Saggio sopra l'espressionismo

l’arte espressionista non è desiderabile

Il corpo sofferente dell’arte espressionista: incapacità di soddisfare i desideri, allegoria del vinto e del represso

Nell’arte espressionista tutto viene come imprigionato in un corpo sofferente, che non sa più soddisfare i propri desideri, allegoria del “vinto” e del “represso”, in cui vi si rispecchia il patriarcato del pensiero dominante, incapace ormai di pianificare la propria esaltata sessualità, socialmente patrizzata e appagante.

Eccoci dunque all’inesauribile follia accudita da un corpo disorientato da una mascolinità psicologica, vissuta traumaticamente sia dalla perdita di identità sia dalla degenerazione psicocorporea.

Il nudo di Schiele, spersonalizzato e al limite dell’anoressia esistenziale

Il nudo di Egon Schiele non è che la rappresentazione di una collettività sociale malata. È un nudo che critica le prescrizioni morali della borghesia, e l’ingenua credulità di coloro che si lasciano da essa sottomettere; è la deboscia generalizzata di una corporeità dissociata totalmente dal piacere e dal piacersi sensualmente.

Nei nudi di Schiele vi si esprime il degrado psico-fisiologico di un corpo contenuto in una struttura anatomica emaciata e smunta (al limite dell’anoressia); corpi spersonalizzati da pennellate di colore infermiccio, livido, intristito da tonalità torbe e ammortite, che espellono il frutto marcio di un’esperienza esistenziale affannosa e infelice.

Il mondo è fatto di rovine

Il mondo è fatto della stessa materia delle rovine: l’individuo è essenzialmente ridotto a una realtà che s’è sfracellata contro il suo tormentato organicismo demenziale. La struttura ossea, in quei corpi, non sa più orientarsi, scalcia da tutte le parti, sembra voler a forza uscire da un corpo che non è più in grado di contenerlo, pare spingersi in fuori da ogni sua zona anatomica.

È un urlo che vuole affermarsi? è la disperazione di un corpo che vuole erotizzarsi attraverso un tormentoso sadomasochismo? è un corpo che si fa portavoce di un disagio sociale? È un corpo che, senz’altro, si specifica strutturalmente nell’equivocabilità di una anatomia modellata a detrimento di se stessa.

Anatomia architettonica deformata come nei film espressionisti

L’anatomia di questi corpi è analoga all’anatomia architettonica presente nei film espressionisti: le scenografie di interni ed esterni, sottolineate da strutture architettoniche deformate, come osservate attraverso impulsi visivi filtrati da una lente deformata o deformante, evidenziano storture prospettiche che molto hanno in comune con il panorama anatomicamente disformato dei nudi corpi di Schiele.

Locandina di Das Cabinet des Dr. Caligari, Robert Wiene, 1919

La sequenza di scorci e angolazioni caotici, non disgiunta da elementi architettonici aprospettici (caricati di punti di fuga, alterati dall’accumulazione di vedute prospettiche prese in flagrante nei loro effetti di precarietà e di forme catturate nel tumulto di linee orientate a sgrammaticare la loro geometrica e ordinata linearità, riscontrabili ad esempio nelle rappresentazioni architettoniche-scenografiche, realizzate nel film Il gabinetto del dottor Caligari, del 1919, di Robert Wiene) sembra riproporre la stessa organicità compositiva, destrutturata anatomicamente, che si riscontra nei nudi di Schiele.

Non sempre il vero è desiderabile
Albert Camus, Il mito di Sisifo. Bompiani, Milano 1964, p.73

«Cercare ciò che è vero (afferma Camus, ne Il mito di Sisifo) non significa cercare ciò che è desiderabile». Tale affermazione ben si addice a tutto l’Espressionismo. Nelle xilografie di Erich Heckel; nei nudi di Schmidt-Rottluff; nel magma cromatico informe (entro cui la raffigurazione umana subisce malformazioni) di Oskar Kokoschka; nelle visioni escatologiche-paesaggistiche di Emil Nolde; nei dislogamenti e slussazioni anatomiche, da cui prendono forma sformata gli animali di Franz Marc, non v’è infatti nulla di desiderabile.

I nudi di Schiele e le strutture architettoniche di Meidner non sono desiderabili

Così come non vi è nulla di desiderabile né nei nudi di Schiele, che negano alla carne la loro carnalità, né nello scardinamento e demolizione dell’ordine prospettico degli scenari urbani, animati nei film espressionisti, né in quelle strutture architettoniche che si perdono in ortogonalità devastate, che crollano su se stesse, di Ludvwig Meidner.
Perché l’espressionista opta per un’arte che non abbia nulla di desiderabile? Perché egli cerca di rappresentare ciò che è vero. E il vero… quando mostra soprattutto i suoi lati oscuri non ha nulla di desiderabile.

Rilke: allegoria di una metropoli violentata

Anche nella descrizione delle case che Rainer Maria Rilke fa ne I quaderni di Malte Laurids Brigge, non v’è nulla di desiderabile: le case sono andate alla malora, galleggiano sulla fatiscenza di un corpo urbanistico che si distrugge in una ricca gamma di strappi e lacerazioni esistenziali: è l’allegoria di una metropoli violentata da un paesaggio urbanistico irrazionalizzato: si è costruito sull’evidenza di un decostrutto che si pèrmea di materiali arrivati alla propria fine.

