L’Espressionismo ci visualizza quasi sempre l’universale agonia delle cose e degli esseri che convivono nell’ineffabile caducità del loro quotidiano deperimento. Quando guardiamo un’opera espressionista, assistiamo al fenomeno di un deperimento organico. Figure e paesaggi originano da un tessuto corporeo in decomposizione. Morte e vita si fanno guerra. E a soccombere è sempre la vita. La vita si tramuta in materia in decomposizione, non assistiamo in essa a uno spettacolo imperituro. La forma si putrefà, e muta: ridiviene vita morente.
Una forma che sparisce dalla propria forma e riemerge sotto forma di un’altra forma. Ma questa forma pare sempre provenire da un luogo in stato di angoscia, o traumatizzata dall’olezzo di innumerevoli guerre esistenziali non quantificabili.
Qual è il punto centrale dell’Espressionismo? È quello di un’arte che se ne sta come accucciata nella mímica sconnessa dell’epilettico, nella paradisiaca dissennatezza del folle, nelle illuminazioni di un dolore che soffre le proprie contraddizioni.
Eppure nell’Espressionismo v’è del liberato. Il colore infatti è libero di ammonire se stesso; il paesaggio è libero di lasciarsi deformare dall’urlo primordiale della natura; la città è libera di rivelarci il proprio assetto urbanistico, dilatato dall’incessante foga di un caos innaturale; la figura umana è libera di registrare su di sé persino gli effetti della nevrosi tripudiante e della sofferta liturgía mistica, sputata da un corpo diseredato e messo al bando da una società inospitale.