Saggio sopra l'espressionismo

George Grosz

Grosz: l’umanità da circo, assassinii commessi da buffoni, la guerra pagliaccesca di atrocità goffe e buffonate

Fra i temi sviluppati da Grosz, non v’è soltanto una umanità grottescamente addomesticata dal circo (in cui più che assistere alla spensieratezza dei giochi circensi, assistiamo a un’arruffata vegetazione di attività sì giocose ma ridicolizzate da pupazzi che nuotano goffamente nello spazio caotico della composizione, come tante pròtesi ortopediche sragionanti), o assassinamenti commessi da figure buffonesche (maschere sconciamente ritratte in smorfie farsesche, a mostrare squacqueratamente la parodia della ridicolaggine), o scene di varietà rigurgitanti di caricature burattinesche, di scimunitaggini satanicamente scherzevoli, o la guerra ridotta anch’essa a una pagliaccesca spettralità tutta piena di atrocità sghignazzanti, sbardellatamente inzeppata di gofferìe e buffonate.

Anche la geometria urbana è umoresca

Ma v’è pure la sballata geometria metropolitana: geometria umoresca, arlecchinesca, piagata da un coacervo di sgorbi e buffoni imbestialiti: bulicame di torbidumi, di istrioni e ciurmatori; geometria bestemmiatrice, rinnegata, èpa sacrílega che rutta facce di bertucce deformate, scimmioni insaniti.

Opere che vogliono imbarazzare perché rispecchiano la realtà

Ogni opera di Grosz mira a metterci in imbarazzo. Osservando la geometrizzazione rutilante (deformata e deformante), raffigurata in A Oskar Panizza, ci sentiamo come tirati dentro: lì ci imbattiamo in noi stessi, nell’incontrollabile flusso della frenastenìa quotidiana, nella furente idiozia di una società assoggettata a una civilizzazione scombiccherata dai propri convulsi ritmi di sopravvivenza, polverizzata in non-sensi.

Il punto di fuga aprospettico futurista e la raffigurazione cubista degli edifici ne Il funerale. Dedicato a Oskar Panizza: un contrasto stridente

In quest’opera, Cubismo e Futurismo agiscono in un unico asprosonante e tumultuante spazio. Il punto di fuga aprospettico futurista, che fa sfrullare e strèpere il cuneo di fuga entro cui romba e sbaccana una conflagrazione di figure indiavolate, si ripercuote abbondantemente sulla raffigurazione cubista degli edifici. Il contrasto che ne sorge (fra la rigida scansione geometrica cubista degli edifici e lo strepitante cuneo futurista, stridente e assordante) accentua ancor di più il bolli-bolli gorgogliante di quella macabra gazzarra.

La danza macabra di James Ensor come satira sociale
James Ensor, La morte e le maschere, 1897, Liegi, MAMAC

V’è pure la lezione di James Ensor, che qui si espone in tutta la sua ferocia: eccoci al regresso medievale di una danza macabra, ingolfata da una gravitonante baldoria buffonesca. Quella giungla di maschere… ci fornisce un delirio collettivo seducente.

Johan Huizinga, L’Autunno del Medioevo. Rizzoli, Milano 1995, pp.199, 196, 203

Ciò che infatti ci seduce, nell’osservar quella calca, è il fatto che essa ci riconduca al valore morale della «danza macabra», che «non era soltanto una pia esortazione» ad attenersi a determinate regole sociali, e a tener conto che la caducità della vita ci ricorda che «davanti alla morte tutti sono uguali», «bensì anche una satira sociale». Quelle maschere ci mostrano genuinamente (ricorrendo a un carattere formale primitivo e rozzo, poiché «la visione macabra della morte ignora l’elegiaco ed il delicato») la condensazione di una visione che ci svela brutalmente una umanità geneticamente inferiore alle aspettative createsi sulla base del suo cammino evoluzionistico. Qui è ancora l’animale scimmiesco che ha il sopravvento: quelle facce appartengono a isterici discervellati, a èbeti nevrastenici.

A Oskar Panizza di Grosz come L’orgia parigina di Rimbaud
Arthur Rimbaud, Opere. Feltrinelli, Milano 1975, pp.99-103

Quest’opera ci ricorda, di Arthur Rimbaud, scritta nel maggio 1871:

L’ORGIA PARIGINA OVVERO PARIGI SI RIPOPOLA

Eccola qui, vigliacchi!
Riempite le stazioni!
Il sole ha ripulito coi suoi polmoni ardenti
I viali che una sera pullularon di Barbari.
Ecco la Città santa, assisa in occidente!

Non temete! Gli incendi non torneranno più.
Eccoli, i Lungosenna, ecco qui i viali, ed ecco
Le case sull’azzurro leggero e radïoso
Che una sera gli scoppi di bombe costellarono!

Nascondete i palazzi nelle nicchie di legno!
L’antica luce smorta vi rinfresca lo sguardo.
Ecco la mandria fulva di chi dondola le anche;
Impazzite: se torvi, forse sarete buffi!

Torma di cagne in foia che mangi cataplasmi,
I tuoi ridotti d’oro ti gridan di tornare!
Vola! Mangia! La notte di gioia spasimante
Ecco che cala ovunque! O tetri bevitori,

Bevete dunque! Quando viene la luce pazza
Che fruga al vostro fianco in quel lusso sfacciato,
Non sbaverete forse, muti, senza un sol gesto,
Dentro le coppe, spersi in scialbe lontananze?