La forma urbanistica è morta oppure è un embrione guasto

Indebolita dal primato di una anatomia urbanistica, posta di fronte a se stessa come un corpo nascente da un periodo di transizione, la forma urbanistica architettonica (e l’esistenza in essa condotta) o è morta, o è in embrione come un feto di già marcescente:

Rainer Maria Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge. Garzanti, Milano 1980, pp.34-36

Si crederà che esistono case così? No, si dirà, io falsifico. Questa volta è verità, cui non tolgo nulla, e naturalmente non aggiungo nulla. Dove potrei attingere? Si sa che sono povero. Lo si sa. Case? Ma, per esser precisi, erano case che non c’erano più.

Case demolite da cima a fondo, tutti i muri, tranne l’ultimo

Case demolite da cima a fondo. Quel che c’era, erano le altre case, le vicine case alte che un giorno avevano fiancheggiato le distrutte. Si vedeva che erano in pericolo di cadere da quando era stato loro sottratto ogni appoggio di fianco; un’intera incastellatura di lunghe travi incatramate stava conficcata di sghembo fra il suolo coperto di macerie e il muro messo a nudo. Non so se ho già detto che di questo muro parlo. Ma non si trattava, per così dire, del primo muro delle case superstiti (come si sarebbe potuto pensare), bensì dell’ultimo muro delle case demolite. Si vedeva il suo lato interno. Si vedevano a ciascun piano le pareti delle camere, cui erano ancora attaccate le tappezzerie, qua e là gli aggetti dei pavimenti o dei soffitti.

L’ultimo muro

A fianco delle pareti delle camere restava ancora, lungo tutto il muro, un vano bianco sporco, e attraverso serpeggiava con andamento indicibilmente ripugnante, da verme, quasi da tubo digerente, la conduttura aperta e arrugginita dei gabinetti. Dei tubi per il gas illuminante erano rimaste tracce grigie e polverose all’estremità dei soffitti, e qua e là, inaspettatamente, si arcuavano e correvano dentro la parete colorata e dentro un buco nero e strappato. Soprattutto indimenticabili erano proprio le pareti.

La vita tenace di quelle camere non s’era lasciata sopprimere. Era ancora là, si teneva attaccata ai chiodi rimasti, stava sul resto di pavimento largo un palmo, era strisciata sotto gli aggetti degli angoli, ove durava ancora un po’ di spazio interno. La si poteva vedere presente nei colori che a poco a poco, di anno in anno, erano cambiati: l’azzurro in verde ammuffito, il verde in grigio, e il giallo in un bianco vecchio e stantio che marciva. Ma era anche presente nelle chiazze di colore più vivo, rimaste dietro gli specchi, i quadri e gli armadi; aveva segnato e stretto sempre più dappresso i loro contorni, per rifugiarsi poi con i ragni e la polvere in questi luoghi nascosti, ora messi a nudo. Era in ogni striscia strappata, era nelle bolle umide sull’orlo inferiore delle tappezzerie, ondeggiava nei brandelli staccati e trasudava dalle macchie schifose, affiorate da tempo.

Dalle pareti veniva un soffio di vita ostinato

E dalle pareti che erano state azzurre, verdi e gialle, ora inquadrate dai segni delle tramezze distrutte, veniva il soffio di quella vita, il soffio ostinato, pigro, ammuffito, che nessun vento aveva ancora disperso. C’erano in esso i mezzogiorni e le malattie e l’ultimo respiro e il fumo vecchio di anni e il sudore che gocciola sotto le ascelle e inzuppa i vestiti, e l’alito insipido delle bocche e l’odore di grappa dei piedi che fermentano. C’era l’acre dell’urina e il bruciato della fuliggine e il vapore grigio delle patate e il puzzo pesante e liscio dello strutto che diventa vecchio. C’era l’odore lungo e dolce dei lattanti trascurati e l’odore d’angoscia dei bambini che vanno a scuola, e l’afa dei letti dei ragazzi in pubertà. E molto s’era aggiunto dal basso, dall’abisso della strada che vaporava, e altro era colato dall’alto con la pioggia, che sulle città non è pulita. E qualcosa avevano portato i venti casalinghi, deboli, addomesticati, che restano sempre nella stessa strada, e c’era altro ancora, molto, di cui non si sapeva l’origine.

La visione penetra all’interno: il lacerto è di casa

Ho ben detto che erano stati demoliti tutti i muri, tranne l’ultimo? Di questo muro sto parlando. Si dirà che devo essere rimasto là davanti a lungo; ma giuro che mi sono messo a correre non appena ho riconosciuto quel muro. Perché questo è il terribile: che io lo abbia riconosciuto. Qui riconosco tutto, e perciò penetra subito in me: in me è di casa.

 
Arnold Schönberg, Lo sguardo rosso, 1910, Monaco di Baviera, Städtische Galerie im Lenbachhaus
Sguardo allucinato preda d’un incubo

Anche Lo sguardo rosso di Arnold Schönberg è quanto vorremmo non incontrare mai neppure nei nostri incubi: quello sguardo allucinato, che prorompe dal volto sformato, su cui sembra sia andata in scena la rappresentazione di un incubo o di chi sia stato vittima di un sogno opprimente, è angosciante e dolorosamente inquietante.

Quello sguardo ci risucchia verso il fondo di un morso esistenziale, ci profila la polverizzazione della ragione, in esso ci sentiamo persi nel delirio di un volto che si metamorfizza nella dissoluzione di sé: è ciò che proviene direttamente dall’inconscio?

Inconscio è indesiderabile

Se è ciò che ci proviene dall’inconscio… allora è indesiderabile.

