Saggio sopra l'espressionismo

il terremoto di Messina

Malignità umana e naturale

E quale sarebbe il limite che separa la malignità umana da quella della natura?

Max Beckmann, Scena dalla distruzione di Messina, 1909, St. Louis (Missouri), St. Louis Art Museum

Il Terremoto di Messina, opera realizzata da Max Beckmann nel 1908 (anno in cui accadde quell’immensa sciagura), abbatte le frontiere fra i due poli, facendoli compenetrare quasi fossero insieme proiettati verso un unico scopo.

La forza violenta della natura ha portato corpi a contorcersi dalla sofferenza, riportato tutto alla sua forma limosa e terrosa (marroni e carne infangata). Violando l’uomo, la natura viola anche se stessa

Il lato maligno della natura viene rimarcato da un gruppo di corpi da essa violato: i sopravvissuti alla catastrofe hanno assaporato ciò che di peggio c’è nella forza violenta della natura, sembra un proscenio emerso dall’oltretomba, su cui viene rappresentato un atto concepito per opera maligna: corpi nudi dalla muscolatura aggredita da contorsioni che, sia pure sfiancati dal trauma subíto, si muovono guarniti da una sofferenza che li fa torcere. In questa scena vi persistono tonalità cromatiche tendenti a marroni ottusi e grevi, caricati di torbidiccio. L’atmosfera è motosa, i corpi son stati ammelmati da tonalità di carnicino infangato. La natura è stata zelante nella sua capricciosità: ha riportato tutto alla sua forma limosa e terrosa.

Il lato maligno dell’uomo sfodera (sul lato sinistro della tela) tutta la sua atavica belluinità: vi si inscena un tentativo di stupro. La crudeltà dell’uomo è simile a quella della natura: la natura ha violato l’uomo e lo spazio entro cui esso sbarca il lunario, e violando l’uomo ha violato anche se stessa, poiché l’uomo è parte integrante del suo regno naturale; l’uomo violato dalla natura, víola nel contempo il suo simile, e nel violare il suo simile víola se stesso dopo esser stato dalla natura violato. In definitiva, natura e uomo sono affratellati da una reciproca malvagità. Di conseguenza, nell’Espressionismo notiamo alle volte che ciò che si riscontra nell’ordine della natura è ciò che vive nell’inesauribile lotta fra vita e morte, fra Eros e Thánatos.

Non v’è eroicità nell’effimera concretezza dell’opera umana, ma solo il grandioso cerimoniale di un’esperienza impegnata a uccidere e a uccidersi.

L’uomo nell’Espressionismo tradisce la natura e la sua stessa natura, la città tradisce la natura perché è il dominio del superfluo

Nell’Espressionismo è sempre ritratto l’uomo che tradisce la natura e la sua stessa natura. La rappresentazione della città è già un tradire la natura: essendo essa il dominio della superfluità permissiva, per l’espressionista non è che l’esibizione del sensismo sovraeccitato dal relativismo. Esporsi al mondo della città vuol dire per l’espressionista andare incontro ai modelli da essa codificati e ai suoi comportamenti imperanti.

La seduzione della città: punti di fuga aprospettici, figure smarrite nell’incompiutezza di un’esistenza senza progetto

Il linguaggio fugace della sua seduzione, è rappresentato con spazi urbanistici che emergono da punti di fuga aprospettici, in cui figure e paesaggi si smarriscono in una architettura dell’incompiutezza, che si abbiglia di un’esistenza senza progetto, capace però di mettere a profitto un vuoto pieno di attrattive, addomesticato da valori anemici.

Linee, colori, forme sparati con violenza sulla tela

I Paesaggi apocalittici, di Ludwig Meidner, ci riversano addosso la monarchia della nevrosi. Siamo alla retorica della vertiginosità, che dipinge uccidendo la pittura: linee-forme-colori vengono sparati con violenza sulla tela, perché il tutto sembri distrutto dalla zavorra quotidiana.

Tirolo di Franz Marc: caotica compenetrazione di linee-coloriforme

L’effetto caleidoscopico che vi troviamo in Tirolo di Franz Marc, ci immette visivamente in una caotica compenetrazione fra linee-colori-forme, come ripescata da un paesaggio montano, naufragato in un caos spettacolare. Ma l’effetto che ne ricaviamo è anche quello di un’accozzaglia di colori-linee-forme che abbiano reagito violentemente alla sostanza rovinosa di una collettività autodistruttiva.

Composizione ambigua, tra violenza e innocenza, tra dolore e gioia

La composizione è così tanto ambigua da essere in grado di suggerirci: ora una sorta di caos primordiale, in cui il tutto pare che incominci a prender forma; ora un’eiaculazione di effetti pittorici martellanti, provocata dal coito fra una natura in sboccio e un mondo esploso dal suo interno; ora un mondo come fatto esplodere da politiche aggressive e indisponenti: le linee, infatti, che con violenza si stagliano in mezzo al coacervo di colori, ci suggeriscono tracce di inquietanti scudisciate e segni simbolicamente oscuri. Insomma, qua ci si sazia di colori che sbaccaneggiano come ossessi di un rito dionisiaco, là, in mezzo a forme e colori feriti da linee che strèpitano di dolore, le forme sembrano, masochisticamente, godere di gioia.

fabio d'ambrosio editore
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