Trincate alla Regina dalle chiappe crollanti!
Ascoltate il travaglio dei vostri rutti stupidi
E laceranti! Udite nella notte rovente
Saltare i vecchi idioti, i fantocci, i lacché!

O cuori imputriditi, boccacce spaventevoli,
Su, funzionate meglio, bocche piene di lezzo!
Date vino all’ignobile torpore sulle tavole…
O Vincitori, avete pance ripiene d’onta!

Aprite le narici alle superbe nausee!
Tuffate nel veleno quelle corde del collo!
Abbassando le mani sulle nuche puerili
II Poeta vi dice: “Vigliacchi, siate pazzi!”

Poi che voi grufolate nel ventre della Donna,
Temete che in quel corpo si formi un nuovo spasimo
Che gridi e che vi asfissi, con un’orrenda stretta,
Quando voi pullulate, turpi, sopra il suo petto!


Sifilitici, pazzi, buffoni, re, ventriloqui,
Che cosa può importare a Parigi la troia
Delle anime che avete, dei corpi, dei veleni?
Vi scuoterà di dosso, ringhiosi ed infrolliti!

Quando sarete al suolo, sbudellati e gementi,
E, stroncati, dementi, vorrete i vostri soldi,
La fulva cortigiana dai seni bellicosi
Vi lascerà intontiti torcendosi le pugna!

I tuoi piedi han ballato frenetici nell’ira,
Parigi; ti han trafitta con mille coltellate!
Sei caduta, ma avevi nelle pupille chiare
Un po’ della bontà della fulva rinascita,


O città dolorosa, o città quasi morta,
Col capo e coi due seni rivolti all’Avvenire
Che schiude al tuo pallore le sue innumeri soglie,
O Città che il passato forse benedirà;

Corpo magnetizzato per immani travagli
Ecco che ora ti abbeveri alla vita terribile!
Un fluire di vermi ti percorre le vene,
E sul tuo chiaro amore passano dita gelide!

Ma questo non è male. I vermi, i vermi lividi
Non turberanno in te il soffio del Progresso:
Le Strigi non spegnevano gli occhi delle Cariatidi
Su cui l’oro degli astri scendeva dall’azzurro.


Benché sia cosa orribile vederti tanto oppressa,
Benché mai si sia fatto d’una vasta città
Piaga più purulenta nella verde Natura,
Il Poeta ti dice: “Grande è la tua Bellezza!”

La bufera ti ha fatto suprema poesia;
L’immenso brulicare delle forze ti aiuta;
Ferve l’opera tua, la morte rumoreggia!
Metti in sordina il grido nella tua tromba sorda.

Saranno del Poeta il pianto degli infami,
L’odio dei Galeotti, il clamore dei Reprobi;
I suoi raggi d’amore frusteranno le Donne.
I suoi versi scattanti diranno: Ecco, banditi!

– Società, tutto è in ordine: – le antiche gozzoviglie
Rantolano di nuovo nei vecchi lupanari:
Ed i gas in delirio, contro i muri arrossati,
Fiammeggeranno sinistri verso quel cielo squallido!


I versi incalzanti riflettono lo stato d’animo adirato

Il ritmo è incalzante e angosciante. Una bufera furente pare si sia abbattuta su quei versi: è la rabbia con cui il poeta inveisce contro quella «torma di cagne in foia». Accecato dallo sfacelo metropolitano, non può che far corrispondere ai versi uno stato d’animo in preda all’adiramento e al disdegno.

La furente disperazione di Rimbaud come il rosso sfiammante di Grosz

Nella descrizione di quella Parigi (così pure la folla in delirio da Grosz ritratta in A Oskar Panizza) rapide pennellate di velenosità soffiano nel fuoco di una sfuriata implacabile. Versi arroventati di furente disperazione (come il rosso sfiammante che incombe su tutta la composizione di Grosz) rovesciano parole andate in bestia: v’è impetuosa ingiuria e virulenta rampogna contro l’orgiastica corruzione metropolitana. Il verso si accende di invettive crepitanti, a ogni parola corrisponde un esasperato improperio, e ogni descrizione di quell’orgiastica demenza collettiva ci inonda di raccapriccianti mostruosità sociali.

Il verso pieno di ingiurie come i ritratti grotteschi di Grosz

Il verso caricato d’ingiurie lo ritroviamo emulato nei ritratti grotteschi che Grosz scarica su quel boato di umanità ammassata: quelle facce rumicciano a insània, sfríggolano a forsennatezza, sbaccaneggiano a farneticanti, gurgugliano a mentecatti, schiamazzano a insensata scabbia e psicopatica orticaria. È il cervello di un’intera società che lì grilla e impazza. Infine… che ci dice quello scheletro seduto sulla bara che tracanna a una bottiglia, e sembra tutti invitare a seguirlo in quel suo gesto? Occorre ammettere che i seguenti versi di Rimbaud ben si adattano a questa scena:

Trincate alla Regina dalle chiappe crollanti!
Ascoltate il travaglio dei vostri rutti stupidi
E laceranti! Udite nella notte rovente
Saltare i vecchi idioti, i fantocci, i lacché!

fabio d'ambrosio editore
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