Tumulto, scompiglio, subbuglio non sono desiderabili né riposanti

E ancora: il tumulto, lo scompiglio, il subbuglio straripante, la feracità rigurgitante, lo storcimento naturale degli elementi naturali, rappresentati nelle vedute paesaggistiche degli espressionisti, a causa delle loro storture provenienti dallo spasmo naturale contenuto nel vero della natura, non sono che indesiderabili per chi cerchi in un’opera d’arte la leggera, aeriforme palpitazione di una veduta paesaggistica che non lo inquieti, che lo culli dolcemente in una visione serena e riposante, rilassante e sognante.

L’aprospettica poesia espressionista è indesiderabile

Ed anche la poesia espressionista non è affatto desiderabile. È sconnessa sintatticamente. Potremmo dire: nella sua architettura verbale… è aprospettica. Non v’è chiarezza esibita. Il suo linguaggio non si congiunge con la staticità di una linearità rettilinea: è trasversale, e attinge parole più da una dispersione della chiarezza che dalla chiarezza. La sua verbosità pare completamente provenire da visioni visionarie ed estatiche.

Il suo respiro ritmico, la sua consequenzialità discorsiva, analoga alla costruzione di una geometria deformata, contiene in sé, come in una verbosità estatica:

Maria Maddalena de’ Pazzi, Le parole dell’estasi. Adelphi, Milano 1992, p.22

psicopatia… turbamento afasico… automatismo verbale… nevrosi…

Il linguaggio non ha ordine. Deviato dal suo percorso lineare, il suo discorso diverge fino all’espressione di una forma verbale esplosa:

Johannes Robert Becher, Ritmi meccanici in Vittorio Santoli, Storia della letteratura tedesca. Sansoni, Firenze 1985, p.445

Bombe alogiche, minano la sintassi tradizionale accademica, l’architettura linguistica borghese: ritmo melodia metafora vacillano; la lingua stessa produce, indipendentemente dal suo creatore, nodi di apparenza insolubili, anarchici, urtantisi fino ad esplodere.

Uno sguardo alla poesia di August Stramm ci rivela una scrittura quasi ricavata dagli spezzoni verbali, performanti, di una strada: macerie, in forma di parole. Il materiale verbale è un pezzo-frammento di maceria, collocato di fianco a un altro pezzo di maceria. Nel linguaggio della poesia convergono macerie.

Macerie in forma di parole

Macerie generate da una psiche alterata? macerie prelevate da una instabilità psicologica? macerie verbali prive di nessi reciproci, perché raccattate da distesìe-parestesìe, cioè da una sensibilità percettiva sinestetica a tal punto disturbata che gli stimoli provocano una percezione deviata dalla sua percettività normale? Fatto sta che son poesie che (alla stessa stregua della scrittura estatica) «non narrano azioni compiute, bensì eventi verbali, atti di parole…» da cui

Maria Maddalena de’ Pazzi, Le parole dell’estasi… p.31

Emergono un’equivalenza del contraddittorio (antitesi, ossimori) e una non equivalenza dell’identico (tautologie, endiadi). È un indizio che il parlante ha perduto il possesso del proprio discorso e dei suoi effetti, il discorso non avendo più pertinenza con l’oggetto di cui parla. Quest’ultima è anche la condizione in cui si svolge il discorso poetico. Caratteristica sua è appunto un ripiegarsi del linguaggio su se stesso con lo scopo di accentuare il grado di semanticità.

August Stramm, Tu (Du, 1915), in Vittorio Santoli, Storia della letteratura tedesca…, pp.45-46

APPETITO
Sgomentare Ricalcitrare
Resistere Lottare
Gemere Singhiozzare
Cadere
Tu
Stridere Appetire
Torcersi Afferrare
Riscaldare Spossare
Io e Tu.
Sciogliere Scivolare
Gemere Ondeggiare
Sparire Trovare
Io
Te
Tu.

TRISTEZZA
Camminare Sforzarsi
Vivere desidera
Rabbrividire Stare
Sguardi cercano
Morire cresce
il Venire
grida.
Del tutto
Ammutoliamo
Noi

La struttura destrutturata delle parole contro l’ordine formale

Le parole tra loro non coincidono, non collimano. Non formulano un discorso verbalizzato dalle consuetudini comunicative. Una parola è isolata dall’altra. Non v’è coesione fra ciò che dicono. La struttura, che tiene insieme le parole, è destrutturata. Assente. Ragion per cui… ci troviamo ad affrontare una combinazione verbale del tutto imprevedibile, inattesa, proprio a causa della mancanza di struttura.

È la struttura che in un qualsivoglia discorso ci accompagna a prevedere ciò che dovrebbe verificarsi in conseguenza alla consequenzialità strutturata di eventi verbali:

Rudolf Arnheim, Entropia e arte. Saggio sul disordine e l’ordine. Einaudi, Torino 1978, p.23

Struttura, per il teorico dell’informazione, non significa null’altro che questo: che ci si aspetta che si verifichino certe sequenze di elementi.

Secondo una struttura… nasce un certo ordine. L’ordine è logico, organizza per sé una unità di elementi chiusi in una integrità formale. L’ordine è declamazione della chiarezza, del finito, di ciò che mostra esplicitamente la propria forma. Quindi…

Rudolf Arnheim, Entropia e arte… p.23

In senso puramente statistico, d’altro canto, il termine “ordine” può venir impiegato per descrivere una sequenza o disposizione di elementi la cui probabilità di verificarsi per puro caso sia scarsa.

