’arte deve spezzare la tristezza esistenziale, pur restando triste. Pur restando triste deve burlarsi della propria tristezza. Su questa tua afflizione e demoralizzazione… che cosa l’arte ti ha vomitato sopra? Ecco: una corbellatura grottesca, una cèlia scherzosa e provocante, un tiro birbone e irridente, ridanciano e schernitore:
Povera Lisel! Il senso di impotenza, di totale abbandono che ti ha sopraffatto, io ce l’ho spesso. L’unica consolazione è: essere tristi. Quando la tristezza degenera in disperazione bisogna diventare grotteschi. E continuare a vivere per burla. Dobbiamo tentare di elevarci riconoscendo che l’esistenza è fatta solo di scherzi e bassi brutali.