L’ordine è chiarezza e cerca sempre una forma compiuta

L’ordine non concepisce di essere concepito dal caso. Né mai accetterà d’essere concepito dal caso. L’ordine cerca sempre una forma compiuta per realizzarsi. V’è forma là dove c’è un ordine a concepirla. V’è ordine solo là dove c’è una forma che in sé lo racchiuda. E per quanto una forma sia stata concepita da un ordine, la forma non potrà mai rappresentare l’assoluto, poiché

Vasilij Kandinskij, Il problema delle forme
in Kandinskij-Marc, Il Cavaliere Azzurro. De Donato, Bari 1967, p.127

l’assoluto non va ricercato nella forma (materialismo). La forma è sempre temporale, e cioè relativa, poiché non è altro che il mezzo contingente, il mezzo necessario per la rivelazione odierna, il mezzo in cui questa risuona.
Il suono è dunque l’anima della forma, che solo per suo tramite può diventare viva e che agisce dall’interno verso l’esterno.
La forma è l’espressione esterna del contenuto interno.

La forma è espressione esterna del contenuto interno

Ecco perché l’Espressionismo non ha mai cercato di concepire una forma secondo un ordine formale che la racchiudesse in sé, omologandola a una struttura limitata alla propria forma, ma una forma né definita né formata.

La forma deve venire dall’interno:

La forma viene dall’illogico e dall’inconscio

– dall’illogico (la forma nata non da un modello già riposto nella ragione e nei suoi calcoli e postulati logici, ma dalla natura sperimentale dell’irrazionale, svincolata da ogni convenzione di modello acquisito, e da ogni metodo compositivo stereotipato, convenzionale);

– dall’inconscio (la forma che nasce dall’aver percorso un luogo oscuro del subcosciente, o dall’aver determinato un legame con l’acrobatismo di una visione proveniente da una profondità psichica):

Arnold Schönberg e Vasilij Kandinskij, Musica e pittura... p.19

«L’arte appartiene all’inconscio! Bisogna esprimere se stessi! Esprimersi con immediatezza!» (Schönberg a Kandinskij); o da una forma, per dirla con Kandinskij, non inscritta nell’assioma di una geometria pratica, euclidèa, ma in una geometria «antigeometrica» e «antilogica»: La costruzione è ciò che è mancato, quasi irrimediabilmente, alla pittura degli ultimi anni. È giusto ricercarla. Ma il mio modo di concepire questa costruzione è diverso. Penso infatti che l’armonia del nostro tempo non debba essere ricercata attraverso una via “geometrica”, bensì attraverso una via rigorosamente antigeometrica, antilogica. Questa via è quella delle “dissonanze nell’arte”, dunque anche nella pittura, come nella musica» (Kandinskij a Schönberg);

L’armonia non è geometrica

– da una forma che coesista con una visione calata nel vivo del proprio tempo e nel suo dinamismo, e nel suo labirinto linguistico di prospettive plurime, deformate, babeliche, destrutturate:

Franz Marc, La seconda vista. SE, Milano 1999, p.48

I grandi creatori non cercano la forma nella nebbia del passato, ma il vero e profondo baricentro del loro tempo.

Riguardo, poi, alla morale, cos’ha l’espressionista da porre a riscontro? Senz’altro una sua morale, che non ha, ad esempio, nessuna familiarità con il deontologista del pensatore inglese Jeremy Bentham.

Jeremy Bentham, Deontologia. SEI, Torino 1935, p.55

L’oggetto del deontologista – ci dice Bentham – è… insegnare all’uomo il modo di dirigere i propri affetti, in modo che essi siano più che è possibile subordinati al suo benessere.

La morale di Bentham: privarsi del piacere momentaneo per il piacere futuro

Fin qui l’espressionista potrebbe essere senz’altro d’accordo. Ma come si tradurrebbe tutto ciò nella pratica esistenziale di un uomo? Secondo Bentham, mettendo in moto una virtù che agisca come «una prudenza economa che accumula i propri interessi». E quali sarebbero gli interessi della virtù? Quelli che impegnano «l’uomo virtuoso» ad ammucchiare «nel futuro un tesoro di felicità», tenendo alla larga «l’uomo virtuoso» dal modus operandi dell’«uomo vizioso», che «è un prodigo che spende inconsideratamente i suoi interessi di felicità». Insomma, «l’uomo virtuoso» si priva del «piacere momentaneo» per comprare il «piacere futuro»; e si batte contro il nemico del «piacere momentaneo», poiché «la tentazione è il piacere presente, la punizione è la pena futura. Il sacrificio è il dolore presente, il godimento è la ricompensa futura».

Ribellione contro la morale che priva della felicità

L’impegno dell’espressionista è invece condurre una ribellione totale (sia nella propria arte sia nella propria vita) contro questa condizione di servitù che vorrebbe l’individuo assoggettato a una morale che lo privi dei piaceri momentanei della vita per guadagnarsi la beatitudine di una presunta felicità futura. L’espressionista esige per sé e per la sua arte una progressiva e ininterrotta ricerca della felicità, anche a costo di soffrire, costantemente, uno stato di inquietudine che lo leghi alla responsabilità (per la ricerca della propria arte) di sovvertire quell’ordine morale che vorrebbe privarlo dei piaceri momentanei.

Passato, presente, futuro

Per l’espressionista l’oggi è la rappresentazione del passato-presente-futuro. Il passato è nell’oggi così come è già nell’oggi il futuro. Ogni attimo della vita va vissuto come fosse già un attimo del futuro posto di fronte a se stesso.

L’artista deve consacrarsi alla natura

Ogni giorno va gustato e studiato. In ogni giorno, in ogni mese, in ogni attimo va cercata un’intimità con la natura. L’artista deve consacrarsi totalmente alla natura. Per Schiele infatti -come si evince da una lettera ad Anton Peschka, 1910, Vienna- vuol dire smarrirsi nella natura, senza neppure fuggire la sua caducità:

Egon Schiele, Ritratto d’artista. SE, Milano 1999, pp.16-18

A Vienna domina l’ombra, la città è nera, tutto è sotto il segno della norma. Voglio starmene da solo. Vorrei andare nella Foresta Boema. Maggio, giugno, luglio, agosto, settembre, ottobre; devo vedere cose nuove e studiarle, voglio gustare acque scure, vedere alberi scricchiolanti, venti selvaggi, voglio osservare stupito marce recinzioni di giardini nel loro essere sempre vive, sentire giovani boschi di betulle e foglie vibranti, voglio vedere luce, sole, e alla sera godermi le umide valli verdazzurre, seguire il luccichio di pesci dorati, veder crescere nuvole bianche, vorrei parlare con i fiori.

Immersione totale per dare forma veramente bella ai campi

Scrutare nell’intimo erbe e uomini rosati, saper dire di antiche chiese dignitose, piccole cupole, voglio correre via senza fermarmi su tondeggianti colline campestri attraverso vasti pianori, voglio baciare la terra e sentire il profumo di morbidi, caldi fiori di muschio; allora darei forma veramente bella ai campi colorati.
Di primo mattino vorrei rivedere il sole che sorge e potrei osservare il respiro della terra, scintillante.
I campi gioiosi si legano così bene alla fragranza dell’aria rosa. Scabri monti imbottiti d’azzurro velano grandi distanze. – Tu terra odorosa davanti a noi, sotto di me, allettami, rendimi maturo! Tu oscura, bruna terra polverosa, bagna i profumi attirando la fragranza dei fiori. Ingòzzati di sole, tu che ci dai tutto, gioia! Luce inestimabile, risplendi!

Ingozzati di sole.
Sii sempre un eterno fluire

Agisci, uomo operoso! Sii sempre un eterno fluire! Tu verde valle, tu mi guardi, verde aria liquida ti colma. (…)
Qui mi distendo sul muschio vivo, parlante, tra gialli, luminosi, mitiganti fiori; acque che respirano dicono la vita. –
E sopra il mondo così vasto. –
Anch’io sono ebbro e perdo la sobria terra.
Dormo.

Un incendio divampa infernale

Tutti i muschi mi si avvicinano e stringono la loro vita increspata alla mia. Tutti i fiori cercano di vedermi e toccano i miei sensi tremanti facendoli risuonare. Infiorescenze ossidate di verde e delicati fiori velenosi mi stanno sollevando. Io fluttuo, e là in basso, intoccato… il mondo singolare. Poi sogno di cacce furibonde, di rossi funghi appuntiti, di grandi dadi neri che scompaiono nel nulla, sempre più piccoli, e di nuovo crescono, stupefacenti, fino a dimensioni colossali, di incendio che divampa infernale, di lotta, di lontane stelle mai viste, di eterni occhi grigi, di titani cadenti, di mille mani che si torcono come volti, di nuvole dai vapori infuocati, di milioni di occhi che mi guardano benevoli e diventano sempre più bianchi, finché li sento.

Compenetrarsi nella natura e viverne l’esuberanza

Gioia di compenetrarsi con la natura. Gioia di vivere che non può obbedire alla rettitudine della virtù, ma all’esuberanza e immoderatezza di uno spirito vizioso che intenda raggiungere la profondità irraggiungibile, il magma preponderante della natura. Come dare il giusto valore a tutto ciò che è vivo se non nel compenetrarlo? Urla Schiele:

Egon Schiele, Ritratto d’artista… pp.87, 45, 29

Vivere significa sprizzare semi, vivere significa gettar fuori semi, sperperarli, per?

Spremere da tutte le manifestazioni della natura anche l’inimmaginabile del già immaginato; far sprizzare colore… da colori che non ne hanno; succiare dai colori della vita anche i colori della morte, poiché

Vivere e morire sono cose belle

vivere e morire, sono cose belle! Io mi rallegro di entrambe! Finché esisteranno gli elementi, anche i corpi si incontreranno!

Dalla vita anche la morte: l’espressionista e la totale compenetrazione delle forze

L’espressionista (come il romantico) è sedotto dalla vita e dalle sue eccessive ed eccentriche forze naturali, e la compenetra con tutti i suoi sensi a tal punto che diviene audacemente consapevole che

Egon Schiele, Ritratto d’artista… pp.87, 45, 29

la terra respira, fiuta, ascolta, percepisce in tutte le sue più parti; acquisisce, si congiunge, si disgrega e si ritrova, gode di ciò che è vivo e cerca la logica filosofica di tutto, complessivamente…

Ma perché la rappresentazione della natura, nell’arte espressionista, si fa tragica anche se ritrae l’abbondante e rutilante energia riposta in una certa rigogliosità primaverile?

A contatto con l’uomo tutto è condannato a deperire

Dal piacere di essere con la natura al piacere di essere tra e con gli uomini, tutta l’arte espressionista si chiede quale sia il modo migliore di rivelare agli uomini tutto quello in cui, dannatamente, il loro mondo perisce: ed è per questo che la sua estetica, espressa anche nei paesaggi, deperisce insieme a ciò che deperisce, e si affanna tormentosamente ad accendere e spegnere i colori e le forme nella virulenza depressiva di una umanità che ha perso i suoi contorni, ch’è divenuta amorfa, ch’è stata fatta circolare nella circolazione dei mali.

Natura allegoria dell’umano

La natura è sempre, in un certo qual modo, l’allegoria dell’umano: a contatto con l’uomo tutto è condannato a deperire.

L’artista deve risvegliare le coscienze

Spetta all’artista risvegliare le coscienze, ricostruire tra le macerie un’arte in grado di scuotere, provocare disgusto nei riguardi di ciò che l’uomo ha reso disgustoso, agitare gli animi più rassegnati con un urlo che urli: «Agisci, uomo operoso! Sii sempre un eterno fluire!»

Egon Schiele, Ritratto d’artista… pp.17, 63

Lo slancio utopico dell’espressionista costituisce, nell’arte sua, un marchio indelebile. «Gli uomini di cultura -dirà Schiele con un certo ottimismo- possono ricostruire gli stati».

Franz Marc, La seconda vista… p.58

Affermerà Franz Marc: «La battaglia contro lo “sfruttamento del mondo”, contro l’utilitarismo soprattutto nell’arte è il nostro programma».

Johann Gottlieb Fichte, La missione del dotto, in Il pensiero moderno, (vol. III) Società Editrice Dante Alighieri, Milano 1930, p.410

Ed è indubbio che l’artista espressionista riprenda il cammino già avviato dal pensiero romantico. Fichte, riguardo al ruolo sociale del dotto, precisa:

… deve effettivamente impiegare a vantaggio della società le cognizioni che per la società ha acquistate; deve suscitare negli uomini il sentimento dei veri loro bisogni, e render loro noti i mezzi per soddisfarli.

Arte etica e sociale: un’utopia che vuole realizzare l’utopia

L’arte dell’espressionista è etica, e, come il dotto fichtiano, ha a cuore la società: la sua tecnica, votata al gesto crudo e violento, sta tutta nel tentare di liberare l’uomo dalla sopraffazione del suo spirito impoverito, e del suo sovraccarico di degenerazione sociale. Ed è tutto in questo atto che si spende l’energia dell’espressionista: attraverso la propria opera… vorrebbe che l’utopia realizzasse la propria utopia. Tutta la sua arte dà risalto alla necessità di concretizzare un gesto sociale, di mettere l’uomo di fronte ai propri mali e alle proprie miserie perché li stracci, e si consegni alla comunità rifatto, e possa così dedicarsi ad essa, e insieme ad essa migliorarla.

Liberazione dell’individualità e apertura all’universale

L’espressionista si abbandonava a una sensibilità emotiva, il suo émpito visionario lo spingeva al bisogno di incontrarsi con tutti gli elementi della natura. L’individualità doveva aprirsi al superamento dell’egoità, doveva poter dire di aver fatto l’amore con l’universale. Spiritualità voleva dire per egli: liberarsi psicologicamente ed esistenzialmente da una condizione di vita carcerata, esaurientemente oppressa dall’espansione di una mentalità borghese che, con la propria forma giuridica e finanziaria, non fa altro che imporre i propri modelli, la propria visione di progresso, il proprio gigantismo materialistico, la propria morale.

Il desiderio di libertà aperto ai rischi in nome di un’esistenza esclusiva

L’Espressionismo lottava per non essere cancellato dalla tecnologia arrogante dell’industrialismo in espansione. Il desiderio di libertà… era nell’espressionista insopprimibile. Ma il desiderio di libertà non si sottrae ai rischi insiti in un tentativo di rivoluzione. La sua libertà si identifica, schiettamente, col desiderio di avviare una rivoluzione che invocasse il diritto a esistere in una esistenza esclusiva, che avesse le sue fondamenta in una società migliore, non degradata a una collettività guidata dalla retorica autoritaria del benestante conservatore. Dirà infatti Maurice Vlaminck:

Maurice Vlaminck, Tournant dangereux, Stock, Parigi 1929, in Jean Leymarie, L’arte moderna. L’espressionismo e il fauvismo (III)… p.318

Volevo far nascere una rivoluzione nei costumi, nella vita di tutti i giorni, mostrare la natura in libertà, liberarla dalle superate teorie del classicismo, di cui detestavo l’autorità, simile a quella di un generale o di un colonnello. Non soffrivo né di gelosia né di astio, ma sentivo in me un desiderio violento di creare un mondo nuovo, il mondo che i miei occhi vedevano, un mondo per me solo.

 L’arte attraverso la rivoluzione: per un mondo nuovo e libero

Perché l’espressionista aspira a innescare con la propria arte una rivoluzione? Perché la rivoluzione è intransigente e violenta, è il «desiderio violento di creare un mondo nuovo». Solo il temperamento rivoluzionario, se messo in atto, può sperare di creare le condizioni favorevoli per sradicare ciò che è stato, e ricostruirlo in ciò che ha da essere. La rivoluzione è sempre sociale, nasce in società col bisogno di attuare una trasformazione sociale per una collettività che più non intenda adattarsi alle leggi strutturali del vecchio, e vuole perciò rifarsi un ambiente sociale in cui vivere rinnovata. La rivoluzione agisce in maniera radicale, vive (finché agisce) in uno stato di ebbrezza che trascina all’aspirazione utopica di voler trasformare l’esistente in qualcosa che prima non era.

Rendersi liberi dal potere egemone: l’arte lotta per la propropria autonomia

Non più soggiogato alla sacralità sovrana dell’autorità sacralizzata, l’artista rivoluzionario crede fermamente di potersi render libero dalla instaurazione del potere egemone. Impegnandosi in una attività dell’arte che lotti per la propria autonomia, desidera ottenere che l’individuo prosperi in una collettività sociale migliore.

Il concetto di arte si amplia e si sottrae al Bello

Con una rivoluzione avvenuta, anche il concetto di Bello non è più formulabile in termini dispoticamente universali; e, poiché ogni elemento ispirato all’organico è in estensione, anche il concetto di arte si amplia, si sottrae al termine finito, si lascia assimilare dal movimento multiformale, corporeo, dell’organico.

Contro il feticcio che domina la società

Gli espressionisti erano per una rivoluzione perché erano negatori di ogni forma di schiavitù, di vita ammanettata, ordinata, catalogata. Gli espressionisti ci dimostrano, e a ragione, che tutto nella società umana assurge a espressione di feticcio. L’icona del denaro, del potere, non è che il progresso artificiale di ciò che feconda un presente che ingoia tutto per essere il teatrino cerimonioso degli standard inespressivi, e degli eventi consolidati da brandelli gassosi.

Nella poesia di Georg Heym la città ha sconfitto l’uomo

Tutta la poesia di Georg Heym ci parla di una città che ha irrimediabilmente sconfitto l’uomo: il cittadino è contenuto come idea astratta di sé, e non come carne sensibile capace ancora di gioire e di soffrire. La città di Heym, è una grande Morgue che elargisce

cranî che biancheggiano dai cenci,

in una visione da dannati e, nell’inaridimento di se stessa, a opera di una modernità cinica, consumistica, approfittatrice, si presenta come il naufragio impiegatizio di esseri soli, mai spinti all’altezza di un vissuto vivo…

Georg Heym, Umbra vitae... pp.85-91

LA MORGUE

I custodi si aggirano furtivi
Tra i cranî che biancheggiano dai cenci.
Noi morti ci apprestiamo al viaggio estremo
Per deserti, per mari e freddi venti.

Su nudi catafalchi troneggiamo,
Di lordi stracci ognuno rivestito.
Piove calcina. E le sue grandi mani
Su noi distende un Cristo dal soffitto.

È finita, trascorsa la nostra ora.
Noi siamo giù. Vedete, siamo morti.
La notte è già nei nostri bianchi occhi,
Che non vedranno più nessuna aurora.

Davanti alla maestà fatevi indietro
Di noi, che già scorgiamo nell’inverno
Ampio il paese, su cui un’ombra tetra
Nel grigio della sera si discerne.

Voi giacete, contratti come nani,
A noi sul grembo coi grinzosi corpi –
Noi crescemmo su voi come titani
Dentro la notte eterna della morte.

Grotteschi i ceri intorno a noi, che fummo
Da bui recessi tratti troppo presto
Ancora rantolanti, il segno azzurro
Dell’uccello di morte già sul petto.

I custodi si aggirano furtivi
Tra i cranî che biancheggiano dai cenci.
Noi morti ci apprestiamo al viaggio estremo
Per deserti, per mari e freddi venti.

Su nudi catafalchi troneggiamo,
Di lordi stracci ognuno rivestito.
Piove calcina. E le sue grandi mani
Su noi distende un Cristo dal soffitto.

È finita, trascorsa la nostra ora.
Noi siamo giù. Vedete, siamo morti.
La notte è già nei nostri bianchi occhi,
Che non vedranno più nessuna aurora.

Davanti alla maestà fatevi indietro
Di noi, che già scorgiamo nell’inverno
Ampio il paese, su cui un’ombra tetra
Nel grigio della sera si discerne.


Voi giacete, contratti come nani,
A noi sul grembo coi grinzosi corpi –
Noi crescemmo su voi come titani
Dentro la notte eterna della morte.

Grotteschi i ceri intorno a noi, che fummo
Da bui recessi tratti troppo presto
Ancora rantolanti, il segno azzurro
Dell’uccello di morte già sul petto.

Ci sciolsero dai rami a cui pendemmo
Nell’aria che solcavan voli e stridi,
Ed altri scivolaron tra le canne –
Bianchi animali, gli occhi tondi e miti.

Rifiuti dell’autunno. Frutti marci,
Sfatti d’estate in mezzo alla lordura,
Noi, cui strisciava sui capelli scarsi
Il ragno bianco della gran calura.

Poveri sconosciuti e senza nome,
Morimmo soli in vuoti sotterranei.
Non chiamate chi al mondo è ormai estraneo,
Non disturbate la lieta riunione!

Guardate quello là, che un riso gramo
Intona allegro con la bocca marcia,
E sopra il petto la sua lingua inarca:
Ride di voi, il grande pellicano!

Vi morderà. È stato giorni e giorni
Insieme ai pesci. Non sentite il puzzo?
Tra i capelli si annida una lumaca,
Che beffarda fa cenno con i corni.

Una campana. – Ed ecco, se ne vanno.
Su nere mani striscia dentro il buio.
Nell’ampia sala adesso riposiamo,
Bare profonde contro l’alto muro.

Silenzio eterno. E il resto della vita
Nell’aria nera si disfa e corrompe.
Il Vento della Morte, nei polmoni
La polvere sottile delle tombe,

S’allontana ansimando, ove bruisce
Monotona la pioggia al nostro orecchio,
Che ascolta nella notte l’eco triste
Della bufera, onde la casa echeggia.

E l’aureola già della putredine
S’accende azzurra sopra il nostro viso.
Saltella un ratto fra gli ossuti piedi –
Vieni, non turberemo il tuo appetito.

Partimmo cinti al pari di giganti,
Ferrosonanti al pari di Golía.
Ed ora abbiamo topi e vermi erranti
Sulla carne per triste compagnia.

Noi Icarídi, che con ali candide
Il vortice di luce un dì fendemmo,
Udimmo il canto delle torri grandi
Precipitando nella morte nera.

Nei più sperduti pelaghi del cielo,
Nell’oceano, ove alta l’onda si ergeva,
Fieri volammo nel tramonto rosso
Con grandi vele gonfie di bufera.

Cosa trovammo agli angoli del cielo?
Un vuoto nulla. Ed ora i nostri ossami
Suonan come al mendico una moneta
Che cada a terra dalle vuote mani.


Perché indugia il Signor? La casa è piena,
Le tende intorno al caravanserraglio,
La gran fiera dei morti, ove le ossa
Verso il deserto stridule sferragliano.

Perché non viene? Indosso abbiamo i panni
E scarpe per i morti. E siamo sazi.
Dov’è il duce che marci a noi davanti,
Con lo stendardo che ci guidi i passi?

Dove echeggerà forte la sua voce?
Verso quale tramonto è il nostro volo?
Condannato ciascuno ad esser solo
Di quale vuoto cielo inganno atroce?

Riposeremo nella muta torre,
Obliati? Saremo onda di un Lete?
O in preda al vento andremo come corvi
In sella al fuoco delle ciminiere?

Saremo fiori? Esseri pennuti
Nei vasti cieli, negli oceani in collera?
Vagheremo nei visceri del suolo,
Come in morto abbandono talpe mute?


Abiteremo i riccioli dell’alba,
Oppure i frutti, fioriremo ai rami,
O -libellule azzurre- vibreremo
Sulle ninfee nell’acqua meridiana?

Saremo una parola non udita?
O un fumo che svolazza nella sera?
O un pianto, che la gioia fa smarrita?
O un sogno? O nella notte un candeliere?

O – non verrà nessuno?
E ci decomporremo lentamente,
Sotto una luna beffarda
Che trascorre veloce oltre le nubi

Ci disfaremo in nulla –
Sì che un bimbo possa serrare
La nostra grandezza un giorno
Nel suo fragile pugno.


Padroni di fronte al vuoto esistenziale

Occorrerebbe essere espressionista (e audaci come gli espressionisti) per ammettere che nei riguardi di un vuoto esistenziale è facile sentirsi padroni; che l’attività passiva del mangiare senza gustare porta alla neutralizzazione della spiritualità; che l’architettura di una voracità muscolare, inquinata dall’arroganza capitalistica, lascia il campo a un’utopia decapitata; che si vive in una condizione repressiva di sovraffollamento e di sradicamento, seguendo la quale ci si rifugia all’interno del proprio isolamento.

Spingersi a sentire l’odore delle lacerazioni

È la demenza nervosa dei corridoi mentali dell’uomo, che ha spinto la poesia espressionista a gettare nelle proprie parole la ferma nebulosità dell’orrore esistenziale.
Spingersi a sentire l’odore delle lacerazioni; avere il coraggio di ammettere che la luce del sole, vista quotidianamente da un insulso punto di vista umano, s’impiglia in una favilla decrepita.

Alfred Lichtenstein, Storie di Kuno Kohn… p.149

Spingersi a urlare: «Il giorno è ito. Il cielo è affogato»… è per l’espressionista voler stanare e sradicare quell’impoverimento dello spirito che viene come esercitato dall’impoverimento del corpo e lasciato deperire nel disprezzo del disprezzato.
L’espressionista ha notato che la città è stracciata dall’uomo che si straccia. Immensa è la sua solitudine in mezzo a tutto e a tutti. L’immiserito sfida l’immiserito con la propria miseria.
Chiusa nella dilagante perdita di sé, l’esistenza si vive fra una realtà indesiderata e mostruosa, e una realtà irrimpiazzabile per il suo libidinoso vuoto a perdere:

Alfred Lichtenstein, Storie di Kuno Kohn… p.149

NOTTE DI PIOGGIA

Il giorno è ito. Il cielo è affogato.
Qua e là mozziconi di luce sminuzzata,
Perle false, scoprono un po’ di strada,
Qualche ammasso di case.
Il resto è tutto marcio e divorato
Da nebbia nera che si abbatte
Come un muro, fradicia. E la pioggia premendo
È maceria che si sgretola -più fitta- più grigia
Quasi che tutto quel buio infetto
Ad ogni istante stesse per crollare.
Strana pianta sommersa,
Vedi un’auto luccicare giù nel fango.
Le puttane più vecchie escono strisciando
Da umide ombre – rospi intisichiti.
Là ne sguscia una. Laggiù un’ombra viene pugnalata.
L’acquazzone finirà per sterminare tutto…
Ma tu questa desolazione l’attraversi.
L’abito ti pesa. Hai le scarpe zuppe.
Il tuo occhio è pazzo di avidità e di grida.
È questo che ti incalza – e non trovi pace:
Forse tra fiamme oscure apparirà
Il demonio in forma di maiale.
Forse accadrà qualcosa
Di orrendamente idiota, brutale, infame.

Percezione autocritica, disinibita, all’avventura

La percezione dell’espressionista è senza conformismo. È autocritica: non adattabilità all’ordine cronologico dei numeri, non controllo delle proprie emozioni; sempre ispirata dal conflitto con ogni forma di autorità, è eccitazione priva di qualunque inibizione, è azzardo e avventura nell’inseguire l’arte, è recepire ogni forma di dolore che provenga da sé e dal mondo.

fabio d'ambrosio editore
via enrico cialdini, 74 - 20161 milano | p.iva 09349370156
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